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Sulle rivelazioni di Wikileaks

di Roberto Zavaglia - 05/12/2010


 

Le rivelazioni di Wikileaks sono, come ha detto il ministro degli Esteri Frattini, l’11 settembre della diplomazia oppure si tratta di una clamorosa bufala, come pensano in molti dopo avere letto i primi resoconti giornalistici? Allo stato dei fatti, non è possibile rispondere con certezza, ma l’impressione è che le ipotesi estreme siano entrambe sbagliate.

  Stiamo per ora ragionando su una parte limitata dei 250mila file “rubati” e sembra di capire che il fondatore del sito di ”controinformazione” sia in possesso, oltre a quelli annunciati, di moltissimi altri documenti che non avrebbe avuto il tempo di analizzare. Ogni giudizio rischia quindi di essere immediatamente smentito: lo stillicidio di rivelazioni potrebbe proseguire per mesi e forse anche più. Non ci troviamo, comunque, di fronte alla diffusione di segreti diplomatici da parte di un sito internet indipendente. Secondo gli accordi presi, solo cinque grandi giornali ( New York Times, Guardian, Der Spiegel, Le Monde, El Pais) avrebbero il diritto di pubblicare le carte, senza che lo stesso Julian Assange possa metterci bocca. La selezione delle notizie è quindi di competenza della grande stampa tradizionale che le “filtrerà” secondo i suoi criteri.

  Una parte consistente dei documenti  pubblicati finora è stata tutt’altro che sconvolgente. Si sono letti luoghi comuni, banalità, pettegolezzi di cui ognuno, più o meno, era a conoscenza. E’ normale che nei rapporti riservati i diplomatici esprimano giudizi politici crudi e ciò non dovrebbe suscitare meraviglia né scandalo. Al più, ci si potrebbe stupire del basso livello professionale di alcuni funzionari che riferiscono informazioni lette sui quotidiani, spacciandole per rivelazioni. I “festini selvaggi” di Berlusconi sono argomento quotidiano di conversazione in Italia e il Dipartimento di Stato, ingaggiando un semplice barista, potrebbe risparmiare un bel po’ dei quattrini spesi per i suoi diplomatici. Che dire, poi, del giudizio sulla Merkel tenace, ma priva di creatività: è un’opinione alla base di tutte le barzellette sui crucchi.

  Ad una prima frettolosa disamina, fra quelli già pubblicati ci sono però dei dispacci piuttosto “compromettenti”. Scegliendo un po’ a caso, per via della mole di informazioni riguardante quasi il mondo intero, potremmo riferirci ai durissimi giudizi politici su quello che dovrebbe ancora essere un alleato degli Usa, il capo del governo turco Erdogan, che viene dipinto come un fanatico, circondato da pericolosi ministri islamisti. I militanti del Pkk, il movimento di guerriglia curdo, autore di innumerevoli attentati sanguinosi, sarebbero invece dei combattenti per la libertà: ad Ankara non devono averla presa tanto bene. Anche il fatto che l’Arabia Saudita abbia chiesto a Washington di bombardare l’Iran o che Israele avesse preannunciato ad Abu Mazen l’invasione di Gaza non sono notizie da lasciare indifferenti i popoli coinvolti.

  Intendiamoci, non c’è nulla che non si potesse comprendere attraverso l’analisi della politica estera degli Usa: anche questo giornale, pur non disponendo di nessuna fonte privilegiata, aveva parlato delle inimicizie “segrete” di Washington verso alcuni Paesi considerati troppo indipendenti. Leggere certe verità in documenti diplomatici farà però un certo effetto soprattutto alle persone che, seguendo solo l’informazione ufficiale, possiedono un’immagine edulcorata dell’egemonia statunitense. Che tutti questi “imbarazzi” politici li abbia potuti procurare, da solo, il ventinovenne australiano Julian Assange, un tipo peraltro abbastanza misterioso, risulta difficile crederlo. Da parte di alcuni osservatori si sostiene, per esempio, che si tratti di una manovra della Cia contro le strategie del Dipartimento di Stato. Pur non amando particolarmente le teorie complottiste -che qualche volta ci prendono, ma, più di frequente, inibiscono un’osservazione puntuale della realtà- ci pare probabile che il “caso Wikileaks” sia il frutto di manovre incrociate, in cui ognuno dei protagonisti condiziona ed è contemporaneamente condizionato da altri attori della vicenda.

  La competizione internazionale, in questa fase, è fatta anche di aggressioni finanziarie, di (dis)informazione organizzata, di manipolazione dei gruppi terroristi e di altri mezzi inconfessabili. Non esiste un unico grande burattinaio, ma c’è un reticolo di potenti interessi, talvolta contrapposti, che una paziente analisi, caso per caso, può contribuire a smascherare. Per quanto riguarda l’Italia, si era stati facili profeti nell’immaginare che una parte della politica estera di Berlusconi a Washington non piacesse. O meglio che la ritenesse una spina nel fianco di cui liberarsi al più presto. Nei rapporti pubblicati sono frequenti le critiche, anche dure, dei diplomatici Usa per i rapporti del presidente del Consiglio con Libia, Turchia e, soprattutto, Russia. Il segretario di Stato Clinton pare ossessionata dall’ “amicizia” tra Putin e Berlusconi; chiede di capirci di più e di indagare se, al di sotto delle apparenze, ci siano interessi illeciti.

  Attraverso l’ambasciata a Roma, Washington ha messo in atto “un piano per mitigare il problema e contrastare la corrosiva influenza” di tale amicizia. Scrive l’ex ambasciatore Ronald Spogli: “abbiamo avviato un’offensiva diplomatica con figure chiave dentro e fuori il governo italiano” per “costruire un contrappeso di opinioni dissidenti contro le politiche russe”. E ancora: “L’ambasciata ha agito con figure di spicco del governo in forma aggressiva e a tutti i livelli”. La manovra sembra funzionare in quanto, secondo l’ambasciatore, politici della maggioranza e dell’opposizione gli  manifestano il loro interesse a “calmare la passione di Berlusconi con Putin”. Ovviamente, agli statunitensi importa poco o niente di eventuali “distrazioni” che i due capi di governo si godrebbero assieme. Quello che conta è impedire a Berlusconi di proseguire nella sua politica di difesa, in sede europea, delle ragioni di Mosca. A Washington risulta intollerabile che il governo italiano lavori per incrementare l’afflusso di risorse energetiche dalla Russia, anche attraverso il progetto di gasdotto South Stream.

  Risulta quindi confermato il timore di Washington che la mediazione di Berlusconi possa condurre a un avvicinamento tra l’Europa e la Russia. I motivi, aggiungiamo noi, sono chiari. Se l’Europa comprende che la Russia, dal punto di vista economico, energetico e geografico, è il suo naturale alleato, l’influenza statunitense sul Vecchio Continente è destinata fortemente a ridursi. A Washington questo rischio è ben chiaro, nelle capitali europee si fatica ancora a comprendere che si tratta di una grande opportunità per combattere un apparente destino di decadenza.

  Sarà interessante osservare come il mondo politico e la stampa tratteranno, dopo la pubblicazione dei documenti, la vicenda delle relazioni tra Berlusconi e Putin. Sarebbe auspicabile che tutti i partiti, compresi quelli di opposizione, non attaccassero il governo su questo punto, riconoscendo che è in gioco un elemento fondamentale dell’interesse nazionale, anche per via dei forti investimenti delle nostre aziende strategiche a partecipazione pubblica.  Se invece si scatenerà la corsa a denunciare le malefatte del “dittatore” Putin, con il quale non è lecito moralmente essere alleati, vorrà dire che il progetto di un governo tecnico nasconde quello che si temeva. Come i precedenti esecutivi di quel genere, anche questo servirebbe solo a sottomettere maggiormente il Paese agli Usa e a svendere la sovranità nazionale agli interessi del complesso economico-finanziario di matrice anglo-americana.