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Il tempo, la bellezza, la scienza

di Enzo Tiezzi - 08/12/2010

Fonte: nemetonmagazine


tiezzi

(Foto dell’autore)

I discepoli di Sais
Inverno 1797 - 1798: Friedrich von Hardenberg, in arte Novalis («colui che dissoda terra vergine») scrive I discepoli di Sais (1). Il racconto inizia facendo riferimento a una scrittura cifrata che è visibile ovunque: su ali, gusci d’uovo, nuvole, neve, nei cristalli e negli strati rocciosi, sopra le acque nel momento in cui si congelano, dentro e fuori le montagne, le piante, gli animali e gli uomini, nella luce del cielo, nelle placche di pece e vetro toccate e strofinate, nelle scaglie di ferro intorno alla calamita e nelle bizzarre combinazioni del caso. In esse si presume che sia contenuta la chiave di questa meravigliosa scrittura, la sua grammatica: ma la supposizione non tollera forme fisse, quasi volesse negarci qualsiasi chiave che possa risolvere il mistero.

Il profondo sapere di Novalis viene fuori nella descrizione del maestro di Sais: «La voce che parlava era certamente quella del nostro maestro, egli infatti sa collegare le tracce che sono disperse qua e là. Una luce particolare si accende nel suo sguardo allorché ci mostra l’antico alfabeto runico ed egli scruta i nostri occhi per vedere se anche in noi brilla la luce che rende i segni chiari e comprensibili. Se ci vede tristi perché la notte non ci abbandona, ci consola e promette all’osservatore diligente e tenace una felicità futura. Spesso ci ha raccontato che quand’era bambino l’impulso a esercitare i sensi, a occuparli, ad appagarli non gli dava tregua. Osservava le stelle e sulla sabbia tracciava la loro posizione, le loro orbite; scrutava di continuo il mare dell’aria e non si stancava di considerarne la chiarezza, i moti, le nubi, le luci. Raccoglieva pietre, fiori, insetti di ogni specie e li ordinava secondo criteri diversi. Prestava attenzione agli uomini e agli animali, seduto in riva al mare cercava conchiglie. Spiava il suo animo, i suoi pensieri deciso a ignorare dove l’avrebbero spinto i suoi desideri. Quando divenne adulto iniziò a viaggiare: visitò altri paesi, altri mari, conobbe altri climi, stelle ignote, piante animali e uomini sconosciuti: discendeva nelle grotte e rilevava come la conformazione della terra presentasse banchi e strati multicolori; plasmava nell’argilla rocce dalle strane forme. Ritrovava dappertutto cose conosciute però mischiate o abbinate in maniera stravagante, e in tal modo le cose più singolari venivano a disporsi in un loro particolare ordine dentro di lui. Più tardi cominciò a scoprire in ogni cosa l’esistenza di collegamenti, relazioni, coincidenze. Presto non considerò più nulla isolatamente. In questo quadro senza margini e dai colori più diversi cresceva la capacità di percezione dei suoi sensi: egli udiva, vedeva, toccava e pensava nello stesso tempo. Prendeva gusto a collegare tra loro cose lontane. Ora le stelle erano per lui uomini, ora gli uomini stelle, le pietre animali, le nuvole piante; giocava con le forze e i fenomeni; sapeva dove e come poteva ritrovare o suscitare questo o quello. E sapeva inoltre trarre dalle corde suoni e accordi.» Alla ricerca di «quell’armonia uomo/natura che un tempo, nell’antica età dell’oro, prima del diluvio, gli uomini possedevano spontaneamente».

Ritengo che ci siano stati popoli e culture che hanno conosciuto profondamente la natura e che, con l’uso continuo e abbinato di sensi e ragione, come fonti di conoscenza, sono arrivati a gradi di civiltà piuttosto elevati per quanto riguarda tale pensiero; alludo ai sorrisi beffardi degli Etruschi, al gran rispetto per la Madre Terra degli Indiani d’America, tutti e in particolare i Maya, penso ai miti della civiltà celtica.

Oggi invece, come sottolinea Paolo Montanari nella nota introduttiva a I discepoli di Sais, a causa della prevalenza della ragione strumentale - e aggiungerei della sua forma più rozza e perversa, il pensiero unico di molte teorie economiche dominanti oggi - unicamente preoccupata di selezionare, classificare, controllare e dominare i propri oggetti, il senso, che un tempo pervadeva ogni aspetto dell’esperienza umana, “si ritira” producendo quell’atmosfera di disincanto (eclisse degli dei) che è uno dei tratti distintivi di questo nostro secolo, così totalitario e disperato. Religione, mito, arte vengono accantonati come residui di precedenti età dell’uomo, espressioni del suo lato irrazionale, pulsionale, primitivo. Il maestro di Sais, invece, era molto vicino - senza saperlo! - a Gregory Bateson, alla sua concezione della «struttura che connette»: «Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?». Giustamente, Montanari suggerisce che l’essenza stessa di tale struttura sia estetica e che «per questa via l’arte, dichiarata più volte morta, ritrova il suo posto nel mondo, non solo come espressione del bello, ma come modo di conoscere, dato che conoscenza e bellezza coincidono».

Gli uomini in errore, ci insegna il maestro di Sais, sono coloro che vogliono sottomettere la natura e che pensano che, così facendo, il mondo intero ci apparirà chiaro come un enorme codice di cui possediamo la chiave. È l’illusione dei tecnocrati. Forse, un’illusione antichissima, quella di Prometeo. Non a caso la figura del Titano ribelle campeggia tra i “santi laici” di qualsiasi calendario “progressista”. La sua anticipa l’illusione degli “apprendisti stregoni” di oggi, l’illusione di chi crede di aver trovato in semplici algoritmi (per quanto sofisticati) il talismano per asservire la natura. La natura ha carattere evolutivo e più si cerca di comprenderla, nel senso etimologico di racchiuderla, imprigionarla nei nostri schemi, più il suo scorrere crea relazioni e complessità, memorie e possibilità creative. È lo stesso passare del tempo che non ci permetterà mai di cogliere l’attimo fuggente della conoscenza globale. Di nuovo I discepoli di Sais ci riservano una sorpresa, la favola di Fiordirosa e Giacinto, nella quale sembra sentir scorrere l’evoluzione biologica: «Anche la regione era diventata più ricca e diversa, l’aria più tiepida e azzurra, la strada più liscia, cespugli verdi lo attiravano con la loro ombra deliziosa, ma egli non comprendeva le loro parole, anzi non sembravano dialogare affatto, eppure gli riempivano il cuore di verdi chiaroscuri e vi versavano calma e freschezza. Sempre più cresceva la sua dolce aspirazione, sempre più larghe e rigogliose diventavano le foglie, sempre più rumorosi e allegri gli uccelli e gli animali, più gustosi i frutti, più impenetrabile l’azzurro del cielo, più calda l’aria, più ardente il suo amore, il tempo scorreva sempre più veloce. »

Gli apprendisti stregoni dell’ingegneria genetica

Lo scopo della scienza dovrebbe essere quello di vivere in armonia con la natura, ma alcune volte lo scienziato (o più spesso l’apprendista stregone che usa i risultati della scienza a fini di profitto, dominio e potere) ha prodotto scoperte le cui applicazioni potrebbero procurare gravissimi danni all’uomo e all’ambiente. Un esempio eclatante degli apprendisti stregoni di questa fine millennio è rappresentato dal tentativo di clonare essere umani, mentre la clonazione o la replicazione di specie viventi (vegetali o animali) è del tutto in controtendenza con l’evoluzione biologica e con la stessa origine della vita, ambedue basate sulla biodiversità e sulla diversificazione di forme, individui e specie biologiche.

Il rischio che l’ingegneria genetica porta con sé (mutazioni future, impatto sull’ambiente, distruzione di altre specie) è ancora tutto da studiare e da conoscere. Gli effetti sulle generazioni future e sul Pianeta sono imprevedibili. Basti pensare a una pianta in grado di difendersi da sé dai virus e dagli insetti (considerata, quindi, dai nostri apprendisti stregoni come una bella cosa ecologica che ci farà risparmiare in insetticidi): se ha tale potere non potrebbe essere anche il killer di microrganismi buoni e utili o di altre specie viventi? Inoltre i semi delle piante transgeniche hanno spesso bisogno di attivatori, brevettati e tenuti nei forzieri delle multinazionali delle biotecnologie che, domani, potranno chiudere il rubinetto e far pagare all’agricoltura e al consumatore prezzi altissimi. Altri semi contengono (come nel caso del mais transgenico della Monsanto) il gene “terminator”, che rende sterile il seme e il contadino si ritrova dopo il raccolto a dover ricomprare tutto dalla multinazionale, che diviene così il controllore del cibo nel mondo.

Si prospetta un duplice mercato: quello delle multinazionali anglo- americane, svizzere e giapponesi (Monsanto, Novartis ecc.) che offriranno cibi transgenici inizialmente a basso prezzo (per sfamare il mondo, dicono: e il terzo mondo sarà per loro un’immensa cavia) e, speriamo, quello di un’Europa in grado di difendere la propria agricoltura, i propri prodotti alimentari, la propria cultura legata da secoli di storia alle trame bellissime delle nostre terre e della nostra cucina.

Sul piano etico c’è da sottolineare, con Hans Jonas, che «l’ingegneria genetica si propone di svolgere la funzione di agente modificatore di strutture preesistenti, la cui realtà e il cui genere costituiscono il dato primario; realtà e genere non sono né inventati né fabbricati de novo, ma, in quanto scoperti, sono suscettibili di essere perfezionati con nuove invenzioni. In questo modo, abbiamo una fabbricazione parziale invece che totale, una modificazione del progetto invece che un progetto, e il risultato non è un artefatto finito, ma solo un suo minuscolo frammento. A ciò si aggiunga la questione della reversibilità e dell’irreversibilità. Nella tecnica meccanica tutto è reversibile. Gli organismi viventi si caratterizzano invece per l’irreversibilità delle loro modificazioni. L’ingegneria tradizionale può sempre correggere i suoi errori; e non solo nelle fasi di progettazione e di collaudo: anche il prodotto finito, le automobili per esempio, può essere rimandato in fabbrica per essere perfezionato. Non così nell’ingegneria biologica. I suoi atti sono irrevocabili. Quando i suoi risultati si palesano, è troppo tardi per fare qualunque cosa. Quel che è fatto è fatto. Che cosa fare con gli incidenti inevitabili delle manipolazioni genetiche? Ecco un problema etico che va affrontato e risolto prima di consentire anche un solo passo in quella fatale direzione.»

L’uomo, ci dicono, ha sempre modificato geneticamente la natura: si dimenticano di dire che l’ha fatto per selezionare la pianta o l’animale più utile, agendo sul fenotipo, mai manipolando direttamente il genotipo. Vorrei, infine, aggiungere che la grande differenza nell’agire come “ingegneri” sul gene di organismi viventi (animali o vegetali) sta nel fatto che il blue-print (progetto) di un essere vivente è dentro di lui, è diverso per ogni individuo e passa le informazioni alle future generazioni, mentre il blue-print (progetto) di una macchina è uguale per tutte le macchine di quel tipo e sta sul tavolo dell’ingegnere.

Io, discepolo di Prigogine

Sono passati milioni di anni da quando la nostra «bisnonna alga azzurra», come la chiamava Laura Conti, compì la rivoluzione fotosintetica dando luogo alla vita sulla Terra. Se guardiamo a questa grande storia evolutiva, da cui siamo venuti, si scoprono tre protagonisti, ignorati dalle scienze fisiche dominanti: la bellezza, il tempo e la biodiversità. Una visione scientifica della natura puramente quantitativa, che nega la fondamentale categoria ecologica della qualità e l’importanza dell’estetica, mostra oggi tutti i suoi limiti di fronte alla complessità delle dinamiche temporali del sistema biologico (la biosfera) e dell’ecosistema globale, dinamiche temporali basate su molteplici relazioni in co-evoluzione che si basano sulle forme, sulle informazioni, sui colori, sui suoni, sugli odori, sui sapori.

La storia della natura è una storia sistemica ed evolutiva, è una storia in cui quantità e qualità sono continuamente co-presenti, è una storia in cui l’estetica gioca un ruolo determinante. Una scienza della natura non può oggi non fare i conti con tutto questo; una moderna fisica evolutiva avrà più bisogno della geometria dei frattali di Benoit Mandelbrot, che della geometria euclidea; avrà più bisogno della termodinamica delle strutture dissipative di Ilya Prigogine, che della relatività di Einstein.

I due aspetti nuovi e interessanti della geometria dei frattali (da fractus: interrotto, irregolare) sono l’approccio globale («generalista», dice Mandelbrot, e non «specialista») e il fatto che si parte dalla natura e si costruisce su di essa una geometria della natura (delle coste, delle nuvole, dei cristalli, delle galassie) usando oggetti geometrici ritenuti fino ad oggi «esoterici», come scrive lo stesso Mandelbrot. La geometria della natura è caotica e sta stretta dentro il modello euclideo; i frattali ci permettono di veder qualcosa in più nel caos della biosfera usando processi stocastici e quindi accoppiando caso e scelte, esattamente come avviene nel grande processo dell’evoluzione biologica. L’osservazione della natura ci insegna due cose importanti: la qualità e il tempo non sono valori esterni, ma proprietà insite nella materia vivente. Questa è la grande lezione della teoria darwiniana dell’evoluzione biologica, teoria che - tra l’altro - ha il grande pregio di non indicare fini o certezze nel divenire dell’evoluzione stessa: Darwin ha più volte sottolineato il ruolo fondamentale del caso e l’assenza completa di un fine verso cui tendere. Il tempo modula forme e strutture, suoni e colori. Tutta la storia dell’evoluzione biologica è intrisa di queste proprietà. I colori, le forme e le strutture passano le informazioni tra specie vivente e specie vivente, tra vegetali e animali, tra noi e l’ambiente. La “scienza oggettiva” ha ridotto i colori a pura misura e l’azzurro a pura radiazione con lunghezza d’onda di 440 nanometri; come “l’arte soggettiva” ha demandato solo al soggetto l’esistenza stessa del colore e ha ridotto il colore a pure sensazioni.

Se invece vogliamo vedere un’arancia anche come un’arancia blu, senza rinunciare all’arancio; se vogliamo contaminare la scienza con l’arte e l’arte con la scienza è necessario parlare di relazioni, di strutture che connettono, di interazioni tra il soggetto e l’oggetto osservato. In altre parole il colore verde di una pianta esiste indipendentemente dal fatto che lo vediamo, proprio perché preesisteva alla mente umana con le sue funzioni da milioni di anni e, prima della comparsa dell’uomo sulla terra, era riconosciuto da milioni di organismi vegetali e animali. Ma è anche contemporaneamente vero che, nel guardare una pianta, la nostra mente inizia una serie di interpretazioni, di sintesi razionali e intuitive e tesse una serie di relazioni con la pianta stessa e con le emozioni ricevute da questa. E tutto ciò è influenzato sia dalla nostra cultura sia dal nostro patrimonio genetico. Questo significa fondere microscopico e macroscopico, superare la visione dicotomica tra riduzionismo e antiriduzionismo, studiare i fenomeni biologici in termini di relazioni e di autoorganizzazione, così da vedere globalmente coerenti i comportamenti individuali delle parti. Usare una filosofia della natura, che definirei lucreziana, in cui l’estetica sia determinante nello studio scientifico, nelle scelte economiche, nella politica e nell’intrecciare i primi nuovi alfabeti di colloquio tra noi e la natura. Significa sottolineare ancora una volta, con Bateson, che va demolito «l’assunto antiestetico, derivato dall’importanza che un tempo Bacone, Locke e Newton attribuivano alle scienze fisiche, cioè che tutti i fenomeni possono e devono essere studiati e valutati in termini quantitativi». Qualità e forma hanno valore scientifico.

La qualità e il tempo hanno svolto un ruolo fondamentale nell’evoluzione biologica, contribuendo al successo evolutivo delle specie e modellando le forme di vita. Queste due categorie, assunte a fondamento di un’epistemologia del divenire, rappresentano oggi, in una visione ecologica sistemica, veri e propri valori di cui tener conto sia nell’educazione scientifica sia nelle scelte per uno sviluppo sostenibile. Lo studio dei sistemi viventi evidenzia il ruolo determinante del tempo nella trasformazione delle strutture (sia molecolari che biologiche) e quello della forma nelle relazioni tra specie. Viene così di conseguenza recuperato il valore della “qualità” e sottolineato il fondamentale apporto scientifico dell’estetica della natura. In una nuova cultura non lineare e sistemica, trame e narrazioni aggiungono chiarezza e complessità al discorso scientifico. Il tempo, inteso come numero di relazioni intercorse e come informazioni immagazzinate nel sistema energia-materia, modella le forme molecolari nell’evoluzione biologica. Il tempo non è un’astrazione, è parte integrante della materia, fa parte di ciò che esiste e non si può descrivere alcuna teoria politica, sociale, economica se non si tiene conto dell’irreversibilità del tempo stesso. Il problema del tempo è fondamentale, perché le strutture che connettono noi con l’altro e che sono parti integranti della co-evoluzione di natura e mente umana hanno il tempo dentro. Senza tempo non si può spiegare come tali strutture si modifichino e come vadano avanti. Non si chiede di rinunciare alla razionalità del nostro modo di pensare, ma piuttosto di recuperare una serie di valori etici ed estetici, di andare al fondo di quello che Gregory Bateson chiama l’ecologia della mente. In una visione di co-evoluzioni, con tempi diversi, con ritmi diversi, all’interno delle grandi leggi di natura che preesistono alla mente e ai modelli ideologici dell’uomo, si sono evoluti e si evolvono ambienti, nicchie, specie diverse. La natura non è mai uguale a se stessa: cambia, e cambiando, manda flussi di informazioni continue alla mente dell’uomo e l’uomo con le sue scelte colloquia e modifica ampiamente la natura: due entità, uomo e natura, in continua reciproca informazione.

L’universo è fatto di relazioni tra materia ed energia. La musica, i suoni, le parole sono energie che intessono relazioni tra specie biologiche diverse: in questo splendido gioco la componente estetica è essenziale. Ridurre le onde sonore a modelli matematici e a misure solo quantitative è perdere gran parte della realtà biologica, a detrimento della scienza- conoscenza. Estetica, quindi, come superamento di una visione scientifica puramente quantitativa e come introduzione della fondamentale categoria ecologica della qualità. La qualità della vita ha bisogno di estetica. Alla base di un’auspicata svolta di civiltà ci dovranno essere dunque anche i valori estetici. La scienza occidentale ha inquadrato la Natura in regole geometriche e in leggi meccaniciste. Sappiamo che questo non è vero per i sistemi viventi, per gli ecosistemi, per gli eventi della biologia e dell’ecologia.

Nelle due grandi rivoluzioni culturali della fisica di questo secolo, la teoria quantistica e la relatività, le caratteristiche delle leggi meccaniciste, determinismo e reversibilità, sono state del tutto inglobate: l’irreversibilità e il ruolo del tempo non hanno trovato dignità scientifica né nella fisica quantistica né nella relatività. Tutto questo porta a uno schizofrenico dualismo scientifico tra essere e divenire, tra descrizione statica della Natura e comportamento irreversibile del vivente. Andare nella direzione di una visione evolutiva della Terra significa anche unificare le due culture, la scientifica e l’umanistica. La scienza ha dato troppo spazio allo spazio, ignorando il tempo. Nella storia, nelle cose umane, in ecologia, il ruolo del tempo è invece fondamentale: le memorie sono sicuramente più importanti dei chilometri.

Il premio Nobel Ilya Prigogine così scrive: «La visione classica della scienza portò a una dicotomia: nel 1663, quando Robert Hooke promulgò lo statuto della “Royal Society”. Egli così ne descrive gli scopi: “migliorare la conoscenza delle cose naturali e tutte le Arti utili, le Manifatture, le pratiche Meccaniche, le Macchine e le Invenzioni per mezzo di Esperimenti” e aggiunge “senza pasticciare con Teologia, Metafisica, Morale, Politica, Grammatica, Retorica o Logica”. Troviamo di già la divisione delle “Due Culture” di C.P. Snow [tr. it. Feltrinelli, Milano, 1970]. Il rinnovato punto di vista sulla natura che sta oggi emergendo supererà, si spera, tale opposizione tra interesse nella natura da una parte e interesse nell’uomo dall’altra. » (I. Prigogine in E. Tiezzi, Fermare il tempo. Un’interpretazione estetico-scientifica della natura, Cortina, Milano, 1996)

Ecco che allora la nuova fisica evolutiva lascia i sicuri ormeggi del determinismo e/o del soggettivismo, per includere nei paradigmi di base l’incertezza e l’irreversibilità; accetta, cioè, finalmente la stocasticità del tempo come proprietà intrinseca della materia. La visione della meccanica classica e della meccanica quantistica è una visione semplificata. È sotto gli occhi di tutti che la natura presenta instabilità e caos: la fisica non può ignorarlo. Se riusciremo a fare incontrare la fisica evolutiva con l’estetica, la scienza con l’arte, l’ecologia dei sistemi complessi con la filosofia, potremo cominciare a percorrere i sentieri della creatività, valore indispensabile per la ricerca scientifica e per l’arte.