Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Lepanto, battaglia totale

Lepanto, battaglia totale

di Alessandro Barbero - 08/12/2010

 
 

0
Nel 1971 a Lepanto le flotte veneziane, spagnole, pontificie e genovesi (unite nella Lega Santa) combatterono una battaglia cruciale contro gli ottomani. “Il Sole 24 ORE” pubblica un brano del nuovo libro di Alessandro Barbero La battaglia dei tre imperi, in cui l’autore analizza i rapporti diplomatici e le reciproche strategie di veneziani, spagnoli e del papato, durante l’ideazione e la preparazione della spedizione militare.

Non appena in Occidente si sparse la voce della prossima uscita della flotta turca, papa Pio V decise che quella era l’occasione buona per realizzare un progetto che sognava da tempo: l’unione delle potenze cristiane per affrontare gli infedeli in mare con forze schiaccianti, e mettere fine una volta per tutte alla minaccia che gravava sulla Cristianità.
Quando divenne sempre più evidente che la tempesta era destinata a scaricarsi su Cipro, il vecchio inquisitore lombardo divenuto pontefice, persecutore accanito di ebrei ed eretici, volle affrettare i tempi, persuaso com’era che i veneziani, nonostante i loro ostentati preparativi bellici, avrebbero finito per cedere al sultano se fossero stati lasciati soli. Già intorno alla metà di febbraio 1570 il nunzio Facchinetti accennò al doge l’opportunità di stringere una Lega con gli altri principi cristiani; ma in quei giorni i veneziani si stavano di nuovo illudendo che l’obiettivo dell’armata fossero i possedimenti del Re Cattolico, e reagirono freddamente, non avendo nessuna voglia di essere costretti a rompere la pace col sultano per correre in soccorso di Filippo II. Ma già pochi giorni dopo le illusioni erano cadute, e quando il papa ne riparlò all’ambasciatore veneziano Michele Suriano, quest’ultimo il giorno stesso comunicò la proposta a Venezia; il Collegio fece sapere di essere interessato e che si rimetteva alla mediazione del pontefice, e lo fece con tanta fretta che la risposta giunse a Roma il 4 marzo, in meno di una settimana.
Per capire quanto fosse eccezionale questa disponibilità, bisogna ricordare che fino ad allora spagnoli e veneziani s’erano trattati poco meno che da nemici, specialmente in mare. Non erano passati molti anni da quando dei soldati del Re Cattolico, catturati su un legno che aveva osato darsi alla pirateria nel l’Adriatico, erano stati impiccati sull’isola di Lesina; molti altri prigionieri erano stati incatenati al remo sulle galere della Repubblica, e gli ufficiali, quando passavano al largo di Lesina, li chiamavano sarcasticamente e indicavano le forche, dicendo che quella doveva essere la fine di tutti i «ponentini» che osavano entrare nelle acque veneziane. Ma in quella primavera del 1570 Venezia, nel pieno degli affannosi e costosissimi provvedimenti per armare la flotta e spedire truppe in Levante, abbracciò senza esitazioni la proposta di un’alleanza. Il papa, che da tempo incoraggiava i veneziani a riavvicinarsi al re Filippo per far fronte comune contro gli infedeli, confessò che non li aveva mai trovati così entusiasti: il cardinal Mula, veneziano, vantava in Concistoro i vantaggi della Lega, «e com’era facile con essa disfare in poco tempo il potere del Turco». Tanto entusiasmo nascondeva però una riserva: a Venezia si sperava che i turchi, sapendo di dover affrontare oltre alle galere della Repubblica anche quelle del re di Spagna, avrebbero potuto rinunciare alle loro pretese. L’ambasciatore Sigismondo di Cavalli ebbe ordine di spiegare al re che la flotta del sultano sarebbe uscita «molto per tempo, et molto potente»; che le voci la dicevano diretta a Cipro, ma poteva anche darsi che intendesse invece soccorrere i moriscos; che tutti i principi cristiani dovevano stare ben attenti a non permettere che quella flotta, la più numerosa mai uscita da Costantinopoli, si sentisse «libera padrona del mare, senza sospetto delle forze d’altri»; perciò tutti dovevano fare la loro parte, e come i veneziani stavano allestendo «la maggior armata che habbiamo fatto in altro tempo», così doveva fare il Re Cattolico.
Il Senato si spingeva fino a suggerire al Cavalli le precise parole che doveva sussurrare all’orecchio del re: e cioè che le flotte cristiane, «stando vicine l’una all’altra, è cosa credibile che siano per tener la turchesca in gelosia» e disturbare i suoi disegni. Si trattava insomma di vincere una guerra psicologica, per non essere costretti a fare quella vera: non per nulla il segretario Buonrizzo, arrivando a Ragusa insieme a Kubad, e trovando lì i primi avvisi delle trattative in corso, fece tutto il possibile per impressionare il ciaus, magnificando la flotta che le potenze alleate avrebbero messo in mare. [...] L’ambasciatore a Roma, don Juan de Zúñiga, ammise che non ci si poteva fidare troppo dei veneziani, i quali adesso avevano paura per Cipro, ma se poi il nemico avesse attaccato Malta «farebbero quello che gli pare»; ma in realtà tanto lui quanto il cardinale di Granvelle, vecchio consigliere di Filippo II, guardavano al progetto con grande favore. Se il sultano avesse veramente preteso Cipro, continuava lo Zúñiga contagiato dall’ottimismo generale, la Repubblica seppur controvoglia avrebbe dovuto dichiarargli guerra «e procurare la sua rovina, che si potrebbe sperare in pochi giorni, unite le forze di Vostra Maestà con quelle dei veneziani». Naturalmente i rappresentanti spagnoli si guardarono bene dal far sapere in giro la loro opinione, in modo che il re fosse libero di far pagare caro l’eventuale consenso. Filippo II, meno facile all’entusiasmo, osservò che l’alleanza conveniva soprattutto alla Repubblica, ma che comunque era interessato a discuterne. Appena ricevuta la risposta veneziana, Pio V scrisse al re una magnifica lettera latina per esortarlo ad aderire alla Lega, poi decise di mandargli un inviato straordinario per spiegare tutta l’urgenza della situazione. Don Luis de Torres, alto funzionario della Camera Apostolica, venne scelto per la missione in segno di cortesia, in quanto spagnolo, anche se la corte di Madrid non apprezzò, «tenendolo de razza non molto antica» e insomma non abbastanza nobile, come osservò malignamente l’ambasciatore toscano. Il Torres partì da Roma in gran fretta il 16 marzo; il tenore delle istruzioni che aveva ricevuto da Pio V in persona è indicativo dell’attenzione con cui il papa seguiva la situazione strategica, e dell’urgenza che il problema militare rivestiva in quel momento ai suoi occhi, tanto da avere la precedenza sul dettaglio diplomatico. Don Luis doveva innanzitutto convincere il re a «inviare le sue galere verso Sicilia in quel più numero che si può»; per rafforzare la richiesta, l’inviato doveva ricordare al re che per concessione papale il clero spagnolo gli pagava un’imposta, il cui scopo almeno in teoria era di tenere in mare 60 galere in servizio della Cristianità. [...] Per almeno un paio di mesi dopo la partenza dell’inviato, in Italia dominò l’ottimismo: l’unione delle due flotte pareva cosa fatta e la punizione del Turco inevitabile.