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Obama, la recita é finita

di Michele Paris - 11/12/2010

Il patto appena siglato tra la Casa Bianca e il Partito Repubblicano per il prolungamento di altri due anni dei tagli alle tasse introdotti da George W. Bush nel 2001 per tutti i contribuenti americani, sembra aver inferto un colpo mortale ai rapporti tra Barack Obama e la sinistra del Partito Democratico. Lo spostamento sempre più a destra del presidente in questi primi due anni del suo mandato sta sollevando, più in generale, un coro di critiche tra la base del partito e i commentatori liberal. Alcuni di questi ultimi recentemente hanno così prospettato per la prima volta la possibilità concreta, nelle primarie democratiche del 2012, di opporre ad Obama un candidato “di sinistra”, nell’illusione di convincere il partito ad adottare una vera agenda progressista.

L’ennesimo compromesso cui è sceso Obama è stato dettato, a suo dire, dal ricatto messo in atto da un Partito Repubblicano fresco di vittoria nelle elezioni di medio termine dello scorso novembre. Grazie al lavoro del vice-presidente Joe Biden, la Casa Bianca avrebbe ottenuto quanto meno il prolungamento dei sussidi di disoccupazione per tredici mesi e altre modeste misure fiscali a beneficio dei lavoratori a basso reddito. In cambio, i repubblicani si sono assicurati un’estensione dei tagli alle tasse in scadenza a fine anno per tutti i redditi, forzando la mano ad un presidente che intendeva invece confermarli solo per quanti dichiarano entrate non superiori ai 200 mila e ai 250 mila dollari, rispettivamente per single e famiglie.

L’accordo bipartisan aggiungerà qualcosa come 900 miliardi di dollari ad un deficit già colossale e che gli stessi repubblicani continuano ad indicare come l’emergenza principale del paese. Il passaggio al Congresso non è in ogni caso assicurato, dal momento che soprattutto alla Camera dei Rappresentanti numerosi esponenti democratici devono ancora essere convinti della bontà del provvedimento. Anche perché, in un periodo di crisi appare difficile spiegare a milioni di americani in crisi un’iniziativa che destinerà un quarto dei tagli fiscali complessivi all’uno per cento della popolazione in cima alla scala dei redditi. Come se non bastasse, alcune fasce di reddito più basse vedranno addirittura aumentare il loro carico fiscale, mentre l’esenzione dalla tassa di successione (abbassata dal 55 al 35 per cento) è stata alzata da uno a cinque milioni di dollari e il tetto sul carico dei “capital gains” fissato ad un misero quindici per cento.

Proprio la trattativa sui tagli alle tasse pare avere segnato una rottura definitiva tra Obama e la costellazione liberal fatta di editorialisti, società civile e associazioni sindacali più o meno allineati al Partito Democratico. Il disagio sentito da costoro riflette una speranza perennemente frustrata di vedere i democratici adottare prima o poi un programma progressista, o quanto meno battersi per esso. Questa delusione palpabile, ormai ampiamente diffusa negli editoriali dei media cosiddetti di sinistra, nasce in realtà da una vana illusione e dall’incapacità di valutare il Partito Democratico per quello che è: cioè un partito, come quello repubblicano, interamente asservito agli interessi delle élite economico-finanziarie che rappresentano i veri centri del potere negli Stati Uniti come altrove.

L’auspicio di un’irrealizzabile svolta a sinistra con un candidato dalle credenziali autenticamente progressiste, da proporre per la nomination democratica del 2012, non differisce di molto dall’inutile attesa di molti liberal americani per un Obama finalmente in grado di mantenere la promessa di cambiamento che lo proiettò verso il successo nel 2008. A conferma della natura illusoria delle aspettative che si nutrono a sinistra del Partito Democratico, c’è d’altra parte l’impietosa realtà di questi ultimi anni. Se infatti i democratici non sono stati in grado di lavorare per una società più giusta nonostante la conquista della presidenza e le ampie maggioranze nei due rami del Congresso dopo le elezioni del 2006 e del 2008, è necessario forse cominciare a farsi qualche domanda sulla vera natura del partito.

Un dubbio questo invece che non inquieta mai una classe di intellettuali liberal che, come lo stesso Partito Democratico, non mette ormai più in discussione un modello sociale ed economico, come quello capitalistico, che negli ultimi tre decenni non ha fatto altro che creare disuguaglianze, precarietà, miseria e guerre, per non parlare della distruzione dell’ambiente e della continua compressione dei diritti civili. A guidare i democratici seduti al Congresso e alla Casa Bianca sono esclusivamente gli interessi di quei poteri forti che finanziano le loro campagne elettorali milionarie e che, allo stesso modo, pagano ricchi stipendi a editorialisti e intellettuali incapaci di far intravedere una visione di società alternativa ad una working-class e ad una classe media sempre più prive di vera rappresentanza politica.

Una dimostrazione esemplare di quest’attitudine della stampa liberal d’oltreoceano si è potuta leggere in alcuni interventi dello scorso fine settimana, a seguito dell’annunciato compromesso sui tagli fiscali. La popolare pubblicazione on-line The Huffington Post ha ospitato, ad esempio, due editoriali di autorevoli commentatori progressisti. Il primo, Robert Kuttner, fondatore e co-direttore della rivista liberal The American Prospect, critica Obama per aver spostato a destra il baricentro della sua amministrazione dopo la batosta di medio termine. La deriva centrista della Casa Bianca appare agli occhi di Kuttner la conseguenza dell’incapacità di Obama di “agire da leader progressista”. Il fallimento che viene attribuito al presidente sembra essere un mero deficit personale e la sua ipotetica sostituzione nelle presidenziali del 2012 dovrebbe perciò bastare a implementare un’agenda progressista.

È poi preoccupazione di Kuttner che Obama possa diventare l’Herbert Hoover democratico, il presidente repubblicano che precedette Roosevelt e la cui eredità principale sarebbe a suo dire l’aver dato vita ad una generazione di egemonia democratica a Washington. Un timore singolare, visto che solo due anni fa l’avvento di Obama veniva salutato dai media liberal come l’alba di un dominio democratico che sarebbe durato per molti anni. Da queste premesse fuorvianti derivano inevitabilmente due proposte illusorie: il rilancio di un movimento di attivisti dal basso che possa galvanizzare un elettorato del tutto sfiduciato e la promozione di un candidato progressista nelle primarie del 2012.

Sullo stesso Huffington Post ha scritto poi Clarence B. Jones, docente a Stanford e già amico e confidente del reverendo Martin Luther King. Anche per Jones il problema è la gestione del potere di Obama e la sua inclinazione personale al compromesso con i repubblicani, dimenticando le aspettative degli elettori. Da qui perciò un altro appello ad una sfida da sinistra nelle primarie democratiche, come accadde nel 1968, quando il senatore del Minnesota Eugene McCarthy si oppose a un Lyndon Johnson che appariva intoccabile e che finì invece per abbandonare la corsa alla presidenza.

La prospettiva di un nuovo trionfo repubblicano di qui a un paio d’anni è infine la premessa per una simile proposta avanzata dal rabbino progressista Michael Lerner, attivista politico e direttore del magazine Tikkun. Dalle colonne del Washington Post, Lerner prevede gli effetti devastanti di un successo repubblicano nel 2012 per l’economia, l’ambiente, la giustizia sociale e il prolungamento del conflitto in Afghanistan, senza rendersi conto che in tutti questi ambiti la situazione è già peggiorata in questi anni, nonostante le affermazioni democratiche del 2006 e del 2008. Per Lerner un candidato democratico alternativo tra due anni non avrebbe alcuna chance di ottenere la nomination ma servirebbe a spostare a sinistra il baricentro di un secondo mandato Obama. Quest’ultimo, infatti, sarebbe pressato da un movimento popolare, la cui mobilitazione appare tuttavia alquanto improbabile, viste le cocenti delusioni seguite alle presidenziali del 2008.

Abbozzare una lista di possibili candidati da opporre a Obama appare al momento impossibile. Per Matt Bai del New York Times, l’unica personalità in grado di sostenere un tale ruolo sarebbe l’ex segretario del Partito Democratico, Howard Dean. Già governatore del Vermont, Dean non sembra però intenzionato a correre nuovamente per una nomination, soprattutto dopo che il suo tentativo nel 2004 fallì miseramente dopo solo due successi ottenuti nel suo Stato e nel District of Columbia.

Se Obama dovrà sostenere una battaglia interna al partito in vista delle presidenziali del 2012 è in ogni caso troppo presto da prevedere. Quel che è certo è che un tale scenario non contribuirà a cambiare un sistema paralizzato da un bipartitismo che non permette lo sviluppo di una politica di contrasto ai grandi interessi economici e finanziari. A comprenderlo perfettamente sono quei cittadini americani che hanno rinunciato da tempo a partecipare ad elezioni che servono unicamente a legittimare la linea pro-business di un Partito Democratico che si dichiara paladino di lavoratori e classe media solo in campagna elettorale.

A non volerlo capire ancora è invece un’intellighenzia pseudo-progressista, che non vede alternative di sinistra oltre il Partito Democratico e che appare completamente integrata in un sistema che le assicura posizioni di prestigio e profumati compensi. Non a caso, in tutte le analisi dei commentatori sopra citati non vi è nemmeno l’ombra di un riferimento ad un progetto di riorganizzazione delle forze liberal al di fuori del Partito Democratico, l’unica strada percorribile per rompere una struttura di spartizione del potere che continua ad escludere la grande maggioranza dei cittadini americani.