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Ossessione

di Francesco Lamendola - 13/12/2010





Che cos’è una ossessione?
Il vocabolario Zingarelli ci informa che si tratta della «condizione di chi ha l’anima invasata dal demonio» (confondendo però grossolanamente “ossessione”e “possessione”, che sono due cose diverse: e anche questo è un segno di quanto la demonologia sia caduta in basso, nella cultura dell’uomo moderno: cosa che, direbbe Baudelaire, non può che riempire il Maligno di maligna soddisfazione).
Come secondo significato, ma di natura specificamente psicologica, il medesimo vocabolario ci dice trattarsi di una «idea prevalente, a contenuto per lo più assurdo, che disturba il corso normale del pensiero, accompagnata da ansia».
Come terzo significato - infine - la parola, per estensione, può anche designare «una preoccupazione angosciosa e persistente».
La radice etimologica ha a che fare con l’idea dell’assedio di qualcosa da parte di qualcuno; infatti, il «Dizionario Etimologico» di Giacomo Devoto spiega che la parola “ossessione” deriva dal latino “obsessio, -onis” e vale “occupazione”; si tratta di un «nome d’azione di “obsidere”, “assediare”, composto di “ob” e “sedere”, con normale passaggio di “-ĕ” in “-ĭ” in sillaba interna aperta»; da cui “ossesso”, «dal latino “obsessus”, participio passato di “obsidere”, “assediare”».
L’ossessione è, dunque, una idea fissa che genera angoscia; una idea maniacale, allucinatoria, delirante, che perseguita un essere umano; un pensiero compulsivo, incontrollato e incontrollabile, che altera l’equilibrio della personalità ed impedisce al soggetto di vedere le cose distintamente, lucidamente, responsabilmente.
Ora, le domande da farsi sono: in quale misura siamo ossessionati; in quale misura l’ossessione entra a far parte delle nostre vite; in quale misura il mondo moderno è un mondo ossessionato, invasato da idee assurde, che sconvolgono la vita e generano angoscia e smarrimento?
«L’urlo» di Evard Munch è il ritratto impietoso di questa nostra condizione; così come lo sono le «Maschere nude» di Luigi Pirandello; così come lo sono la Fosca di Tarchetti, la contessa Livia di Camillo Boito, la Lupa di Verga, la Marina di Malombra, di Fogazzaro; così come lo sono i folli impiegatucci di Gogol, i demoni di Dostojevskij, gli allucinati protagonisti di molti racconti di Poe, di Maupassant e di Lovecraft, gli uomini masochisti di Von Sacher Masoch, i personaggi autodistruttivi di Federigo Tozzi, il professor Aschenbach di Thomas Mann e tanti altri, il cui nome è legione.
L’ossessione insorge quando un individuo ha smarrito il proprio baricentro spirituale, quando la sua anima si è confusa e la sua mente ha perso l’equilibrio; quando i valori si disgregano, quando la volontà è impari all’intelligenza, quando si apre una voragine fra la valutazione obiettiva delle proprie possibilità e le aspettative coltivate in segreto.
Si è ossessionati dal sesso, come il protagonista di «A ciascuno la sua notte» di Julien Green; dalla smania della “roba”, come Mastro-Don Gesualdo; dalla rivoluzione, come il protagonista de «L’impazienza» di Trifonov; dall’invidia, come il protagonista del romanzo omonimo di Oleša; dall’odio per il proprio benefattore, come Barkilphedro ne «L’uomo che ride» di Victor Hugo (su quest’ultimo, cfr. il nostro articolo «Alcune riflessioni sulla reale natura dell’odio», apparso sul sito di Arianna in data 19/05/2007); dalla gelosia, come l’Otello di Shakespeare; dal fumo, come il giovane Zeno Cosini di Svevo; da una diva sexy del cinema, come i protagonisti de «Il club dei fan» di Irving Wallace; dalla propria paura, come il Don Abbondio di Manzoni; dal delitto come affermazione di superomismo, come il Raskolnikov di «Delitto e castigo»; da una poverissima cameriera messicana dalle ciabatte sfondate, come il protagonista di «Chiedi alla polvere» di John Fante.
Ce n’è per tutti i gusti e per tutte le epoche, da Don Chisciotte che è ossessionato dalle avventure dei cavalieri erranti, al maggiordomo de «Il cuore rivelatore» di Poe, che è ossessionato dall’occhio di avvoltoio del suo vecchio padrone.
E ancora, passando dalla letteratura al cinema, si può rimanere ossessionati dal timore di essere dei vigliacchi, come Gary Cooper nel film «Cordura» di Robert Rossen; da un urlo che distruggerà il mondo, come nel film «L’urlo» di Jerzy Skolimowski; da un vecchio amore che ritorna con furia distruttiva, come in «La signora della porta accanto» di Truffaut; dall’ingombrante mito del padre eroe, per poi scoprire che era una traditore, come in «Strategia del ragno» di Bertolucci; dal ginocchio di una bella ragazza, come ne «Le genou de Claire» di Rohmer; dallo spettro della vecchiaia che avanza, come in «Viale del tramonto» di Billy Wilder; dal rancore per l’ex moglie, per il caldo afoso, per la città e per il mondo intero, come in «Un giorno di ordinaria follia» di Joel Schumacher; dall’angoscia per la bomba atomica dei Cinesi, come Jonas Persson in «Luci d’inverno» di Bergman; dal mito del fantastico Eldorado, come in «Aguirre, furore di Dio» di Werner Herzog.
Se, poi, dal cinema si passa alla vita reale e alla storia degli ultimi tre secoli, si rimane disorientati dalla vastità e dalla diffusione del fenomeno: uno è ossessionato dal “pericolo giallo” o dagli Ebrei; un altro è ossessionato dai dischi volanti e dalle creature extraterrestri; un terzo è ossessionato dalle più strane divinità, dalle più improbabili sette e dai relativi rituali.
Ma tutte le ossessioni della modernità, fino a quella - più recente - della macchina, che le riassume e le compendia, sono figlie, in qualche modo, dell’ossessione originaria, scaturita dall’ideologia delirante di un progresso illimitato - una ideologia estranea al mondo pre-moderno -, diffusa dai “philosphes” illuministi con la loro mania paranoide di voler portare a tutti, che lo volessero o no, i «lumi» della Ragione, liberandoli e salvandoli dalle tenebre abiette dell’oscurantismo, della superstizione e della religione.
Invero vi è qualcosa di maniacale, di compulsivo, di malato, nella personalità di un Rousseau, ossessionato dalla perduta bontà originaria dell’uomo anteriormente alla civiltà; così come vi è qualcosa di maniacale nella febbre egualitaria e giustizialista di un Saint-Just o, ancora, nel delirio sessuale, perverso e paranoico, di un De Sade: tutte anime che si sono confuse, menti che hanno perso l’equilibrio, popolando la propria vita - e quella altrui - di ombre mostruose.
I filosofi della tarda modernità non sfuggono a questo destino, al pari delle teste coronate e dei “giustizieri” anarchici di queste ultime. L’ossessione superomistica di Nietzsche lo trascina nei vortici della follia, similmente a quanto accade a re Ludwig di Baviera, preso dalla sua ossessione artistica e musicale. L’ossessione della fuga dal proprio personaggio pubblico porta l’imperatrice Elisabetta d’Asburgo a vagabondare irrequieta attraverso mezzo mondo, fino ad incrociare i passi del suo assassino, il “vendicatore” Luccheni, ossessionato dall’idea di togliere di mezzo i simboli viventi del potere.
Ma perché le ossessioni penetrano con tanta facilità nella cittadella del nostro io, apparentemente così razionale, così sicuro di sé, così imbevuto di fiducia nel progresso?
Forse perché quell’io si regge su una menzogna fondamentale; su un tradimento originario verso la parte più vera di noi stessi; verso ciò che potremmo essere, se solo avessimo il coraggio di volerlo essere realmente?
Forse perché abbiamo venduto la vita della nostra anima per un piatto di lenticchie: quelle cose inerti, quei beni materiali con i quali il consumismo ci adesca e ci seduce, soffocando e uccidendo la nostra parte migliore, quella che vorrebbe guardare verso l’alto?
Forse perché, inseguendo il dominio illimitato sulle cose, abbiamo voltato le spalle a ciò che più conta: imparare a guardarci dentro con onestà e trasparenza; imparare a volerci bene senza troppe indulgenze e senza sciocco narcisismo?
Non potrebbe darsi che, a ben guardare, tutte le nostre ossessioni si riducano a una sola, quella di non saper essere se stessi; e che l’ossessione delle cose o delle persone, non sia che il travestimento del rimorso e del senso di colpa per non aver dato ascolto alla sola cosa per cui vale la pena vivere: sforzarsi, giorno per giorno, di divenire se stessi, fino a poter sostenere il proprio sguardo nello specchio?
Werther era ossessionato dal suo amore infelice per la bella Lotte, così come Faust lo era dal sogno dell’eterna giovinezza: ma che cosa è questo, se non la spia di una incapacità di accettarsi per quel che si è, con le proprie debolezze e imperfezioni, con le proprie viltà e paure, ma anche con la coscienza di essere fedeli a se stessi: con l’altro se possibile, e se no senza di lui; con il vantaggio della gioventù, finché esso esiste, e poi senza di esso?
Le persone non cadrebbero preda delle loro ossessioni, se non smarrissero la barra del timone nel mare agitato della vita.
Se gli occhi di una graziosa fanciulla o se le nostre stesse rughe viste nello specchio sono sufficienti a ossessionarci, allora vuol proprio dire che abbiamo ben poca fiducia in noi stessi, ben poca stima di noi stessi, ben poco amore per noi stessi.
Vi sono persone che, abbandonate dall’amante, non si rassegnano e non riescono a pensare ad altro: diventano moleste, aggressive, persecutrici; oppure cadono in depressione, si ammalano, tentano il suicidio.
A volte non sono state realmente abbandonate, perché non sussisteva alcuna relazione: hanno fatto tutto da sole; da sole hanno creduto che vi fosse una storia d’amore, da sole hanno creduto di essere state tradite, deluse, respinte, quando - invece - non erano mai state ricambiate.
Così il protagonista della commovente novella «Il Re di Spagna», ne «I racconti di Pietroburgo» di Nikolai Gogol; così i protagonisti di tanti fatti di cronaca nera, che arrivano al delirio e al delitto, perché non sopportano la perdita di un amato bene che non hanno mai posseduto, se non nella loro malata fantasia.
Anche nella nostra esperienza personale abbiamo incontrato più volte simili dinamiche illusorie e distruttive; un nostro carissimo amico è addirittura perseguitato da una intera famiglia, ma specialmente dalle componenti femminili di essa, le quali, rimaste deluse in non si sa quali assurde e immotivate aspettative, sembrano decise ad esigere una spiegazione, una riparazione, una vendetta, forse…
È incredibile come il mondo sia pieno di queste figure spettrali, allucinate, potenzialmente distruttive, che si aggirano gonfie di frustrazione e di aggressività pronta ad esplodere: ora supplichevoli e insistenti, ora minacciose e violente: anime perse, che non hanno mai saputo guardarsi dentro e riconoscersi per quel che sono, ma che hanno preferito costruire dei castelli di sabbia nella loro immaginazione, allo scopo di poter rovesciare sugli altri la responsabilità dei loro ripetuti, continui fallimenti esistenziali.
«Ah, se solo lei non mi avesse lasciato…»; «Ah, se solo lui mi avesse capita…»; «Ah, se solo questo e se solo quello…».
Che tristezza; eppure sono in tanti, in tantissimi a fare così.
Ed è un errore, il più grave di tutti: il tradimento verso se stessi, camuffato da amore deluso verso gli altri.
«Che errore, comportarsi così!», mormora l’archeologo interpretato da Charles Dance, un attimo prima di spirare accanto al cadavere dell’amata Helen Mirren, nel film di James Dearden «L’isola di Pascali», allorché si rende conto che a tradirlo, facendolo cadere in una mortale imboscata dei soldati turchi, è stato proprio quel Ben Kingsley, ossessionato dallo squallore della propria mediocrità e dal sogno di una vita diversa, al quale aveva offerto la propria amicizia e gli strumenti per spiccare il volo verso un’esistenza più piena e più autentica.
«Che errore, comportarsi così!»: dovremmo mettere questa frase in cornice e guardarla fissa almeno una volta al giorno, per non scordarcene mai.
Che errore, non essere capaci di vivere la propria vita, e riversare sugli altri, sulle situazioni, persino sugli oggetti, la rabbia e l’amarezza per tale incapacità.
Perché a tutti gli sbagli c’è rimedio, tranne forse che a questo: fabbricarsi dei nemici di comodo, delle inverosimili congiure, delle perfidie da parte del destino, per non dover fare l’unica cosa veramente degna di un essere umano: guardarsi, riconoscersi, accettarsi ed amarsi per ciò che si è, pur decisi a lavorare su se stessi per migliorarsi sempre, ogni giorno e ogni minuto.
Che errore, lasciarsi invadere e dominare dalle ossessioni…