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Il Politico, l’Economico e la guerra

di Fabio Falchi - 13/12/2010


Il Politico, l'Economico e la guerra

Che la guerra non faccia bene all’economia di un Paese è una proposizione che la maggior parte delle persone considerano vera. Degno di nota però è che sia una proposizione universale, dato che equivale al giudizio universale negativo “nessuna guerra favorisce l’economia di un Paese”, esattamente come la proposizione “l’uomo è un animale razionale” equivale al giudizio universale affermativo “tutti gli uomini sono animali razionali”. E si sa che una proposizione universale, affermativa o negativa, è falsa se è vera la proposizione contraddittoria (rispettivamente, la particolare negativa o affermativa). Basta quindi che vi sia (stata) una guerra che non abbia danneggiato, ma anzi abbia favorito l’economia di un Paese per ritenere falso che la guerra non faccia bene all’economia di un Paese. In tal caso si potrebbe invece affermare che di regola la guerra non fa bene all’economia, poiché, ammettendo qualche eccezione, questa affermazione sarebbe comunque vera. Ma di quale guerra e di quale Paese si stia parlando, lo si sarà già capito. Vediamo brevemente perché (1). Negli Stati Uniti, alla fine della Seconda guerra mondiale, gli impianti industriali erano cresciuti rispetto al 1939 del 65%, la produzione di beni industriali era aumentata più del 50% (dal 1941 al 1945 nacquero oltre 500.000 nuove aziende), c’erano 18,7 milioni di occupati in più rispetto al 1939, il tonnellaggio della flotta mercantile era il doppio di quello inglese (nel 1941 era la metà), le riserve auree erano i 2/3 del totale mondiale, la quota americana della produzione manifatturiera era diventata più della metà di quella mondiale e il saldo attivo della bilancia dei pagamenti era salito alla sbalorditiva cifra di 14,3 miliardi dollari. Il Pil, che nel 1939 era poco meno di 100 miliardi di dollari, nel 1945 era più di 200 miliardi di dollari. I redditi individuali durante la guerra passarono da 1.432 dollari a 2.517 dollari, la percentuale dei redditi annuali sotto 1.000 dollari diminuì dal 24% (1941) al 5,6% (1944), i redditi fra 3 e 4.000 dollari passarono dall’11% al 21,5%, mentre metà della popolazione aveva un reddito tra 2000 e 5000 dollari. I consumi complessivi (caso unico tra i belligeranti) aumentarono da 70 a circa 120 miliardi di dollari. Inoltre, a Bretton Woods (agosto 1944) si gettarono le basi di un nuovo ordine mondiale (FMI etc.), liquidando il “blocco della sterlina” che prima della guerra controllava un terzo del commercio mondiale. In termini economici, gli Usa erano diventati i padroni del mondo. Unico vero problema da risolvere era lo “spettro” della recessione e della disoccupazione (l’inchiesta del Senato statunitense calcolò che i disoccupati potevano risalire a 6/7 milioni). Gli Usa però erano diventati una “superpotenza” politica, militare ed economica e poterono quindi ristrutturare l’economia capitalistica mondiale in funzione dei propri interessi, senza correre il rischio di vedere annullati i “guadagni” ottenuti durante la guerra (e grazie alla guerra). E il piano Marshall certamente contribuì a risolvere il problema.

Questa “redistribuzione” delle quote della ricchezza mondiale portò alla formazione di quel complesso politico-militare-industriale che detiene il potere negli Usa e che dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi ha continuato a crescere e a rafforzarsi, tanto è vero che gli Usa nel secondo dopoguerra sono praticamente sempre stati impegnati in conflitti militari: Cina (1945-6, 1950-3), Corea (1950-3), Guatemala (1954, 1967-9), Indonesia (1958), Cuba (1959-60), Congo belga (1964), Perù (1965), Laos (1964-73), Vietnam (1961-73), Cambogia (1969-70), Grenada (1983), Libia (1986), El Salvador (anni ’80), Nicaragua (anni ’80), Panama (1989), Iraq (1991-99), Bosnia (1995), Sudan (1998), Serbia (1999), Afghanistan (2001-?), Iraq (2003-?). Pertanto, non sorprende che persino dopo la fine della guerra fredda le spese militari americane siano continuamente aumentate. Solo nel 2009 gli Stati Uniti hanno stanziato per la difesa l’enorme cifra di 534 miliardi di dollari (mentre nel 2010 tale cifra sale addirittura a circa 700 miliardi), benché la somma complessiva sia stata di circa 780 miliardi di dollari, calcolando altre spese (tra cui quelle per la guerra in Iraq e in Afghanistan), ma senza contare i bilanci (segreti) dei servizi dell’Fbi e della Cia. Ed è proprio il fatto che la potenza capitalistica dominante spenda cifre così colossali nel settore della difesa (sì che si suole designare lo Stato americano come un Warfare State, come uno Stato in cui non solo vi è al potere un comitato d’affari – di cui fanno parte politici, industriali, finanzieri e militari – ma la cui economia dipende dalla potenza militare e dalla capacità di usarla a proprio vantaggio) che induce a ritenere che il “nesso” tra guerra ed economia non lo si possa spiegare senza tener conto del significato di ciò che si intende per guerra. Non v’è dubbio infatti che un’economia capitalistica, tranne la notevole eccezione di quanto accadde nella Seconda guerra mondiale, tragga, di norma, maggiori benefici allorché vi è un ordine internazionale regolato dalla “logica” degli scambi commerciali, senza che sia necessario fare la guerra per difendere i propri interessi. L’eccezione però, lungi dal rappresentare una “parentesi storica”, sembra portare alla luce, anche per tutto ciò che ne è derivato, un tratto costitutivo del rapporto tra il Politico e l’Economico, poiché se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, secondo la famosa definizione di von Clausewitz, allora non vi può essere autentica soluzione di continuità tra guerra e politica e il passaggio dall’una all’altra concerne il modo in cui le diverse potenze confliggono tra di loro (3). Di conseguenza, tenendo anche presente che il ruolo della potenza militare di un Paese è, in definitiva, analogo a quello degli apparati coercitivi di uno Stato, il cui compito principale consiste nel difendere un determinato ordinamento sociale (compito che uno Stato assolve tanto meglio quanto meno deve ricorrere all’uso della forza; ed è osservazione della massima importanza per capire che la politica di potenza è sotto il profilo economico tanto più “remunerativa” quanto meno vi è bisogno di ricorrere alle armi per imporre la propria volontà), è innegabile che le relazioni politiche configurino sempre una situazione di conflitto, che non potrebbe avere termine se non con la scomparsa della politica medesima. In questa prospettiva, la pace la si deve pensare quindi come un certo equilibrio, ma sempre dinamico, tale cioè da richiedere continui aggiustamenti o interventi più o meno “pesanti” a seconda dell’efficienza del gruppo dominante e della capacità di resistenza di gruppi di dominati, sia che si tratti di gruppi sociali sia che si tratti di Paesi emergenti, che aspirano a modificare l’ordine esistente. Tralasciando la difficile questione del “nemico interno”, ovvero della lotta sociale, per concentrarsi sullo scontro tra potenze – decisivo comunque anche per capire la lotta sociale – è facile osservare che, se politica e guerra designano un continuum o, se si vuole, differenti gradi di intensità della lotta politica per mantenere o modificare un determinato equilibrio tra potenze, l’Economico appare necessariamente “sovradeterminato” dal Politico, essendo esso stesso strumento di dominio e quindi in ultima analisi essendo esso stesso Politico (4). Pertanto, affermare che l’Economico prevale rispetto al Politico ha senso se e solo se si ritiene che nella società di mercato la funzione politica è prima di tutto volta ad assicurare lo sviluppo dell’apparato tecnico-produttivo disciplinando l’intero sistema sociale (dall’istruzione al mondo dell’informazione) e l’ordine internazionale in modo da far prevalere le ragioni del mercato, ossia gli interessi di determinati potentati economici, che di fatto controllano, direttamente o indirettamente, la macchina dello Stato, in particolare dello Stato che svolge il ruolo di potenza predominante nel mondo capitalistico. Caratteristica fondante della politica dello Stato capitalistico predominante è allora quella di articolarsi in base alla stessa logica dell’Economico, vale a dire secondo la logica della crescita illimitata, che consiste non solo nel conquistare nuovi mercati, ma addirittura nel cercare di pervenire ad un equilibrio tale da non poter essere più modificato, onde realizzare un sistema mondiale in grado di autoregolarsi, senza alcun “attrito” (parola che von Clausewitz usa proprio per denotare lo “scontro”). Ideologia del progresso che, contraddetta in modo tragico dalla storia del Novecento, si è rivelata essere non altro che “utopia”. Ma è “utopia” che struttura la politica imperialistica della talassocrazia inglese prima e quella della talassocrazia americana poi; anche se solo quest’ultima, del tutto priva di qualsiasi idea di limes e senza “vincoli” di carattere storico e/o culturale, si è mostrata capace di perseguire con coerenza un tale scopo, facendo anche leva sulla “credenza” (detestabile finché si vuole, ma profondamente radicata nella cultura americana) secondo cui l’America sarebbe la nuova/vera Israele che ha il compito di salvare l’umanità liberandola dal “male”. Sicché guerra ed economia nel Paese più “avanzato” dell’Occidente stanno tra loro nello stesso rapporto in cui si trovano guerra e politica; sono cioè due facce della medesima medaglia, in quanto l’intero sistema sociale statunitense è, nella sostanza, una megamacchina bellica, il cui scopo apparente/ideologico è quello di difendere la pace e la sicurezza nel mondo, mentre quello reale consiste nell’imporre la propria volontà a qualsiasi altra volontà di potenza con qualsiasi mezzo. Perciò non è affatto un caso che la forma della guerra sia mutata, non perché la terra sia ormai dominata dal mare e dall’aria (come invece afferma Massimo Cacciari in “Geo-filosofia dell’Europa”) (5), bensì perché è l’idea stessa di limite, di “con-fine” che non trova “luogo” nell’immagine del mondo che caratterizza la potenza talassocratica nordamericana, a cui – come intuirono i due colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui, i quali, nel loro saggio “Guerra senza limiti” (6), sostengono, tra l’altro, che “il terreno di scontro nelle nuove guerre è ovunque” – lo sviluppo della tecnologia, in particolare di quella informatica, consente un’azione geostrategica, su scala globale, contro l’intero sistema sociale di un Paese nemico, attraverso le manipolazioni dei media, le azioni di pirateria sul web, le turbative dei mercati azionari etc.). Una volontà di potenza illimitata che generando forme di conflitto “asimmetrico” spiega, almeno in parte, il motivo per cui alcune organizzazioni politiche (indipendentemente dal fatto che siano tutte veramente tali oppure siano, per così dire, “eterodirette”) che si contrappongono al Leviatano statunitense, o ai suoi “alleati”, possono ricorrere talvolta al terrorismo (non solo arma terribile dei “poveri” contro i “ricchi”, ma anche logica – sebbene aberrante – conseguenza della nuova forma di guerra che si è venuta ad imporre specialmente con la fine del bipolarismo e il tentativo degli Usa di conquistare o controllare il “cuore” dell’Eurasia). Comunque sia, è evidente che l’attrito tra le diverse potenze, rivelando la funzione politica dell’Economico, contribuisce a demistificare l’ideologia liberale della “mano invisibile” del mercato e a mostrare il carattere storico e sociale dei rapporti di dominio in base a cui è organizzata la società di mercato. Con il passaggio dalla guerra fredda – durante la quale, essendo i due “blocchi” sostanzialmente separati l’uno dall’altro, le cosiddette “guerre per procura” erano conflitti limitati e ben circoscritti – alla guerra senza limiti (diversa dalla guerra totale, come fu la Seconda guerra mondiale, o dalla guerra rivoluzionaria, incentrata, in ogni caso, sulla figura del “partigiano”, che difende il suolo nazionale contro l’invasore – anche se tutt’e tre queste specie di guerra appartengono probabilmente al medesimo genere), si rivela pure chiaramente la funzione “bellica” dell’apparato tecnico-produttivo occidentale. Difatti, l’Economico, oltre a “supportare”, sotto il profilo logistico, un apparato militare “tradizionale”, tende a configurarsi esso stesso come un gigantesco e complesso “sistema d’arma” per dominare “terre e popoli”. Tanto che si potrebbe affermare che, in un certo senso, anche l’Economico può essere la continuazione della politica con altri mezzi.

 

Tuttavia, ci si deve chiedere se il fallimento dell’attuale strategia del Leviatano e il (relativo) declino della sua potenza, per la resistenza di altre potenze (compresi quei “centri di potenza” che sono – o cercano di essere – potenze regionali o che sono troppo ben radicati nel proprio territorio per essere sconfitti dalla macchina bellica americana), sia significativo anche per comprendere il rapporto tra il Politico e l’Economico. In primo luogo, si deve osservare che non vi è alcun blocco socialista che si contrapponga ai Paesi capitalisti; si assiste invece alla diffusione in ogni Paese della tecnologia e delle scienze occidentali, e ovviamente anche del “mercato”, sia pure in modi e forme diversi (perciò si parla di capitalismo di Stato o di economie miste etc.). D’altra parte, si deve notare che l’Economico si distingue nettamente come “spazio autonomo” solo in età moderna e sono proprio le talassocrazie (Gran Bretagna e Stati Uniti) che adottano una “strategia” di tipo “economicistico” (ovverosia usano il proprio apparato militare ed economico come strumento di dominio e di proiezione illimitata di potenza, cioè come strumento politico) per modificare a proprio vantaggio consolidati (anche se relativi) equilibri, opponendosi alle potenze “telluriche” (Spagna, Francia, Germania ed infine Unione Sovietica). Da un lato ne consegue che il multipolarismo – che caratterizza, sebbene sia ancora nella fase iniziale, il periodo storico in cui ci troviamo, dopo la brevissima parentesi dell’unipolarismo statunitense, che, come è noto, non pochi intellettuali “frettolosi” e, in verità, non sempre in buonafede, ritenevano coincidesse con il declino degli Stati nazionali ed addirittura con la scomparsa delle diverse identità nazionali – in quanto “segna” dei limiti e implica differenti ordini e misure pare già, in un certo senso, in contrasto con la logica “economicistica” (forma “mistificata e mistificante” del Politico), che ha nella talassocrazia americana la sua maggiore e più matura espressione. Dall’altro si deve riconoscere che nessuna potenza (grande o piccola che sia) che attualmente è in lotta contro il Leviatano si può definire una talassocrazia; il che pare avvalorare l’ipotesi che il contrasto tra terra e mare, magistralmente analizzato da Carl Schmitt in un celebre saggio (7), continui, benché in forme nuove e in gran parte ancora da comprendere, anche perché esse stesse soggette a rapidi mutamenti. Se così fosse il multipolarismo sarebbe, con ogni probabilità, al tempo stesso causa ed effetto di un diverso modo di intendere il rapporto tra il Politico e l’Economico, ché in epoca moderna lo scontro tra potenze “telluriche” e talassocrazie è scontro tra potenze basate sul primato della funzione politica e potenze basate sul primato della funzione economica e sullo sviluppo illimitato della funzione tecnico-produttiva. Scontro che riflette due concezioni alternative dello Stato e della società. Del resto, considerando quanto si è in precedenza affermato, per primato della funzione politica si deve intendere un “ordine politico”, cioè un complesso di istituzioni e di “categorie” politiche in grado di regolare l’economia secondo un’idea di “ragione pubblica” e di “bene comune” e che agisce secondo una idea di sovranità nazionale e di uno sviluppo sociale, che non prescinde o difficilmente può prescindere da quella che Schmitt denomina iconografia, cioè da una particolare cultura e da un particolare ethos che deriva da un determinato passato storico. Sì che la natura asimmetrica della guerra senza limiti, portando alla luce anche le “ragioni” di differenti popoli e culture, sembra anche necessariamente connessa con la difesa di una determinata identità nazionale, tanto che è lecito supporre che una certa politica “nazionalpopolare” (diversa – per grado e/o per forma – nei diversi Paesi) sia una caratteristica delle potenze “telluriche”, che le differenzia dalle democrazie liberali occidentali (in realtà, veri e propri regimi politici oligarchici, in cui il potere è detenuto, con il consenso di molti, da pochi che lo esercitano, perlopiù, nell’interesse proprio e a danno di molti). Al tempo stesso, si deve tener conto non solo della sempre maggiore complessità delle relazioni internazionali, che può essere causa di continui squilibri e attriti anche tra le potenze che si oppongono alla talassocrazia americana, ma anche dell’azione contingente dei vari Governi, nonché dei reali rapporti di forza e dei diversi interessi che possono condurre ad improvvisi rovesciamenti di fronte o all’adozione di strategie di “mascheramento” non sempre facili da giustificare o da capire (per quanto sia sempre possibile distinguere tra una politica di potenza che non riconosce alcun limite e che ha come scopo lo sradicamento di ogni “identità” diversa dalla propria, ed una politica di potenza che invece, perlomeno in linea di principio, si oppone alla “pre-potenza” della ragione mercantile). Peraltro, si deve pure considerare che ormai vi sono le condizioni per la formazione di nuovi “grandi spazi”, dato che i limiti dei singoli Stati nazionali e i loro mercati interni risultano essere troppo piccoli nell’epoca della cosiddetta “globalizzazione”, e che si moltiplicano le possibilità di riconoscimento reciproco delle diverse culture, venendo meno false dicotomie e barriere obsolete, che erano il presupposto di quel nazionalismo ottuso di cui l’umanità europea pare essersi definitivamente liberata. Sotto questo aspetto, sono indubbiamente preziose ed utili quelle critiche della società moderna che mirano a valorizzare le identità locali e a rafforzare il legame sociale basandosi su una concezione alternativa dell’Economico e del Politico (ovvero che contrappongono “comunità e decrescita” ad un sistema politico e ad un apparato tecnico-produttivo sempre più autoreferenziali) (8). Ciononostante, qualora non si tenga conto della necessità di confrontarsi, anche dal punto di vista teorico, con il mutamento della forma medesima della guerra e di quel che ciò implica per quanto concerne il Politico e l’Economico, si rischia non solo di difendere un’idea “ingenua” dell’Economico (9) e di perdere di vista il ruolo del Politico (e quindi del “conflitto”) nello strutturare le relazioni di qualsiasi comunità, ma anche di favorire una sorta di “narcisismo identitario”, funzionale alla strategia neoatlantista (si pensi non solo a quanto si è verificato in seguito al collasso dell’Unione Sovietica, ma soprattutto alla disgregazione della Iugoslavia ed alla creazione di un “narcostato” come il Kosovo, che “ospita” la gigantesca base americana di Camp Bondsteel), che tramite la “polverizzazione geopolitica” mira ad impedire che si possa contrastare efficacemente la realizzazione di un “supermercato internazionale” a guida americana. Nell’opposizione all’universalismo “totalitario” del Leviatano si dovrebbe invece vedere la “reale possibilità” di dar vita ad una struttura policentrica, senza illudersi di poter eliminare il conflitto che è a fondamento di ogni equilibrio politico, ma anche senza rinunciare a prospettive geopolitiche tali da far valere l’unità spirituale dei popoli eurasiatici. Vale a dire senza rinunciare a fondare un nuovo Nomos della terra, che Schmitt riteneva essenziale per poter costruire e abitare insieme, prendendosi cura delle proprie radici ma consapevoli della funzione insostituibile del Politico.

Fabio Falchi

Note

1) I dati che seguono sono tratti dalle seguenti opere: (a cura di) V. Castronovo, “Storia dell’economia mondiale”, Rizzoli, Milano, 1982, E.Galli della Loggia, “Il mondo contemporaneo”,Il Mulino, Bologna,1982, G.Mammarella, “L’America da Roosevelt a Reagan”, Laterza, Bari,1984 e R.Overy, “La strada della vittoria”, Il Mulino, Bologna, 2002.

2) Vedi C.W.Mills, “L’élite del potere”, Feltrinelli, Milano,1986.

3) Lo storico militare britannico John Keegan, nella sua opera “La grande storia della guerra” (Mondadori, Milano,1996), ha criticato duramente la definizione della guerra difesa dal teorico prussiano (che presuppone, anche secondo Keegan, la definizione aristotelica dell’uomo come animale politico). Merito di Keegan è aver messo in evidenza la stretta relazione tra guerra e cultura e come quest’ultima influisca sul modo di fare la guerra, la quale, in definitiva, è un fenomeno culturale. Tuttavia, lo storico britannico, anche se pare stigmatizzare più i cattivi interpreti di von Clausewitz che non il loro “maestro”, si lascia sfuggire che secondo von Clausewitz la guerra è “sovradeterminata” dalla politica ed è anche quindi un fenomeno culturale. Sicché, è vero, come mostra Keegan, che la cultura- la quale certamente varia a seconda delle epoche storiche e delle diverse concezioni del mondo – è decisiva per comprendere che anche la guerra è pur sempre una forma dell’agire dell’uomo, ma dell’uomo in quanto animale politico, dacché, per usare il linguaggio di Heidegger, “l’esser-ci (dell’uomo) è sempre un essere nel mondo insieme con (altri uomini)”. E proprio considerando le “concrete” (nel senso del verbo latino “concrescere”) relazioni tra gli esseri umani, il Politico può essere sì “distinto” dalle altre sfere sociali (come prova, ad esempio, la netta differenziazione tra cittadino e individuo, indubbiamente connessa con la formazione di uno spazio economico autonomo), ma non “separato” da queste ultime, compresa naturalmente la sfera economica. Il che mi pare sia un’ulteriore conferma della “natura olistica” del legame sociale.

4) Per intendere meglio quanto segue mi permetto di rimandare a un mio breve articolo :  http://www.cpeurasia.eu/1178/il-politico-e-leconomico .

5) Vedi M. Cacciari, “Geo-filosofia dell’Europa”, Adelphi, Milano, 1994.

6) Vedi Q. Liang e W. Xiangsui, “Guerra senza limiti”, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2004 (seconda edizione con postfazione del generale Fabio Mini)

7) Vedi C.Schmitt, “Terra e mare”, Giuffrè, Milano, 1986.

8) Il riferimento è al libro di A. de Benoist, “Comunità e decrescita. Critica della ragion mercantile. Dal sistema dei consumi globali alla civiltà dell’economia locale”, Arianna, Casalecchio (Bo), 2005. Oltre ad Alain de Benoist e a Serge Latouche, si devono considerare rappresentanti significativi del movimento comunitarista alcuni filosofi di lingua inglese (in particolare, Alasdair MacIntyre, Michael Sandel e Charles Taylor) ma anche il filosofo italiano Costanzo Preve. Il movimento comunitarista quindi è ben lungi dall’essere una corrente di pensiero unitaria, benché via sia una certa “aria di famiglia” tra gli autori che, sia pure a diverso titolo, si richiamano alla problematica comunitaria.

9) Al riguardo, si devono tener presenti le analisi di Gianfranco La Grassa, che da anni è impegnato nell’elaborazione di un impianto teorico, “fluido” e aperto al mutamento storico e sociale, per “ripensare” non solo Marx ma lo stesso rapporto tra il Politico e l’Economico secondo un prospettiva “non ingenua” e antieconomicistica (di G. La Grassa si vedano non solo i suoi libri, ma anche gli articoli disponibili sul blog http://conflittiestrategie.splinder.com/ ).