Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Antonio Pennacchi e il camerata Neandertal

Antonio Pennacchi e il camerata Neandertal

di Mario Grossi - 13/12/2010


Primo: Neandertal si scrive senza acca.
Secondo: questo non è un libro vero,
è solo un divertissement
o – meglio ancora – un’incazzatura…

A. Pennacchi

Antonio Pennacchi, se non fosse che mi ricorda mio padre, lo denuncerei. Ogni volta che pubblica qualcosa me la compro, comincio a leggerla e passo inevitabilmente notti insonni, fino a che non me la sono finita tutta. Lo denuncerei come attentatore della mia salute e del mio equilibrio emotivo.

Anche questa volta, che mi sentivo appagato dalla lettura di Canale Mussolini, ci sono cascato. Anche se il volume che ha pubblicato con Laterza lo scorso mese di ottobre, Le iene del Circeo, era in parte a me noto dagli articoli comparsi su Limes, ci sono cascato. Anche se, essendo nato geologo e collezionista di fossili e sull’argomento ho letto molto, potevo lasciar perdere, ci sono cascato.

Ma sono bastate alcune pagine ed eccomi sprofondato nella poltrona, avvinghiato al volumetto a sghignazzar mela bellamente.

Pennacchi, dicevo, mi ricorda mio padre. Mio padre che mi ripeteva sovente, lui che era ingegnere, «Ci sono molti ingegneri non ingegnosi e molti ingegnosi che non sono ingegneri». E aggiungeva: «Quando devi discutere con qualcuno, costruisciti un parallelepipedo di granito: la verità, piazzatici sopra e combatti. Nessuno potrà muoverti da lì».

Non lo diceva in tono supponente o moralistico. Aveva una visione della verità dinamica, fatta non tanto di certezze ma di volontà di comprensione. La considerava l’altra faccia della libertà. Riteneva quel parallelepipedo una base di partenza, priva di pregiudizi, in equilibrio instabile ma potente, formata da nuclei di dubbio da cui si condensavano le domande che, da uomo d’ingegno, si poneva sempre quando affrontava un problema e non gli tornavano i conti. Mi diceva che bisognava fregarsene di chi, citando Tizio e Caio, schermandosi dietro al paravento dell’autorevolezza si gongolava in quella verità d’accatto, non provata ma solo ripetuta.

Pennacchi è così, o almeno a me sembra da quello che scrive. Non è un ingegnere senza ingegno è un ingegnoso senza laurea in ingegneria. Come mio padre è facile all’incazzatura, magari lascia perdere su un mucchio di cose, ma guai se, per una questione di principio, qualcosa non gli torna. Sono dolori per tutti. Non a caso si autodefinisce un gran rompicoglioni. Rompicoglioni sia, ma di genio.

Lo dimostra, una volta di più, in questo Le iene del Circeo, che lui stesso classifica più nel genere dell’invectiva che in quella delle confutationes. «Io qui difatti non do la spiegazione esaustiva di nessun problema escatologico, non fornisco la parola “che mondi possa aprire”. Pongo solo una serie di interrogativi a certe spiegazioni che hanno fornito gli scienziati patentati, ma che a me non m’hanno per niente convinto. Pongo problemi. Faccio domande. Me le diano loro le risposte. Se sono capaci».

Tutto è cominciato quando il nostro, partecipò casualmente, nel lontano 1989, a un convegno “The fossil man of Monte Circeo: Fifty years of studies on the Neandertals in Latium” che faceva il punto sugli studi del cranio di un uomo di Neandertal che fu rinvenuto, in un semicerchio di pietre, nella grotta Guattari sul promontorio del Circeo e che prese il nome dal proprietario di un piccolo alberghetto lì dappresso che, facendo dei lavori di scavo nel terreno dietro l’albergo, scoprì un’apertura che dava ingresso alla grotta del cranio.

Il Guattari avvisò il suo amico Blanc, famoso paletnologo dell’epoca, che a seguito del ritrovamento formulò l’ipotesi che si trattava di una sepoltura e che gli uomini di Neandertal praticavano l’antropofagia rituale. Questa ipotesi si basava sui tratti neandertaliani del teschio, sull’allargamento del buco occipitale del cranio e sul fatto che quel semicerchio di pietre non poteva essersi creato naturalmente, ma qualcuno lo aveva costruito.

Al convegno, tra gli altri, partecipò uno studioso americano, Tim White, che insieme a un suo amico «aveva studiato accuratamente il cranio in oggetto, ed era arrivato alla sconvolgente conclusione che allo stato delle cose non c’era nessunissima prova che le modificazioni prodotte sul reperto fossero in qualche modo imputabili ad attività umana. Anzi a Grotta Guattari, 51 mila anni prima, quel cranio ce lo aveva portato una volgarissima iena. Loro ci avrebbero visto con il laser delle tracce – dei graffi – compatibili con quelli lasciati dai denti di detto carnivoro».

A sottolineare la bontà dell’ipotesi di White ci si mise anche il professor Giacobini dell’Università di Torino. Ci fu un parapiglia. Il professor Antonio Ascenzi, dell’Accademia dei Lincei, e collaboratore di Blanc ironicamente commentò: «Non mi risulta che le iene o la natura si divertano a fare dei circoli di pietre per metterci dentro i crani».

Sta di fatto che Pennacchi, dopo il convegno, si disinteressò a questa disputa scientifica fino al 2006, anno in cui fu organizzato a Sabaudia un nuovo convegno sullo stesso tema. Ciò che fece infuriare Pennacchi fu il comunicato stampa che annunciava l’evento. Vi si leggeva che “nel precedente convegno del 1989 era stata dimostrata, a cura di studiosi americani, la tesi sull’origine animale dell’allargamento del forame occipitale del cranio neandertaliano del Circeo. Venne così rivista la teoria della cerebrofagia rituale dell’illustre paletnologo A. Carlo Blanc, del quale proprio quest’anno ricorre il centenario della nascita”. Comunque Pennacchi ci è riandato «Oh porca paletta….. Che ti venga la peronospora della vite: tu mica puoi metter la iena e Blanc sullo stesso piano. Li festeggi tutti e due? Non si può fare, perché se quel cranio ce lo ha portato la iena, anche le pietre ce le ha messe : non si scappa, o Dio o Mammona dice pure il Vangelo, non tutti e due assieme».

Da qui nasce tutta la rabbia e la curiosità al contempo che ha spinto il nostro a dedicarsi a quest’argomento con una forza e con una cocciutaggine che, miscelata alla sua sapienza narrativa, gli ha permesso di costruire un’invettiva appunto che, ben lungi dall’esaurirsi nella disputa, apre scenari che sconfinano nel mito e nella narrazione mitica, tanto da trasfigurarsi in un piccolo poema epico che percorre quasi tutto il fluire dell’umanità.

A questo punto potrebbe sorgere spontanea una domanda. D’accordo tu sei geologo e collezionista e ti può interessare un argomento simile, ma tutti noi che geologi e collezionisti di fossili non siamo? Che ce ne frega a noi del cranio di Neandertal del Circeo? Mai domanda sarebbe più inopportuna. Mai dubbio più ozioso. Un libro di Pennacchi, anche se parla delle valvole dei televisori, è travolgente e va letto.

Come in un gioco di scatole cinesi, i testi di Pennacchi, e questo forse più degli altri, offrono un argomento dentro a un altro in una concatenazione temporale e spaziale che qualche volta s’interrompe. Per saltare da palo in frasca, per divagare, con lunghi incisi, che sono però assolutamente congruenti a tutta la narrazione e la rendono sapida, divertente, struggente, partecipativa, mai banale, mai supponente.

Ti aspetti una cosa e te ne rifila un’altra, e dici: ma che c’entra? Poi ci torni su e in questo gioco di riflessi, di luci accattivanti scopri che c’entrava, eccome se c’entrava.

Così trovano posto ricordi personali come quelli con Aimone Finestra, il Federale, che alla fine si insinua nella querelle sulla iena e sul Neandertal, quando si scopre nell’addendum conclusivo, che lui alla Grotta Guattari c’era stato ai tempi della scoperta e così era stato testimone oculare a favore della tesi anti-iena.

Al di là delle memorie personali, ciò che affascina è che da queste scatole cinesi vengono estratti considerazioni, ricordi, descrizioni che, a partire dalla polemica sul Neandertal e sulla iena, si allargano con dei cerchi concentrici per abbracciare una visione sempre più vasta, più acuta, più profonda di tutta la faccenda.

A partire da un confine geografico circoscritto: l’Agro Pontino, che va dalle propaggine del vulcano laziale, i monti Lepini e Ausoni fino al Circeo, Pennacchi divaga e racconta come ci siano, poeticamente, miticamente, connessioni tra il Neandertal e il Cro-Magnon, il nostro avo diretto, e come i due si siano incontrati nel loro viaggio di avvicinamento dall’Africa all’Europa, in Palestina, sul Monte Carmelo e come il Cro-Magnon, fin da quei giorni, abbia iniziato un vero e proprio genocidio nei confronti del Neandertal. Echi se ne ritrovano nella Bibbia con l’omicidio di Abele ad opera di Caino. E poi ancora la prima federazione latina che geograficamente nasce proprio in quei luoghi. Fino ad arrivare ai Templari, passando per Ulisse, il Graal, e il Golgota (il luogo del cranio) dove Gesù fu crocefisso, fino al cranio del Neandertal del Circeo che guarda caso ha la fisionomia di un teschio.

Parole in libertà? Farneticazioni di un visionario? Forse. Ma cariche di un fascino prepotente che trasforma questa affabulazione in un patchwork che fa da sfolgorante tessuto alla trama della polemica scientifica.

Perché non bisogna scordarsi mai che la disputa scientifica è il motivo primo di questo libro.

E le domande di Pennacchi, le sue controdeduzioni, le sue accuse al mondo accademico sono circostanziate laddove sembrano bislacche.

Il tono può apparire obliquo e un po’ demenziale, la sostanza è solida nella sua centralità che è, per tornare al parallelepipedo di granito dell’inizio, difficilmente scalfibile nel suo dubbioso domandare, nel suo inappagato desiderio di capire, nel suo irriverente e ironico j’accuse verso l’Accademia.

Ecco un altro, non secondario, motivo per leggere questo libro. Pennacchi entra in collisione con il mondo accademico proprio perché non accetta quello che spesso ne costituisce l’humus, la base, fatta di convenzioni, luoghi comuni, conformismo e mancanza di curiosità e voglia di rischiare. Un mondo putrescente sempre pronto a fare fronte comune contro quelli che da dilettanti cercano risposte, ponendo domande.

Conformismo ben documentato, tanto per tornare alla polemica sulla iena, dal professor Giacobini che nel 2006, dopo che nel primo convegno nessuna delle due tesi aveva prevalso, confermò invece che l’ipotesi iena era ormai un dato di fatto.

«Ma che stai a dì? Il convegno dell’altra volta mica è andato come dici tu, che avrebbe stabilito, deciso, neanche una voce in contrario? Ci furono discussioni a non finire. Il convegno non stabilì niente. C’era una tesi, quella della iena, e ce n’era un’altra, quella di Blanc del cannibalismo, sostenuta in particolare da Ascenzi e da altri».

«Lui, Giacobini: “Ah, io non mi ricordo. Quello che conta è che da allora a adesso tutta la comunità scientifica è oramai unanime e concorde che è stata la iena. “Ma ti pare, a te, che la scienza, si possa fare a votazione? Un domani che trovo i voti e raggiungo la maggioranza, la terra – se voglio – non è più rotonda ma piatta?».

Tutti dunque allineati e coperti.

«Del resto siamo seri: ma se qualcuno di loro si fosse presentato all’università a parlare di cannibalismo, e quando glielo davano un dottorato? Eri buono tu a laurearti o a diventare ricercatore. Ti cacciavano con la scopa».

Una questione che se si dilata a tutti gli orizzonti accademici e che, se trasposta ad esempio alle scienze storiche, fa capire quali meccanismi sottendono a certe teorie e a certi comportamenti che impediscono sovente revisioni dei postulati codificati e protetti in nome della corporazione piuttosto che della verità.

E ancora Pennacchi solleva un altro problema metodologico delle scienze moderne. Il problema della specializzazione che, attraverso l’analisi sempre più sofisticata e circoscritta di un reperto, fa perdere quella che è la visione complessiva della scena e con la perdita di visione, inevitabilmente va perduta la verità, intesa come unione, in un unico tessuto, delle parti singolarmente studiate.

È l’eterno problema dello specialista medico, capacissimo di studiare un singolo tessuto ma che ha irrimediabilmente perso la poesia “dell’occhio clinico” che gli permette, non solo di guardare il suo paziente come un fenomeno complesso composto da tanti organi diversi, ma gli impedisce di collocarlo nella sua storia medica e soprattutto di considerarlo un essere umano e non un reperto. Lo specialista è un feticista che crede che la risoluzione del problema sia nell’assegnare solo analisi sempre più complesse, che crede solo nella lettura dei risultati numerici, non più utilizzati come supporto alla sua diagnosi, ma venerati come una divinità moderna a cui inchinarsi. Non più anamnesi, non più diagnosi, non più visione periferica ma un solo occhio aquilino che per vedere sempre in più in profondità non riesce più a scorgere niente.

Dal gioco delle scatole cinesi poi si può estrarre un capolavoro assoluto, il capitolo settimo, che accende la polemica su una certa esterofilia di noi italiani. «Appena arriva uno dall’America e dice “ho fatto una pensata”, subito esplodiamo in coro: “E come no? Ciai ragione tu”».

Senza americani non si va da nessuna parte, come la fai la ricerca scientifica? E da qui, attraverso la provocazione del professor Mortari, all’ipotesi di una cospirazione teo-con per difendere la posizione della iena. Insomma un tentativo da parte dei creazionisti contro i darwinisti.

Se infatti venisse avvalorata la tesi del Neandertal cannibale e capace di ritualizzare la morte, si dovrebbe affermare che è stato anche capace di cultura e se la cultura proviene dall’anima allora l’anima non è più solo del Cro-Magnon ma appartiene a tutti gli animali e così addio alla creazione con bene placido dell’evoluzione.

Fantastico, bellissimo, poesia pura. Se poi ci aggiungiamo la descrizione del falso di Piltdown, la torta è coronata dalla sua ciliegina. Un capitolo sulla teoria del complotto e di come agisca nel mondo.

Per leggere Le iene del Circeo, ho sospeso la lettura, giunta ormai ai due terzi, de Il cimitero di Praga, romanzone di Umberto Eco che narra la storia di Simonini, falsario e propalatore oltre che autore dei Protocolli dei savi anziani di Sion. Un romanzo sul falso e su come la storia possa essere letta come un complotto continuo che ne plasma gli avvenimenti lavorando nell’ombra.

Ecco un altro ottimo motivo per leggere Pennacchi. In un solo esilarante capitolo, con il suo stile barricadero e scapigliato, condensa quello che Eco diluisce in un polpettone di cinquecento pagine. E scusate se è poco.

Rimane infine aperta una questione che non mi lascia dormire. La Questione Omerica. Pennacchi, da me indicato come novello Ulisse, dopo la lettura di Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, è in realtà Omero che Ulisse cantò. Un Omero minore, se volete, ma altrettanto epico. E come Omero, non ho ancora capito se sia una persona in carne ed ossa, o una figura immaginaria e leggendaria in cui si condensa la tradizione orale delle sue terre. Ma questo è un problema solo mio, visto che le fotografie e tutto il resto tenderebbero a confermarne la carnalità individuale.

Insomma di questo Le iene del Circeo non si butta via niente. Come il maiale.

E allora “Viva Pennacchi”! L’ingegnoso che non è ingegnere. Alla faccia dei molti ingegneri che non hanno un briciolo d’ingegno.

Addendum

Anch’io, come Pennacchi, inserisco un addendum. Non è che mi sono montato la testa, è che mentre rileggevo quanto scritto, venerdì 10 dicembre, è comparsa un’intervista su Repubblica al Prof. Manzi che accusa Pennacchi di rispolverare vecchie teorie e che si conclude così «Ma almeno Neanderthal si scrive senz’acca come sostiene Pennacchi?. La vecchia dizione prevede l’acca, la nuova no. Ma vengono usate indifferentemente».

Chissà che ne direbbe la iena di questa salomonica democristianeria!