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Sul suicidio, il coraggio della libertà

di Miro Renzaglia - 13/12/2010

Fonte: glialtrionline


«Vi è solo un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia». Così Albert Camus, ne Il mito di Sisifo. E messa la questione in questo modo,  la domanda che ci interroga a proposito del suicidio di Mario Monicelli trova sufficiente risposta. Un uomo molto anziano e malato terminale, ma intellettualmente ancora sano e vigile, giudica che quel che gli resta da vivere fra prevedibili aggravamenti di sofferenze fisiche e psicologiche non valga la pena d’essere vissuto e decide liberamente per il suicido. Il dilemma però, a guardare bene, è tutt’altro che risolto. Camus, infatti, parla di interrogativo filosofico del pensiero che indaga sul senso della vita in sé. In tale chiave e in alcuni casi, l’idea del suicidio può addirittura salvare dall’atto per sé chi lo coltiva: «Il pensiero del suicidio è un energico mezzo di conforto: con esso si arriva a capo di molte cattive notti» afferma Friedrich Nietzsche (Al di là del bene e del male). E gli fa l’eco Emil Cioran: «Vivo solo perché è in mio potere morire quando meglio mi sembrerà: senza l’idea del suicidio, mi sarei ucciso subito» (Sillogismi dell’amarezza). Chi compie materialmente su di sé l’azione nientificatrice,  invece, non sa nulla o non sa più nulla e nulla vuole più sapere della filosofia e dei suoi ragionamenti intorno al senso che l’indovinello della  vita gli propone. Il suicidio, per lui non è più pensiero ma atto risolutivo dell’eterna disputa che ogni essere vivente combatte in sé fra la vita e la morte, senso e non-senso, valore e dis-valore.

Ci si suicida, è vero, per milioni di motivi. Talvolta, chi si suicida soffre di patologie psichiatriche già accertate. E non si può nemmeno escludere, secondo recenti ricerche scientifiche, che esista una possibile predisposizione genetica all’atto (deporrebbero in tal senso i suicidi plurimi nelle famiglie Hemingway e Wittgenstein, per citare casi famosi). Ci si suicida anche come forma di protesta contro sistemi di oppressione politica reputati intollerabili o, comunque, ingiusti: esemplari i casi di Jan Palach e Yukio Mishima. Si può addirittura usare il suicidio come arma di offesa contro il nemico: è il caso dei kamikaze giapponesi nell’ultima guerra mondiale o dei jihadisti islamici. Eppure, nonostante le infinite possibilità dei perché, un minimo comune denominatore sembra possibile rintracciarlo in uno smodato, a volte frainteso, a volte difettoso, ma pur sempre autentico desiderio di libertà. Libertà dal volere di un dio che si pretende padrone della nostra vita (anche se, a ben vedere, la Bibbia non contiene alcuna prescrizione: il divieto e l’equiparazione del suicidio all’omicidio è opera di interpretazioni successive, a partire da Agostino d’Ippona). Libertà dai condizionamenti sociali e familiari. Libertà dal dolore, fisico e psicologico. Libertà dall’oppressore  militare per la propria nazione, la comunità, l’ideale.  «Libertà vo cercando, ch’è si cara, / come sa chi per lei vita rifiuta…», diceva il sommo Dante centrando, ancora una volta in un solo verso,  il nocciolo essenziale della questione (anche se i suicidi li collocava all’Inferno, con l’eccezione di Catone l’Uticense, a cui il verso si riferisce, messo a custodia del Purgatorio).

Ma Dante non faceva sgorgare la sua poesia dal nulla. Del nesso fra suicidio e libertà, si ragiona da sempre nella storia del pensiero occidentale.  «Troverai anche uomini –  scriveva Seneca nella lettera 70 a Lucilio – che hanno fatto professione di saggezza e sostengono che non si debba far violenza alla propria vita giudicando empio suicidarsi: bisogna aspettare la fine che la natura ha stabilito. Chi afferma questo non si accorge che si preclude la via della libertà: la legge eterna non ha fatto niente di meglio che darci una sola via d’entrata alla vita, ma molte vie d’uscita».

Lo stesso Martin Heidegger incitava a «essere per la morte» chi volesse sperimentare su di sé il senso «autentico dell’esser-ci». Dell’essere, cioè, qui e adesso, contro tutto ciò che l’ «inautentico» ci propone per legarci all’inessenziale e rimandare al futuro del verbo “essere” la verifica del «io sono…». Anche questa non è, però, un’istigazione al suicidio. E’ solo l’esortazione a vivere tutta la propria esistenza come si vive l’istante che, solo, interamente ci appartiene e non può esserci sottratto: il momento della nostra morte fisica. Essere per la morte, infatti, anziché essere per una delle tante finzioni-funzioni che ci propone  l’ingranaggio delle apparenze (di “maya”, direbbero gli indu-buddhisti) è il supremo atto di decisione per la libertà. Solo che l’approssimazione a questo stato è talmente vicino al limite del fine-vita reale che il rischio dell’attrazione fatale diventa vertiginoso.

Ne è emblematica la vicenda filosofica ed esistenziale di Carlo Michelstaedter, brillante studente di filosofia che, alla vigilia della discussione della propria tesi di laurea, La persuasione e la rettorica, si sparò, nel 1910, un colpo di rivoltella alla tempia. «Un suicidio metafisico» lo ebbe a definire Giovanni Papini. E, con ogni probabilità, aveva ragione. Quel suo libro era e rimane un inno alla libertà da tutte le costrizioni della vita e dalla sua finitudine. Il persuaso, infatti, è colui che non scende a compromessi con la «comunella dei malvagi», la società stessa che, nella sua cieca volontà di perpetuarsi, costringe l’uomo dentro i suoi schemi e le sue gabbie concedendogli una sola libertà: quella di «essere schiavo». E’ l’apparato della retorica che proietta il film della tua vita sullo sfondo della caverna di Platone e rinvia a ipotetici iperurani la realizzazione di sé. E’ la macchina infernale che annulla nella promessa di sicurezza immediata e di ricompense celesti il rischio della vita presente. Un rischio feroce perché, come nota giustamente Giorgio Brianese nella prefazione al michestaedteriano Dialogo della salute (Edizioni Mimesis, 2010): «La persuasione è l’ideale limite al quale l’uomo non potrà mai giungere, ma al quale non per questo deve rinunciare a tendere. La rettorica è ciò che si sa che va negato, la persuasione è ciò che si sa che va attuato; e tuttavia la persuasione è impossibile e la rettorica risulta vincente».

Tuttavia, quando il palio della partita che si gioca «a ferri corti con la vita», è la volontà di autodeterminarsi uomini liberi, anziché ciechi e assuefatti ingranaggi di un sistema che ce ne espropria, varranno per sempre le parole di Michelstaedter: «Il coraggio dell’impossibile è la luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori e il presente divien vita». Nessuno può escludere con assoluta certezza che quella luce cercata per diradare la nebbia non possa essere data dal fuoco di uno sparo della rivoltella puntata su di sé. E nessuno può davvero giudicare il gesto secondo le categorie umane del bene o del male, privi come siamo degli strumenti critici per valutare ciò che si colloca al di là della morale. «Quanto può dirsi, si può dire chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (Ludwig Wittgenstein).