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Il naufragio di una nazione in balia della modernità

di Stenio Solinas - 14/12/2010



Un saggio rilegge il quadro di Géricault: sulla "Zattera della Medusa" c’è la Francia del passaggio dall’età napoleonica alla restaurazione


Prima di essere un quadro La zattera della Medusa fu un naufragio e uno scandalo politico. Prima di essere riconosciuto come un capolavoro assoluto, il suo autore Théodore Géricault (1791-1824) era già morto: «Quest’anno i nostri giornalisti hanno raggiunto il vertice della stupidità. Un articolo liberale loderà il tocco patriottico in un lavoro, lo stesso quadro giudicato da un ultra non sarà altro che una composizione rivoluzionaria, io sono stato accusato di aver calunniato l’intero ministero della Marina...».
Nel ritratto postumo che di lui si conserva, ha il volto scavato e lo sguardo tormentato di un sopravvissuto della zattera stessa, un giovane vecchio di appena trent’anni. A dipingerlo ci aveva pensato Alexandre Corréard, che di quel relitto era stato uno dei superstiti e dello scandalo politico il principale testimone d’accusa. Scriverà anni dopo lo storico Jules Michelet che il vero soggetto del dipinto «era la Francia stessa, la nostra intera società» e aveva ragione, perché mai come a bordo della nave prima e poi in quel ristretto spazio costruito con i suoi rottami, si raccolse la Francia in miniatura dell’epoca, il coacervo e il contrasto dell’età rivoluzionaria e dell’Ancien régime, dell’età napoleonica, e della Restaurazione.
Chi oggi vada al Louvre troverà la tela di Géricault nell’ala Denon, al primo piano del museo: quasi cinque metri per sette, costruita come se fosse una piramide, illustra con dimensioni e stile epico una sofferenza umana e comune. È un quadro storico, ma senza eroi, non mette in scena una causa nobile, ma una causa primitiva: sopravvivere. È il miglior naufragio della storia della pittura, il più moderno pur nella classicità che ne è alla base, perché dietro quel mare in tempesta che minaccia a ogni istante di sommergere quei disperati in sua balia, c’è un colpevole che non ha niente a che fare con la potenza degli elementi. Per dargli un nome bisogna però fare un passo indietro.
La zattera della Medusa è il titolo di un bel saggio di Jonathan Miles (Nutrimenti, pagg. 352, euro 19; traduzione di Benedetta De Vito, revisione di Filippo Tuena): un libro di storia, ma anche di storia dell’arte; racconta di uomini illustri, ma anche di gente semplice, comparse chiamate a recitare un dramma più grande di loro; parla d’amore, ma anche di sfruttamento e di miseria, di odio e di cannibalismo, di follie e di sconfitte. Alla sua base c’è una vicenda che può essere riassunta così. Nel 1816 la fregata e nave ammiraglia Meduse, alla testa di una spedizione composta di una corvetta, un brigantino e un altro vascello d’appoggio, viene inviata in Senegal per riaffermare i diritti francesi sulla colonia. Gli errori del suo comandante la fanno naufragare su un banco di sabbia. Dei 400 uomini a bordo, 200 fra ufficiali di marina e dell’esercito, personale civile e loro familiari, vengono imbarcati su sei scialuppe; una sessantina non riesce a trovare posto o si rifiuta di abbandonare la nave, per i restanti 140, membri dell’equipaggio, militari e civili, viene allestita una zattera lunga 20 metri e larga sette. Collegata all’improvvisato convoglio con delle cime, la loro rottura, casuale o volontaria, la farà andare alla deriva. Due settimane dopo, quando un vascello della spedizione la avvisterà, a bordo ci saranno solo 15 superstiti, cinque dei quali moriranno dopo il salvataggio. In quelle due settimane, su quel pezzo di legno è successo di tutto: panico, ribellione, follia, fame e sete, si è ucciso per non essere uccisi, si è mangiata carne umana per nutrirsi.

Le altre scialuppe, esclusa quella del comandante e del governatore dove sono imbarcate 26 persone e che verrà intercettata in mare dall’Echo, un altro dei vascelli della spedizione, riusciranno invece a toccare terra. Fra una marcia di 200 miglia nel deserto, maltrattamenti, decessi per consunzione o per ferite, la maggioranza dei suoi membri riuscirà comunque a sopravvivere, grazie all’intervento del governo inglese, nominalmente ancora in carica nella colonia. L’incompetenza del comandante Chaumereys non era dovuta tanto o solo al suo essere un marinaio fallito, ma rappresentava la punta di un iceberg dove tutta una Francia fallita cercava di ricostruirsi una verginità. Chaumereys era un ufficiale monarchico che, fedele al suo giuramento al re, da vent’anni non navigava più; la sconfitta di Napoleone avevano riportato a galla sia la monarchia sia lui, ed entrambi ora dovevano far finta che il tempo non fosse mai passato e che in quel ventennio non fosse successo nulla: né una rivoluzione, né una testa regale rotolata nel paniere della ghigliottina, né un impero, né una nuova classe sociale e politica. Questa finzione si scontrava però con il fatto che al suo comando e in quella nave erano imbarcati ufficiali, marinai e semplici cittadini che in quell’arco di tempo avevano invece fatto parte della Francia nuova, rivoluzionaria, napoleonica, borghese e popolare: grazie a lei avevano studiato, si erano costruiti una vita professionale, avevano raggiunto dei risultati. Il ritorno all’antico li ricacciava all’indietro: la fedeltà veniva premiata al posto della competenza.
L’ingegnere Alexandre Corréard e l’ufficiale medico Henry Savigny facevano parte di quest’ultima realtà: trovatisi entrambi sulla zattera, saranno i più tenaci denunciatori di un disastro dove all’imperizia si univa il disprezzo per la vita altrui, dove un’aristocrazia di révenants, di fantasmi, aveva scelto di comportarsi come se tutti i diritti, ma nessun dovere, gli appartenessero.
E Géricault? Nato nel 1791, Théodore era un tiepido realista, per tradizione familiare, che la giovane età aveva impedito di trasformarsi in bonapartista: si era ritrovato a vent’anni con Napoleone ormai al tramonto, il suo dandismo e la passione per la pittura avevano fatto il resto. Era un esteta, non uno agitatore o un ideologo. Era però successo che proprio allora la passione quasi filiale per Alexandine, la sua giovane zia, sei anni appena la differenza d’età, si era trasformata, con la morte della madre, prima in legame più forte e poi in una impossibile storia d’amore che lo aveva completamente sbalestrato. Significava ingannare l’uomo che, al contrario del padre, lo aveva sempre difeso nelle sue scelte artistiche, significava mettere in pericolo la reputazione di una donna sposata e già madre. Con angoscia di entrambi, Alexandrine rimase incinta... «Vago senza meta e vado alla deriva. Cerco vanamente un appiglio: niente è solido, tutto mi sfugge, tutto mi inganna» scriverà allora.
L’incontro fra il naufrago della Medusa Corréard, che voleva vendicarsi delle sofferenze, delle umiliazioni e delle abiezioni patite, e il naufrago della vita Géricault, costretto dalla società a metter fine al suo rapporto sentimentale, impossibilitato a vedere sia la donna sia il bambino frutto di quella passione, fu esplosivo. Il pittore si immedesimò in una tragedia alla cui base c’era una rigidità sociale, l’incapacità a uscire dagli schemi, l’assenza di ogni pietà e il disprezzo per le ragioni e i sentimenti altrui. Per nove mesi, chiuso nel suo studio, circondato di reperti anatomici provenienti dall’obitorio di un vicino ospedale, ne fece una ragione di vita. Creò un capolavoro, ma in pratica non gli sopravvisse.

Nel cimitero di Père Lachaise la tomba di Géricault è decorata con una inferriata in ferro battuto: una «G» che abbraccia un cuore trafitto da due frecce è il motivo che vi corre intorno. La fece erigere Georges-Ippolyte, il figlio mai conosciuto, «l’immagine segreta - scrive Miles - del naufragio di due vite travolte da una passione implacabile».