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La rivoluzione dei falliti

di Gianluca Freda - 16/12/2010


infiltrato?

 

infiltrato2

“In guerra, lo stratega vittorioso cerca la battaglia solo dopo che la guerra è stata vinta; mentre colui che è destinato alla sconfitta, prima combatte e poi cerca la vittoria”.

(Sun Tzu, “L’arte della guerra”)

 

 

Avevo sperato fino all’ultimo che il tizio col giaccone beige che ieri, insieme ad un branco di altri cialtroni senza cervello, ha contribuito a mettere a ferro e fuoco la città di Roma, fosse davvero ciò che sembrava: il solito poliziotto in borghese, con l’incarico di infiltrarsi tra i manifestanti, scatenare l’inferno e giustificare in tal modo (Cossiga docet) la repressione violenta delle proteste. Molti elementi facevano propendere per questo scenario, piuttosto consueto per chi ha un minimo di esperienza in fatto di manifestazioni. Il cialtrone è ritratto mentre impugna un manganello della Guardia di Finanza, agita un paio di manette della Guardia di Finanza e fraternizza (o almeno non si mena) con alcuni poliziotti che, in teoria, dovrebbero sprangarlo di santa ragione. Purtroppo l’ipotesi consolante e illusoria che il manifestante imbecille fosse in realtà un poliziotto infiltrato ha ceduto il passo, con il trascorrere delle ore, ad una rivelazione ben più inquietante e drammatica: il manifestante imbecille era in realtà, insospettabilmente, un manifestante imbecille. A dimostrarlo, oltre ad alcune testimonianze lette in rete che identificano il bell’eroe di cui sopra con un “compagno” dei centri sociali romani, c’è questa foto che lascia poco spazio ai dubbi:

scemo

in essa si vede il farabutto che viene atterrato dai poliziotti e (sperabilmente) arrestato e condotto in un luogo appartato ove i connotati elargitigli da madre natura gli saranno modificati in permanenza con le stesse tecniche da lui suggerite e attivamente sperimentate su tavolini da bar e automobili in sosta.

Naturalmente l’ultima foto non rappresenta una prova definitiva. Potrebbe trattarsi di una messinscena allestita per allontanare i sospetti; potrebbe trattarsi di un fotomontaggio (nella foto la figura del manifestante ha contorni curiosi e presenta un grosso quadrato di pixel anomali proprio in corrispondenza del volto). E potrebbe trattarsi (è l’ipotesi più verosimile, fatto salvo l’emergere di nuovi elementi) della foto autentica di un idiota che subisce il fato spettante agli idioti. E che svanisce dal palcoscenico della sua rintronata “rivoluzione” dopo aver danneggiato quel “sistema di potere” contro il quale aveva eroicamente schierato tutta la propria puberale cialtroneria tanto quanto una scoreggia di mosca danneggerebbe un carrarmato Abrams.

In questo articolo, in ogni caso, non intendo discettare dell’autenticità e del significato, palese o recondito, delle immagini testé presentate. Desidero parlare invece del degrado terminale ed irreversibile dell’ideale rivoluzionario, il quale, complice l’ineffabile clima politico attuale e l’amplificazione telematica della stupidità consentita dai moderni mezzi di comunicazione, ha finito per trasformarsi in chiacchiera da cortile, tanto più fastidiosa quanto più inconsapevolmente trogloditi sono coloro che ne cantano gli osanna. Leggo su diversi siti internet interventi e commenti estasiati sulle bravate dei black bloc romani. “Finalmente si riscopre la violenza politica!”, scrivono alcuni utenti scimuniti, per i quali, a quanto pare, è sufficiente congiungere l’aggettivo “politico” al sostantivo violenza” perché dal forno della nonna esca, calda calda, la Rivoluzione Bolscevica. “Finalmente una protesta seria”, scrivono altri minus habentes, convinti che bullismo e cialtroneria rappresentino l’unico metro di misura della “serietà” di qualunque fenomeno. La celebrità di un divo si misura sulla cafonaggine che egli è in grado di esibire agli occhi ammirati del pubblico; la serietà di un politico si misura dal tasso di insolenze che è in grado di rivolgere agli avversari senza essere zittito; e la “serietà” di un rivoluzionario si misura non dai risultati prodotti dalla sua “rivoluzione”, ma dal numero di panchine sfasciate e di panetterie date alle fiamme. Il cialtrone col montgomery beige è il perfetto prototipo di questi rivoluzionari falliti. Il suo motto è: “Vorrei accoppare i Rothschild, ma siccome non posso, tanto vale fare a pezzi il motorino del mio vicino di casa; sempre meglio che restarsene a casa a scrivere articoli dietro una tastiera”. Consiglierei a questi buffoni di restarsene a lungo dietro le tastiere e di scrivere un bel po’ di articoli. Se non altro faranno lavorare il cervello (ammesso che ne abbiano uno) ed eviteranno di affossare ulteriormente l’idea di rivoluzione, che in bocca a loro suona come una bestemmia. Per fargli capire con un pratico esempio quanto siano efficaci i loro metodi di lotta, gli consiglierei di dare un’occhiata ai volti dei politici ai quali hanno dedicato le loro manganellate di ieri, quelle date e quelle prese. Vi sembrano minimamente preoccupati? Stamattina Berlusconi e i suoi sodali – strano a dirsi – non si sono nemmeno curati di dedicare un commento, che non fosse di circostanza, al putiferio romano di ieri. Hanno cose ben più importanti per la testa che le miserabili scaramucce con gli sbirri di un branco di sfaccendati. Rassegnatevi, cari “rivoluzionari” delle mie ghette: non gliene frega niente di voi. Non contate un cazzo. Ed il fatto che non contiate un cazzo è l’unica cosa che li ha trattenuti, per il momento, dal sobbarcarsi il fastidio di sporcarsi le scarpe schiacciandovi come vermi, cosa che potrebbero fare in qualunque momento. Potete demolire quaranta quartieri romani tutti in fila e loro si limiteranno ad appaltare la ricostruzione ad imprenditori amici, incassando le dovute prebende e ringraziandovi per l’interessamento. Debora Billi ha scritto, un paio di giorni fa, un articolo in cui ipotizzava che i politici iniziassero ad avere paura del vigore “rivoluzionario” dei disadattati giovinastri nostrani. Se quello che scorgo oggi sui volti degli uomini del governo è paura, vuol dire che sono diventati sovrannaturalmente abili nel simulare serena indifferenza e manifesta soddisfazione per le vittorie parlamentari mentre sono attanagliati dal terrore cieco.

Consiglierei di dare un’occhiata anche ai volti dei negozianti romani e dei poveracci che si sono ritrovati l’automobile bruciata, il bar distrutto, il parco giochi sotto casa ridotto ad un letamaio. Quanti adepti credete che avrà guadagnato la causa “rivoluzionaria” nel corso della giornata di ieri fra i cittadini di Roma? Se fossi in loro (e in effetti lo sono) preferirei di gran lunga la violenza mirata e metodica dei celerini alla barbarie scomposta che si accanisce con furia contro le proprietà dei deboli, per poi accasciarsi vigliaccamente, come un sacco di patate in giacca e cappuccio beige, dinanzi alle randellate dei forti. Se fossi nei cittadini di Roma (e lo sono senz’altro), più che ad una “libera collettività anarchica” inizierei ad aspirare ad una teocrazia di stampo iraniano, dove i manifestanti facinorosi e criminali, quando entrano in un carcere, ne escono soltanto appesi ad una corda di canapa.

Quello che questi imbecilli dovrebbero imparare (e impareranno, prima o poi, se l’imbecillità gli consentirà di vivere abbastanza per poterlo fare) è che la violenza non è una strategia. E’ semmai un indispensabile strumento che serve a portare a termine la strategia, una volta che essa è stata approntata. Ma prima bisogna approntarla. E per farlo occorre capire a fondo i meccanismi che stanno dietro i conflitti geopolitici, proporsi obiettivi graduali, imparare a conoscere i punti deboli degli avversari, utilizzare l’astuzia e la diplomazia come risorse primarie e la forza bruta come risorsa ultima, mirata a vincere gli ultimi ostacoli non altrimenti superabili. Bisogna, come avrebbe detto Sun Tzu, conoscere il nemico, non per sentito dire, ma per averlo praticato ed averne studiato i punti di forza e di debolezza da vicino. Bisogna aver passato un bel po’ di tempo a contatto con i nemici, aver fatto parte del loro stesso circolo. Starsene in disparte a fare i duri e puri e a sognare improbabili utopie sociali è atto di stupidità suicida. Lenin, pur di colpire la fazione menscevica del partito, non esitò a collaborare con la polizia zarista e ad accettare come collaboratore Roman Malinowsky, che era un agente dell’Ochrana, la polizia segreta governativa. E’ con la strategia, la determinazione, il compromesso e la pratica di potere che si sconfigge il potere, non attaccandosi alle decrepite parole d’ordine di ideologie morte e sepolte. Tantomeno con le esplosioni occasionali e sguaiate di violenza, che non fanno nemmeno ridere il potere, tanto sono inutili.

Solo i falliti e gli impotenti vivono di ideologia e di sogni; e sono così “coerenti” con i loro dogmi da rifiutarsi di vedere il mondo che cambia, perché non osservano il mondo, ma solo se stessi. Solo i falliti scaricano la propria frustrazione verso il mondo che, inesorabilmente, li esclude, spaccando tutto e appiccando il fuoco a tutto ciò che capita. Lo fanno perché non vogliono affatto cambiare il mondo. Vorrebbero, se potessero, farlo a pezzi per punirlo di averli cacciati fuori dalla sua porta, come se il loro esilio fosse imputabile al mondo e non al rifiuto di guardarlo negli occhi senza il velo di decedute fantasie politiche. Solo i falliti sanno farsi strumentalizzare così efficacemente e così a fondo dal potere da diventare, nelle sue mani, un utile strumento per le “rivoluzioni colorate” prossime venture. Un surrogato artificiale di rivoluzione, una carogna di conflitto sociale rivestita a festa, ma ben manovrata dai potenti, sulla quale i falliti sfasciapanchine si accalcano per fame, non avendo più altra tavola a cui saziarsi. Non si può neppure contare sulla profilassi dei manganelli, sperando che spacchino ossa più rapidamente di quanto i cappucci beige siano in grado di spaccare vetrine. I manganelli non servono a uccidere, ma a convincere. E nessuno è più facile da convincere di un rivoluzionario senza rivoluzione. Uno che farebbe a pezzi una città intera pur di poter assaggiare della rivoluzione una marcia, patetica, miserabile briciola.