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La società tende ad organizzarsi in termini comunitari e territoriali

di Giuseppe De Rita - 16/12/2010

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Pur essendo stato partecipe per molti anni del percorso intellettuale di Aldo Bonomi, ho letto con nuovo interesse il suo ultimo libro, pubblicato da Feltrinelli con il titolo Sotto la pelle dello Stato. E mi sono trovato a domandarmi il perché di tale nuovo interesse. In fondo so tutto delle convinzioni dell’autore sul valore del territorio, sulle dinamiche dell’egoismo localistico, sull’intreccio fra radicamento nei luoghi e impegno sui flussi globali, sulla centralità del capitalismo personale, figlio del postfordismo, sulla crisi della società di mezzo e dei soggetti collettivi in essa operanti, sulla non-nascita (o sul fallimento) di una neoborghesia nazionale, sul pericoloso scivolamento delle masse verso l’essere moltitudine e conseguentemente del potere verso il populismo. Sono tematiche che Bonomi ha approfondito con grande accanimento professionale e che fa bene a metterle in sequenza ordinata. Ed anche convincente visto che ad ogni verifica su quei percorsi di analisi e di riflessione ha sempre avuto ragione lui, spesso anche in rabbioso contrasto con le forze politiche a lui vicine, che parlano molto di territorio, di populismo, di post fordismo e quant’altro, ma non si comportano di conseguenza. Il fatto è che, contrariamente a loro, egli questa società l’ha abitata nel profondo, prima ancora di pensarla e descriverla. Non basterebbe comunque questo riassunto di cose viste dal di dentro, e non con pensieri di sorvolo, per suscitare il senso di nuovo (di nuovo anche per me) avvertibile in quest’ultimo lungo racconto, un senso di nuovo che sorge da tre constatazioni. La prima è che dalle riflessioni di Bonomi esce con chiarezza che l’Italia «si è fatta da sé» , senza alcun riferimento a paradigmi predefiniti. Ce ne son stati proposti tanti di paradigmi in questi 150 anni di unità politica, dal patriottismo risorgimentale al nazionalismo fascista, dal liberalismo il perché di tale nuovo interesse. In fondo so tutto delle convinzioni dell’autore sul valore del territorio, sulle dinamiche dell’egoismo localistico, sull’intreccio fra radicamento nei luoghi e impegno sui flussi globali, sulla centralità del capitalismo personale, figlio del postfordismo, sulla crisi della società di mezzo e dei soggetti collettivi in essa operanti, sulla non-nascita (o sul fallimento) di una neoborghesia fordismo e quant’altro, ma non si comportano di conseguenza. Il fatto è che, contrariamente a loro, egli questa società l’ha abitata nel profondo, prima ancora di pensarla e descriverla. Non basterebbe comunque questo riassunto di cose viste dal di dentro, e non con pensieri di sorvolo, per suscitare il senso di nuovo (di nuovo anche per me) avvertibile in quest’ultimo lungo racconto, un senso di nuovo che sorge da tre constatazioni. La prima è che dalle riflessioni di Bonomi esce con chiarezza che l’Italia «si è fatta da sé» , senza alcun riferimento a paradigmi predefiniti. Ce ne son stati proposti tanti di paradigmi in questi 150 anni di unità politica, dal patriottismo risorgimentale al nazionalismo fascista, dal liberalismo nazionale, sul pericoloso scivolamento delle masse verso l’essere moltitudine e conseguentemente del potere verso il populismo. Sono tematiche che Bonomi ha approfondito con grande accanimento professionale e che fa bene a metterle in sequenza ordinata. Ed anche convincente visto che ad ogni verifica su quei percorsi di analisi e di riflessione ha sempre avuto ragione lui, spesso anche in rabbioso contrasto con le forze politiche a lui vicine, che parlano molto di territorio, di populismo, di post ottocentesco allo statalismo del secondo dopoguerra, dal comunismo al berlusconismo, con una continua rincorsa della politica a progetti e disegni sempre vanificati dai comportamenti dei tanti nostri soggetti economici e sociali, la cui vitalità ha via via cambiato questo Paese, ha in fondo creato un modello. La seconda constatazione è molto politica: non c’è dialettica fra l’Italia che fa da sé, con tutti gli impulsi positivi e tutti i rancori che in essa si esprimono, e chi fa politica in termini sempre più autoreferenziali. Spesso mi ritrovo a domandarmi perché la politica non riesca ad incorporare nella sua azione tutte le suggestioni che Bonomi impone da anni e che ripete in questo libro, e mi rispondo che il torto non è dell’inascoltato raccontatore degli eventi ma nella sordità ormai cronica di chi dovrebbe ascoltarli e decifrarli. E la terza conseguente constatazione è che il disallineamento fra realtà sociale e pensiero politico porta ad una crescente tentazione della società a disegnarsi ulteriori traguardi, a far da sola; è una tentazione che spesso aleggia ai vertici di alcune rappresentanze sociali (basta pensare ad alcune dichiarazioni di Emma Marcegaglia nelle ultime settimane) ma che più ancora si avverte mettendo l’orecchio a terra, sulle dinamiche territoriali emergenti. E in questo Bonomi, specialmente nell’ultimo capitolo del libro, è molto chiaro: la società tende ad organizzarsi in termini comunitari, a svilupparsi «assumendo come luoghi del pensare e dell’agire le parole chiave del territorio e della comunità» ; si tratti di fronteggiare le comunità del rancore, disattivandone i meccanismi più perfidi del rattrappimento aggressivo; si tratti di sviluppare le comunità di cura che si vanno moltiplicando in una solidarietà che si fa sempre più tessuto sociale; si tratti di accompagnare le tante antiche e nuove comunità operose che restano il vero patrimonio socioeconomico dell’Italia di oggi. Tre linee di lavoro che non vanno certo nella riscoperta delle teorie olivettiane o nella nostalgica riproposizione dei più tradizionali luoghi di microsocializzazione, ma che indicano una strada nuova, tutta da tentare: la strada di un’Italia comunitaria, costruita nell’abitare e gestire i processi in atto. A qualcuno può sembrare un esito flebile rispetto ai «drammatici problemi» che ci vengono riproposti ogni giorno dalla comunicazione di massa, ma è un esito da non scartare a cuor leggero se non si vuole, in alternativa, continuare a sobbollire nel brodo della moltitudine e del populismo, solo a parole governato da soggetti presuntivamente di governo — si parli di una presunta neoborghesia o di un presunto nuovo e accentrato potere politico. Ed è la coscienza di questo vuoto che fa pensare che Bonomi continui il suo racconto, da partigiano interprete della società che nel bene e nel male si fa da sé.