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Se la bellezza è terrore, cos’è allora il desiderio?

di Francesco Lamendola - 19/12/2010

Per quale misteriosa e inconfessabile ragione gli esseri umani sono attratti dal cruento spettacolo della violenza, della crudeltà e della morte?

Perché vanno in estasi davanti all’angoscia, allo spavento, alla sofferenza altrui, come già aveva osservato Lucrezio nel famoso “incipit” del Secondo libro del «De rerum natura» («Suave, mari magno turbantibus aequora ventis / e terra magnum alterius spectare laborem»)?

Il poeta latino suggeriva anche la risposta: non perché il tormento degli altri procuri di per sé il nostro diletto, ma per la sensazione di sollievo derivante dal vedere da quali pericoli siamo rimasti immuni.

Eppure, forse,  non si tratta solo di questo; forse c’è dell’altro. Né si tratta solo di una certa componente di sadismo che pure, senza dubbio, esiste e fa parte dell’anima umana. Il fatto è che la bellezza possiede, in se stessa, un elemento di inquietudine, di angoscia, se non anche, talvolta, di autentico terrore: tale è la morale di numerosi miti greci, da quello di Eros e Psiche a quello di Artemide e Atteone.

C’è una pagina notevole, nel romanzo della scrittrice americana Donna Tartt «Dio di illusioni» (titolo originale: «The Secret History», New York, Alfred A. Knopf Inc., 1992; traduzione italiana di Idolina Landolfi, Milano, Bompiani, 1992, pp. 45-46):

 

«”Lo spargimento di sangue è cosa orrenda”, disse Julian in fretta […], “ma i brani più cruenti di Omero e di Eschilo sono sovente i più belli: per esempio, l’immortale monologo di Clitennestra nell’”Agamennone”, che io tanto amo. Camilla, tu eri la nostra Clitennestra, quando facemmo le “Orestiadi”; ti ricordi qualcosa?”

La luce la inondava, dalla finestra, in pieno viso; e n una luce così intensa la maggior parte delle persone appaiono un po’ slavate; mai i suoi puri, fini lineamenti risultavano invece sconvolgenti a guardarsi, i suoi occhi chiari e luminosi sotto le ciglia scure, e il riflesso dorato alle tempie che andava gradualmente a disperdersi nella chioma lucente, calda come il miele. “Me ne ricordo un po’”, rispose.

 

Guardando un punto sul muro sopra la mia testa, incominciò a recitare i versi. […]

La sua voce in greco era robusta, bassa e incantevole:

 

“Così morì, e la vita fuggì via da lui;

e mentre moriva, mi schizzò con violenza

della pioggia rossa del suo amaro sangue,

rendendomi felice, come i giardini stanno gloriosi

tra gli scrosci divini alla nascita dei germogli.”

 

Quando Camilla terminò, ci fu un breve silenzio; e, con mio stupore, Henry le strizzò gravemente l’occhio dall’altro capo del tavolo.

Julian sorrise: “Un bellissimo passaggio. Non me ne stanco mai. Com’è possibile che una cosa così terribile, una regina che trafigge il proprio marito nel bagno, sia per noi così bella?”.

“ È il metro”, disse Francis. “Il trimetro giambico. Quelle parti veramente orripilanti dell’”Inferno”, per esempio Pier da Medicina, senza naso e che parla attraverso un taglio sanguinolento nella trachea…”

“Mi viene in mente di peggio”, interloquì Camilla.

“Anche a me. Ma quel passaggio è incantevole per via della “terza rima”. La sua musica! Il trimetro risuona nel monologo di Clitennestra come una campana

“Ma il trimetro giambico è abbastanza comune nella lingua greca, no?” disse Julian. “Perché è così mozzafiato quel particolare passaggio? Perché non ci attrae qualcosa di più disteso e più blando?”

“Aristotele dice nella poetica” rispose Henry” che oggetti quali cadaveri, penosi alla vista in sé, possono divenire piacevoli da contemplare in un’opera d’arte.”

“E credo che Aristotele sia nel giusto. Dopotutto, quali scene di poesia restano incise nella nostra memoria, quali maggiormente amiamo? Proprio queste: l’assassinio di Agamennone e l’ira di Achille; Didone sulla funebre pira; i pugnali dei traditori e il sangue di Cesare… Ricordate come Svetonio descrive il suo corpo, portato via tra i rifiuti, con un braccio penzolone?”
“La morte è la madre della bellezza” disse Henry.

“E cos’è la bellezza?”

“Terrore”.

“Ben detto!” esclamò Julian. “La bellezza è raramente dolce o consolatoria. Quasi l’opposto. La vera bellezza è sempre un po’ inquietante.

Guardai Camilla, il suo volto risplendente al sole, e pensai a quel verso dell’”Iliade” che amo tanto, su Pallade Atena e i suoi terribili occhi sfavillanti.

“E se la bellezza è terrore”, proseguì Julian “cos’è allora il desiderio? Riteniamo di avere molti desideri, ma di fatto ne abbiamo soltanto uno. Qual è?”

“Vivere”, rispose Camilla.

“Vivere PER SEMPRE”, aggiunse Bunny, col mento sulla palma della mano.»

 

La bellezza, dunque, è inquietante: è l’anticamera del terrore, se non - addirittura - il terrore in quanto tale; e il desiderio è, in sostanza, il desiderio di una vita che non finisca mai.

Che tutti i desideri umani si riducano, in fondo, ad uno solo, quello di non morire, è testimoniato dalle più antiche opere letterarie dell’umanità, a cominciare dall’«Epopea di Gilgamesh», l’eroe babilonese, impegnato nella strenua ricerca della leggendaria erba dell’immortalità; per non parlare delle opere non scritte, quali le pitture rupestri, le statuette votive, le sepolture dei morti ed il cerimoniale magico-religioso che le accompagnava.

Quanto alla bellezza come ricerca inconsapevole del terrore, a tutta prima ci si potrebbe domandare se ciò non sia una caratteristica della modernità, una degenerazione dell’uomo dominato dalla tecnica e ormai incapace di ricercare ed apprezzare la bellezza come armonia e rasserenamento dell’anima.

Poi, però, basta riflettere alla tragedia greca (come suggerisce la scrittrice americana), per non parlare degli stessi poemi omerici; oppure alla «Divina Commedia» e ai Giudizi Universali dell’arte medievale: e subito ci si rende conto che l’attrazione verso la violenza, l’angoscia, la paura e l’orrore, è un impulso antico quanto l’uomo.

Anche l’indugio morboso con cui i giornali si soffermano sui fatti più atroci della cronaca nera, non fa che sfruttare questa eterna componente dell’anima - così come fanno, del resto, gli scrittori di romanzi gialli o i registi del cinema horror, talvolta con un clamoroso successo di pubblico: dai romanzi di Edgar Wallace, di Conan Doyle, di Maurice Leblanc e di Carolina Invernizio, fino alle innumerevoli versioni cinematografiche di Dracula il Vampiro e al filone, più recente, delle possessioni diaboliche e degli esorcismi.

Del resto, già nel «Satyricon» Petronio troviamo la storia del lupo mannaro e nelle «Metamorfosi» di Apuleio quella delle streghe vampiresche; per non parlare dei draghi, dei mostri, dei negromanti e degli spiriti diabolici, che popolano l’immaginario letterario medievale, dalle vite dei santi ai romanzi del genere cortese-cavalleresco.

Tutti questi elementi - cosa piuttosto notevole -, tradotti in versione popolare, sono sopravvissuti, attraverso le fiabe della nonna, sino a poche generazioni or sono, conservando intatta la loro carica di fascino ambiguo ed inquietante.

L’idea che la bellezza sia sempre e comunque luminosa e rasserenante è figlia di un certo modello estetico e di una ben precisa civiltà artistica: quella della Grecia classica; e, dopo di essa, quella del Rinascimento.

Però nella stessa civiltà greca, di fatto - lo aveva già notato Friedrich Nietzsche -, convivevano due anime pressoché antitetiche, quella “apollinea” e quella “dionisiaca”, cui corrispondevano addirittura due forme religiose: quella dei culti ufficiali, composta e razionale, e quella dei culti misterici, orgiastica e vitalistica; e qualcosa di non molto diverso si potrebbe dire anche per quanto riguarda la civiltà rinascimentale.

L’essere umano, dunque, a quel che pare si trova come stretto fra due opposte tendenze: da un lato la ricerca della bellezza, che è, più spesso di quel che non appaia, ricerca dell’inquietudine e del terrore; dall’altra, ansia di sicurezza, della sicurezza suprema: quella di non morire, di poter vivere per sempre.

Conteso fra tali opposte tensioni e straziato da un simile dissidio, l’essere umano ne ricerca la ricomposizione attraverso l’arte e la religione: l’arte che esorcizza l’elemento terrifico della bellezza e lo trasfigura nel piacere della contemplazione; la religione che esorcizza l’angoscia di morte e dischiude la prospettiva di una vita eterna.

Non si vuol dire, con ciò, che l’arte sappia o che voglia, sempre e comunque, realizzare tale trasfigurazione; né, meno ancora, che il contenuto delle religioni sia in se stesso illusorio, per il fatto che nel sentimento da esse evocato trova posto ANCHE il bisogno di esorcizzare la paura della morte.

Quest’ultimo è stato l’errore, invero grossolano, del Positivismo: dedurre che, se la religione dà una risposta rassicurante all’angoscia di morte, allora vuol dire che deve trattarsi per forza di una illusione, di un autoinganno. Sarebbe come dire che la sete dimostra l’inesistenza dell’acqua. Del pari si potrebbe argomentare che legge e giustizia sono in se stessi concetti ingannevoli, perché rispondono all’umana aspirazione verso la giustizia e verso la pace; mentre si può benissimo ammettere, come per il sentimento religioso, che essi siano parte costitutiva della natura umana e rispondano ad un bisogno autentico, niente affatto illusorio.

Insomma, nulla autorizza a pensare che giustizia e pace, in realtà, non esistano: al contrario, il loro perenne risorgere nell’anima umana è, semmai, un elemento a favore della loro esistenza oggettiva. E la stessa cosa vale per il sentimento religioso; a meno che non si sia completamente condizionati da un pregiudizio scientista, secondo il quale ciò che non è materialmente verificabile e misurabile quantitativamente, non trova diritto di cittadinanza nella realtà oggettiva.

Locke e Kant, ancora una volta, sono i cattivi maestri, che hanno creato le premesse per un tal modo di pensare; Hegel, in seguito, vi ha aggiunto la più grande di tutte le distorsioni, quella secondo cui non l’essere crea il pensiero, ma il pensiero crea l’essere.

Se, poi, volessimo scavare più a fondo e domandarci perché mai la bellezza possieda un tale elemento di inquietudine, di angoscia, di terrore, probabilmente dovremmo fare i conti con il grande mistero della ferita originaria della natura umana: la quale, non che ascendere - come vorrebbe l’ottimismo evoluzionista - da forme semplici e rozze verso forme sempre più raffinate e complesse, al contrario è discesa, e discesa rovinosamente, da una condizione di pienezza e di armonia verso una di fragilità e smarrimento.

Solo così si spiega la costante propensione e la segreta attrazione dell’anima umana verso il basso, pur avendo, in se stessa, l’anelito a slanciarsi verso le altezze e a perfezionarsi mediante la ricerca e l’esercizio del bene, del vero e del bello.

Quanto al desiderio di una vita che non finisca mai, anch’esso, a ben guardare, testimonia l’origine celeste dell’anima e il suo destino finale di reintegrazione nella pienezza dell’Essere: da dove verrebbe esso altrimenti, se l’anima non avesse conosciuto, in una dimensione  anteriore di cui conserva appena un vago ricordo, una così intensa, inestinguibile nostalgia di assoluto e di eterno?