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Alla corte dei poteri forti

di Antonio Musto - 21/12/2010



Considerazioni sullo schieramento di poteri dopo l’ultima pedina mossa, quella finiana A Palazzo Margherita e presso gli ambienti “che contano”: l’approdo logico e definitivo di Mr. Fini. I corrieri finiani hanno fatto la spola tra Montecitorio, Palazzo Madama e Via Veneto. Fino a Palazzo Margherita, storica sede dell’ambasciata americana a Roma.

Non solo, alcuni di loro sono stati anche protagonisti di viaggi Oltreatlantico ufficiali e non, ma senza che la Farnesina ne fosse informata. Come riportato su alcuni quotidiani, pare che Mr. Fini abbia potuto contare su di una rete diplomatica parallela messa su in questi anni e con l’incarico svolto al ministero degli Esteri. Non è una spy-story da dietrologia della politica, ma è semmai la cronaca che viene a supporto di una ormai lampante liaison tra la compagnia di Bocchino e determinati ambienti americani.

Degli incontri tra Fini ed il vecchio e nuovo ambasciatore Usa nonché delle sue trasvolate atlantiche si è già occupata la stessa stampa nazionale, chi prima chi dopo che fosse opportuno farlo.                                                                                                        

Dal cilindro di WikiLeaks, però, sono usciti elementi più espliciti: l’ambasciata americana a Roma si sarebbe adoperata per costituire in Parlamento un fronte più congeniale alle proprie aspettative, specie nell’intenzione di fronteggiare l’ormai troppo esplicito ammiccamento berlusconiano verso i russi di Putin.

Che i finioti fossero all’uopo il “piede di porco” per scardinare la tenuta della maggioranza di governo lo avevamo rilevato qui tempo fa e non era sfuggito all’attenzione come Fini fosse ormai divenuto il novello cavallo “vincente” di determinati referenti negli States. In modo particolare, pare che Gianfry abbia fatto breccia nei democrats, probabilmente in cerca di velleità badogliane più affidabili rispetto a quelle degli aspiranti democrats nostrani, ormai caduti in disgrazia dopo le Prodi gesta di servitù atlantiche ed eurocratiche, di cui ancora menano vanto e che lo stesso Vendola non ha mai rinfacciato proprio a costoro, che vuole cingere in un abbraccio d’alleanza per una nuova stagione di governo.

Era evidente come la compagine finiota e sfascita non potesse condurre una drastica azione di rottura se non avesse avuto a supporto un’adeguata schiera di poteri e un minimo di prospettiva. La sicumera con cui hanno alzato il tono (Fini pure il dito) contro l’inossidabile Cavaliere e la sfrontatezza del loro atteggiamento misurabile a cominciare dalla protervia e dall’arroganza con cui si sono presentati in ogni luogo mediatico e contro i loro alleati di coalizione, non lasciano dubbi che avessero la certezza di un sostegno di peso, che anzi fossero la carta giocata da uno schieramento di forze insoddisfatto dalla condotta berlusconiana. Uno schieramento confindustriale, debenedettiano e giustizialista, ovvero delle peggiori frange di una magistratura deviata. Frange convergenti in un fronte che è potere contro il potere politico dello Stato. E’ dal 1992 che in questo Paese il flusso delle vicende politiche corre sul filo di un’eversione. Eversione palese per chi voglia intendere con spirito libero e non getti ogni barlume di logica in pasto alle fameliche contrapposizioni di barricata e che non sacrifichi l’uso della ragione sull’altare di una grottesca recita contra personam. Ci domandiamo come sia possibile che lo sforzo di analisi e comprensione del contesto socio-politico sia andato miseramente a morire in una depravata avversione personalistica che fa strame di ogni rigore di indagine e rilevazione dell’andamento del sistema. Ma questo è solo uno dei frutti di un’eversione appunto, ma appositamente edulcorata da un canovaccio mediatico elaborato da appositi cantori e pennivendoli adusi ad una narrazione di cause ed effetti che in realtà è strumentale agli interessi di quei gruppi di potere, dall’industria alla finanza, compartecipi di un non ancora completato disegno di “smidollamento” del sistema-Paese.                 Un avanguardista di questa narrazione nazionale capziosa si conferma Marco Travaglio. Un mestatore nel travaglio dell’Italia. Nel corso di una trasmissione televisiva, lui, la penna armata dei pm d’assalto, ha espressamente ribadito che la chiave di lettura degli ultimi vent’anni non può che essere giudiziaria. Non stupisce. Non solo perché il suo nanismo di vedute, la sua limitatezza di analisi, la sua approssimazione cognitiva dei fenomeni sono imbarazzanti per un figurante pubblico assurto a divo fustigatore dei potenti, ma perché egli è lì a svolgere il compito che è quel compito di cui necessitano i suoi referenti - palesi ed occulti, editoriali e non, a lui conosciuti o meno – per metter su un abbozzo storiografico del Paese ricavato dall’archivistica giudiziaria. La lettura mafio-politico-affaristica di Travaglio, nel suo insieme, costituisce quella lettura funzionale all’azione di quei soggetti e dei loro derivati che da Mani Pulite in poi operano per il proprio parassitismo industriale improduttivo, per una finanza di rapina autoreferenziale, per un Italia lacerata e incastonata nelle schemi neoliberisti dell’eurocrazia e al vento delle manovre atlantiche. Non c’è peggior interpretazione di Craxi, di Mani Pulite e delle politiche economiche susseguenti, di quella fornita da Travaglio e soci politico-giornalistico-togati. Insomma, quei funzionari impostori il cui racconto nazionale e la cui azione sono funzionali al mandato operativo del Britanna che ancora oggi si dipana anche in nuove forme e con nuovi agenti. Il baldo Marco è stato sincero per sua stessa affermazione: serve gente come i Ciampi e Prodi ma con cinquant’anni di meno. Non avevamo dubbi, del resto, che la sua “opera omnia” fosse la propaggine editoriale dei desiderata dei poteri forti. Travaglio amerà molto Fini. Il vasto “partito di Repubblica” è con Fini.                          L’azione dei finioti è variabile della destabilizzazione del Paese.                                                      Se è vero come è vero che destra e sinistra pari sono nella loro sostanza “liberal-democratica”, occorre però distinguerne le fattezze e le contingenze. Il rifiuto di entrambe (o di una di esse) non può essere preconcetto e basato su un approccio che non intenda cosa accade in questo o quell’altro campo. L’indagine su cosa si muove e cosa si determina negli schieramenti politici, l’indagine sulla loro condotta è parte utile dell’indagine sull’andamento dell’intero sistema. In questo modo possiamo avvertire dove la bilancia dei poteri pende e in che modo questi si manifestino. E non c’è dubbio che in questo torno di tempo dagli anni Novanta ad oggi, l’establishment di poteri – di certi poteri - stia coagulando rappresentanze politiche diverse nell’intento di disporre di un campo di azione ancor più sfruttabile. La compagine di Fini è un tassello in più definitivamente acquisito a questo progetto. Sia per la parabola politica del personaggio, che ora ci consegna il profilo di una destra in larga parte integrata nella traiettoria del pensiero unico, sia per la conseguente ed esplicita convergenza con gli intenti e le rendite di potere delle fazioni che più sono penetrate nei gangli dell’informazione e degli assetti bancari, industriali e della magistratura. Fazioni queste che non ricalcano alcuna vasta rappresentanza sociale né le istanze derivanti dai bisogni del mondo effettivamente produttivo. Fini è ora apertamente impegnato in questo fronte della rappresentanza autoreferenziale che mira ad abbattere quel mal riuscito tentativo di saldatura social-produttiva che si è consumato all’ombra dell’egemonia berlusconiana. Che certe componenti dei vertici delle aziende pubbliche come Eni, Enel e Finmeccanica abbiano trovato un ripiegamento tattico nel campo del centrodestra per mettersi al riparo dalle continue destabilizzazioni provenienti dall’interno e fuori dal Paese e per tracciare vie più sicure e proficue per accordi ed affari, è un dato in più e null’affatto secondario che ci consente di misurare appunto l’ulteriore divaricazione occorsa tra le forze attive.                                                                                                                

Nel linguaggio più classico, Fini è ora compartecipe della linea politico-culturale liberal-liberista di derivazione atlantica dove sin ora è stata in prima fila schierato l’insieme delle componenti del centrosinistra (sotto le mentite spoglie dell’immaginario para-comunista), seguito nelle retrovie da un centrodestra ormai non abbastanza corrispondente né ai canoni eurocratici di Bruxelles né alle mire della finanza angloamericana né alle logiche geopolitiche atlantiche. Certo, nell’insieme Pdl-Lega si annidano e anche visibilmente personaggi nettamente funzionali a questi canoni, ma ciò è possibile non solo per loro scelta tattica, ma anche perché questo insieme non è certo culturalmente predisposto e politicamente strutturato nel senso di un’aperta e alternativa contrapposizione all’asse Washington-Bruxelles. Detto ciò, prendiamo atto che in Italia la bilancia dei poteri con le loro quinte colonne editoriali e politiche pende nettamente dalla parte di questo asse. La destra nostrana (sorta “per reazione” nello sconquasso di Mani Pulite), nonostante tutto, proprio perché alimentata dalle esigenze difensive di quelle forze – sociali, industriali e finanziarie - cresciute e sostenutesi nei legami Dc-Psi (schematizzando), non corrisponde compiutamente all’ideal-tipo di destra liberista, fermo restando le evidenti infiltrazioni in tal senso provenienti dagli ambienti intellettuali e dai centri di pressione (come certe università) maturati nella corrente di pensiero dominante, del resto, in tutto l’Occidente. Dall’altra parte invece, sul versante dei rinnegati del comunismo – ormai è storia- i furbi del parassitismo nostrano interconnessi con le centrali economico-finanziarie atlantiche trovano l’occasione di un connubio che grava sulle sorti dell’intero Paese.

Nell’esigenza di buttar giù Berlusconi, Gianfranco Fini ha incrociato le sue ambizioni con quelle di queste centrali. Sul piano tattico, in questo momento, con il fallimento della sfiducia in Parlamento, Fini constata una bruciante sconfitta. Al momento. La bastonatura in cui è incorso è uno stop alla predisposta manovra di disarcionare il Cavaliere nell’intento di procedere ad uno sgretolamento del Pdl e della sua alleanza con la Lega e ad un governo dei “responsabili” che, con l’alibi dell’instabilità, di fatto rifilasse al Paese un pacchetto di interventi “necessari” e impopolari nella loro carica anti-sociale. Interventi che, supportati da più partiti, avrebbero le sembianze di misure di alta responsabilità politico-istituzionale e sarebbero a quel punto non spendibili nel gioco delle contrapposizioni, proprio perché condivisi. Praticamente, una concreta convergenza con le istanze confindustriali con a rimorchio i sindacati. Scene già viste sull’onda della crisi degli anni ’90. E a tutt’oggi non possiamo escludere che i rischi di una destabilizzazione finanziaria e di un attacco speculativo possano prender forma e costituire la forzatura necessaria per l’implementazione di quegli interventi che si rimprovera al Governo di non aver fatto (e che non sono di certo quelli per aiutare precari o disoccupati). Come si può criticare la sua politica economica, giudicandola iniqua, richiamandosi all’urgenza di una scelta che evochi quella fatta, a suo tempo, con Ciampi?

Parallelamente alle fibrillazioni politiche, si materializzano sempre più gli attacchi all’Eni e a Finmeccanica, mediante apposite campagne stampa o giudiziarie al fine di comprometterne i progetti e respingere l’azione attuale dei loro vertici. A ciò si collega, ed è un fattore di peso, la partita delle nomine di Authority e aziende partecipate (come già segnalammo mesi fa, soffermandoci anche sul tentativo in atto di far saltare il progetto del nucleare -
VERTICI E STRATEGIE), dove si vorrebbe metter mano per un “riposizionamento strategico”.                                                

La partecipazione attiva di Fini in un simile scenario si salda, sul filo delle analogie, con la funzione svolta da lui e dai missini nella fase di Tangentopoli, quando la loro carica populista e reazionaria si avviluppò all’azione della magistratura e ai rigurgiti di piazza per abbattere la vecchia classe dirigente e la sua piattaforma di controllo e influenza. Una funzione allora collaterale, mentre quella di oggi è consapevolmente meditata e attuata (e contando su figure di altra estrazione politica).  Completato il percorso di una destra missina in nuce già atlantica e strumentale ad un dato dis/ordine di cose interno e internazionale, timbrato il cartellino a Washington e Tel Aviv, appiattitosi sulle posizioni delle varie nomenclature, Fini ha alzato la cresta e ha puntato il dito. Rimasto al momento bruciato, sarà prossimamente riciclato in un’altra scenetta da Arlecchino servo dei padroni.