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Racconto per una notte d’inverno

di Alessandra Colla - 22/12/2010


Socchiuse la porta della toilette sbirciando da una parte e dall’altra per assicurarsi di non essere vista da nessuno, e scivolò veloce lungo il corridoio per rientrare nel suo ufficio.
Dalla più grande delle sale riunioni arrivava il brusìo festoso del rinfresco offerto dalla direzione, ma lei non vedeva l’ora di immergersi nuovamente nel silenzio della sua stanza, lontano da tutta quell’ipocrisia luccicante che le toccava subire ogni benedetto dicembre.
Pazienza per il Capodanno: anche se non ricordava di essersi mai veramente divertita in quelle occasioni di allegria forzata che le mettevano addosso la voglia di scappare. Ma il Natale proprio no.
Quello sì che era insopportabile, con le sue troppe luci, i troppi sorrisi, la troppa gentilezza — tutta roba destinata a finire in uno scatolone da portare in cantina e tirar fuori l’anno dopo, alla faccia dei buoni sentimenti.
Finalmente al sicuro dietro la scrivania, contemplò il calendario. Era soltanto il 21: mancavano ancora quattro giorni — lunghi, noiosi e minacciosamente traboccanti di telefonate, messaggi e biglietti d’auguri ai quali le sarebbe toccato rispondere.
Qualcuno bussò alla porta, e lei si tuffò dietro il pc per dare l’idea di essere una persona molto impegnata. La porta si aprì lasciando spuntare un paio di teste sorridenti: «Ma come, è ancora qui?!? Le abbiamo portato qualcosina, se proprio non ce la fa a liberarsi e a venire di là con noi…» e una delle segretarie le mise sul tavolo un piatto di stuzzichini e un bicchiere di champagne. Poi scapparono via in un turbinìo di volants e paillettes — un cocktail in ufficio, che occasione di sfoggio…
Si tolse dalla faccia il sorriso di circostanza, e si riadagiò sulla poltrona (ergonomica e lussuosa, servirà pure a qualcosa essere in carriera, no?), sospirando. In realtà di lavoro da fare ne aveva sul serio, e parecchio. Ma in quei giorni prefestivi sembrava che la gente non ci stesse più con la testa, e anche le cose più semplici diventavano inspiegabilmente complicate. Avevano tutti quell’espressione indisponente, come bambini che già avessero combinato una marachella o che ne stessero architettando una, ma grossa grossa… E non c’era angolo in città che non fosse afflitto da qualcosa di scintillante o di rosso o di tintinnante, come se l’unico pensiero fosse — dovesse essere! — per forza quello del Natale col suo strascico di stucchevoli rituali.
Guardò l’ora, e andò ad aprire la porta: il brusìo si era smorzato, e gli uffici lentamente si svuotavano. Richiuse e andò alla finestra: giù in strada tutti sciamavano verso casa, impazienti di dare inizio al lungo ponte festivo.
A lei, di andare a casa, non importava poi un granché — non l’aspettava nessuno, neanche un cane o un gatto. Nemmeno una pianta, per la verità: quelle che aveva gliele curava il portinaio, che si premurava di fargliele trovare sul pianerottolo il venerdì sera, con le foglie lustre e ben innaffiate, pronte a fare bella figura nel fine settimana. Non in tutti i fine settimana, naturalmente: perché spesso era fuori casa, in viaggio da sola o con qualcuno.
Se le avessero fatto notare che la sua indipendenza si avviava pericolosamente a far rima con solitudine, si sarebbe messa a ridere. Stava bene così, lei. Diceva. Forse lo pensava davvero: anche se le capitava raramente di pensare a se stessa.
Si trattenne ancora un po’ a sistemare le ultime cose, poi chiamò un taxi e scese alla svelta. Ebbe la fortuna di trovare un tassista introverso — o semplicemente appassionato di radio, dal momento che la teneva a un volume troppo alto per fare conversazione. Durante il tragitto, più lungo del consueto a causa del traffico, ebbe modo di farsi una cultura sul solstizio in corso — vero, il 21 dicembre è il solstizio d’inverno, e la mente le si affollò anche di leggende ed equinozi e vaghe reminiscenze di geografia astronomica, tanto che si ritrovò sotto casa senza quasi accorgersene. Pagò il tassista, che ebbe la compiacenza di non augurarle un bel niente, e salì in casa.
La sera le trascorse uguale a mille altre sere, nell’appartamento curatissimo in cui soltanto il calendario denunciava l’avvicendarsi delle stagioni. La mezzanotte giunse veloce, e poi passò; non mancava molto alle due quando si decise ad andare a letto, dopo la routine di libri e film che le tenevano compagnia quando non c’era nessuno con lei, e mentre si preparava per dormire fu attratta da un insolito tremolìo nel cielo stellato che riempiva la finestra: l’aria era gelida e cristallina, e lassù all’undicesimo piano la notte sembrava in qualche modo diversa. Si avvolse in uno scialle e uscì sulla terrazza, guardando il cielo incuriosita come se fosse la prima volta: sul nero implacabile della notte d’inverno le stelle baluginavano incerte, e il fenomeno la sorprese. A un tratto, con la coda dell’occhio, colse un movimento strano, come quando si scorge per caso una stella cadente
siamo a dicembre, che sciocchezza! Ma il movimento strano si ripeté dopo qualche istante, e finalmente riuscì a capire: là dove prima aveva visto una stella, ora c’era soltanto il buio. L’idea le parve così assurda che non riuscì a staccarsi da dov’era, e rimase col naso in su, a contemplare incredula quello che sicuramente doveva avere solo immaginato. Ecco, di nuovo: era sparita un’altra stella. E poi, lentamente, una terza, e poi ancora un’altra e un’altra… Attonita — no, spaventata — pescò nella tasca della tuta il cellulare (e chi avrebbe chiamato? la polizia? i carabinieri? i vigili del fuoco? a chi si telefona quando sparisce una stella? bisogna fare una denuncia?) e si avvide che ormai erano quasi le tre: e intanto piano piano, lentamente, le stelle sparivano lasciando la notte sempre più buia, e l’alba sembrava così lontana e chissà quando sarebbe sorto il sole a squarciare quelle tenebre… Ma se le stelle si stavano spegnendo, che sarebbe successo al sole? È una stella, no? Si sarebbe spento? Cioè, sarebbe sorto ancora? O era già sparito anche lui?
Si accorse che stava battendo i denti, e non soltanto per il freddo; sentiva di avere gli occhi spalancati dal terrore, ormai, e non più dal semplice sforzo di vedere nel buio. Rientrò precipitosamente, mentre il cervello pulsava frenetico alla ricerca di un appiglio razionale che le permettesse di contenere il panico. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era “luce”; e d’un tratto le vennero in mente le cose che aveva sentito per radio, e insieme a quelle anche gli echi di vecchi racconti e i ricordi delle serate in famiglia, quando era bambina e le carte da scegliere nel mazzo erano così tante da non poterle contare…
Il cielo s’incupiva sempre più, lentamente ma senza posa, mentre lei rovesciava i cassetti e vuotava le scatole nel ripostiglio, alla ricerca dell’unico rimedio che avrebbe rimesso le cose a posto — forse… Forse?!? Finalmente, dal fondo di un sacchetto di nastri, carte da regalo e cianfrusaglie, emerse una candelina rossa, infiocchettata di verde, con un campanellino d’oro un po’ ammaccato.
Reggendola trionfante fra le mani corse in cucina e l’accese sul fornello; poi corse sul terrazzo e la levò alta verso il cielo sempre più nero.
Rabbrividiva — e non soltanto per il freddo — mentre ripeteva il gesto antico per scongiurare un terrore altrettanto antico: la fiammella tremolava nella notte, e aveva le mani ghiacciate.
A un tratto, con la coda dell’occhio, percepì qualcosa nelle tenebre che la sovrastavano: volse la testa di scatto ed ecco, là dove c’era il buio, brillava debolmente una stella. Poi, dopo un tempo interminabile, apparve un altro bagliore, e poi pian piano un terzo e un altro ancora, e il cielo non fu più un drappo denso ma un velo scintillante.
Ora non sentiva più il freddo, e le labbra gelate le si stirarono in un sorriso spontaneo mentre restava lì, in piedi sul terrazzo, ad aspettare l’aurora. Sarebbe arrivata, lo sapeva; e dopo di lei l’alba e finalmente il sole — un sole tutto nuovo, trionfante nella luce che avrebbe spazzato via quelle ore cupe, rese ancora più buie dalla paura di una notte senza fine.
All’orizzonte, il cielo si tinse lentamente di un lilla tenue che sfumava nel lavanda e poi in un rassicurante rosa pesca. L’alba era prossima, e con essa il nuovo sole.
Sbadigliò: era ora di andare a riposare, perché il giorno dopo sarebbe stato pieno di impegni — scrivere auguri e comprare regali e addobbare la casa. Natale è già qui.