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Isabelle Caro, la bambina di ossa

di Rosa Ana De Santis - 30/12/2010



L’abbiamo vista appesa sui grandi cartelli di una campagna pubblicitaria. Era il 2007 e il suo corpo nudo, con i tessuti appiccicati e quasi risucchiati dallo scheletro, arrivava come un pugno. Il gusto per lo shock aveva guidato, come di consueto, gli scatti fotografici di Olivero Toscani, fino al punto di rendere quella guerra all’anoressia insolente e insopportabile. Era intervenuto il giurì della pubblicità a stoppare la campagna, mentre l’allora Ministro della Salute, Livia Turco, aveva patrocinato l’iniziativa. Isabelle é morta a 28 anni il 17 novembre scorso a Tokyo, dopo 15 anni di sofferenza e malattia.

Aveva accettato di posare nuda, mostrando i segni e i vuoti di quel morbo che aveva tolto cibo al suo cervello, ai suoi progetti e alla sua carne, perché sapeva di essere malata, di esser finita in un girone dantesco, di dover sfuggire alla morte. Dal web Isabelle segnalava link di nutrizionisti e psicoterapeuti, aggiornava i lettori sulla sua rieducazione alimentare, sulle evoluzioni della sua faticosa riconquista della vita che l’aveva portata quasi a 32 kg.

Le motivazioni della sua malattia venivano da lontano, dai suoi 13 anni di adolescente, figlia di una donna che non voleva vederla crescere. L’esaltazione della magrezza, la moda, le esibizioni da attrice, poi l’apnea delle tisane, del the, della sola acqua. Bocca senza cibo, organi vuoti come sacchi, ormoni silenziati in una vita asfissiata ogni giorno un po’, sempre di più. Ad ucciderla una polmonite con complicazioni, le conseguenze di un corpo frustato da inedia e stenti.

La malattia quindi si era annidata in Isabelle da un rapporto sbagliato con una madre depressa, ma era cresciuta bene sotto i riflettori mentre lei languiva, ben protetta del glamour che vuole la bellezza femminile delle passerelle striminzita, asciutta e ossuta come solo il corpicino di una bambina prima dello sviluppo può essere. Il mondo della moda aveva elegantemente smarcato l’accusa addebitando ai problemi psichiatrici di Isabelle le ragioni di quel disturbo alimentare. Ma era proprio lei a ricordare che alle modelle vengono chiesti dimagrimenti drastici, che il corpo deve quasi scomparire e lasciare visibilità al solo abito indossato, che i criteri di massa corporea non inferiore a 18 sono solo bugie. Che la moda l’aveva definitivamente inabissata, condannandola.

Impossibile non crederle se una come Kate Moss, simbolo del fashion per eccellenza,  corteggiata e strapagata dagli stilisti più celebri, rivendica il gusto di essere pelle e ossa. Bella per essere cocainomane e maledetta, sexy nelle sue ossa sporgenti, nei seni piallati, nelle cosce divise dall’aria che passa attraverso i suoi 40 kg scarsi. La bellezza di queste dive altissime e mute strapazza il cervello delle nostre adolescenti e insinua il tarlo di un’equazione esasperata tra magrezza estrema e bellezza, tra centrifuga di diet coke con anfetamine e lustrini di una vita di successo. Molte le ragazze scappate all’inferno che i rotocalchi patinati nascondono. Jessica Clark, Crystal Renn tra le più famose e le più attive nelle denuncia del meccanismo spietato che alimenta mondo e mercato della moda.

Tante quelle che ancora vediamo sospese sulle gambe ridotte a stecchini in bilico sui trampoli della nuova collezione. Quando le sfilate, come accadde nel 2006 a Madrid, bandiranno l’esibizione di questi corpi malati, allora la denuncia della bambina Isabelle avrà avuto senso e quella campagna che molti non capirono, ora la capiranno. Così, finalmente compreso e meno indigesto ai maestri del buon gusto, sarà anche quel ritratto di dolore esibito come un urlo in mezzo al traffico, sulle borse dello shopping, addosso a tutti. Isabelle di schiena con gli anelli della colonna vertebrale in evidenza, non conteneva rischi di emulazione. Nemmeno la modella israeliana Hila Elmalich, con i suoi radi capelli spenti, lo aveva. E nemmeno la modella uruguayana Luisell Ramos, dopo anni di sola lattuga e bibite ipocaloriche. Tutte morte sulla passerella.

Il rischio di emulazione e di contagio dell’anoressia, che molti erroneamente videro in quella campagna, sta invece nel continuare a vedere queste donne tempestate di lustrini e di scatti fotografici, andare avanti e indietro come stampelle, mentre la pubblicità le fa rimbalzare da una pagina all’altra, semplicemente perché non esistono. Leggere come fantasmi. Donne senza corpo. Che alla fine diventano senza anima.

La nausea di quelle foto serviva a questo. E Isabelle che conosceva il male silenzioso che l’aveva stretta in un digiuno protratto per anni, sapeva di dover rispondere in modo forte alla violenza silenziosa che tante donne subiscono. Senza consapevolezza e senza ribellione. In nome di una bellezza che se la guardi bene e in profondità diventa vuota e cava come quella faccia, macchiata dalla psoriasi, che ci guardava a stento da due grandi  occhi chiari. L’unica bellezza che l’anoressia non le aveva portato via.