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I Robin Hood della Siberia

di Nicolai Lilin - 03/01/2011

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Se Rambo diventa Robin Hood, se il reduce addestrato a combattere come una macchina da guerra si mette al comando di una banda di ragazzi e li guida contro la corruzione degli sceriffi, allora la situazione diventa pericolosa per qualunque governo. Lo è doppiamente se tutto questo accade nei boschi della Siberia, una miniera d’oro che rifornisce di legname pregiato i ricchi di tutto il pianeta, e i ribelli diventano così forti da trasformarsi in una sfida all’autorità di Putin: non più cronaca ma leggenda dell’Oriente estremo dove codici d’onore e tecnologia, corruzione e guerriglia si inseguono tra i fusti di alberi secolari. Questa è la storia dei “Fratelli del bosco”, una vicenda che i media governativi russi hanno cercato di nascondere e che il Web invece sta rendendo celebre in tutte le Repubbliche che una volta si chiamavano sovietiche: una ballata triste, perché ha un finale amaro, raccontata intorno al fuoco nelle notti dell’inverno siberiano e nelle chat su Internet.

Tutto nasce nelle foreste di Primorski Krai, terra bellissima e incantata al confine con la Cina, dove le conifere regalano assi solide per i cantieri e materiale splendido per i rivestimenti, dando lavoro a moltissime aziende: ogni anno tre milioni di metri cubi di legname prendono la strada dell’esportazione. I boschi sono sterminati, si distendono per oltre 130 mila chilometri quadrati: una foresta grande quanto l’Italia centro-settentrionale, costellata di piccoli villaggi e segherie dove spesso vanno a vivere gli ex militari.

Tutti però sanno che l’ombra della taiga non nasconde solo gli orsi e le tigri, ma protegge anche la corruzione delle autorità locali e soprattutto quella della polizia, che oltre al pagamento delle tasse e delle licenze sullo sfruttamento dei boschi impone il racket su qualunque attività: per tirare avanti gli imprenditori spesso si rifanno sui taglialegna e sui lavoratori, obbligati ad accettare salari sempre più bassi. La popolazione vive sapendo di non avere diritti, accettando ogni sopruso da quegli uomini in uniforme che considera alla stregua dei carcerieri: la loro prepotenza ha creato battute sarcastiche, che circolano nei centri minori della Siberia. «Putin a differenza di Stalin non ha bisogno di costruire i gulag, per risparmiare denaro il potere di Mosca trasforma in lager intere cittadine, costringendo gli abitanti a una vita da detenuti», sussurrano a Primorski Krai.

Lamentele che sarebbero rimaste confinate nelle sperdute distese dell’Asia, se il Web non le avesse rilanciate in tutte le città russe, con cronache di violenze fisiche, di ragazze stuprate, di professionisti rapinati e di imprenditori taglieggiati: tutto sempre ad opera di agenti delle forze dell’ordine. In questa situazione è bastato poco per scatenare l’incendio. Ci hanno pensato i riflessi condizionati di Roman Murovzez,un ragazzo che lo Stato aveva trasformato in strumento di morte: un reduce della Cecenia, uno dei tanti che faticano a trovare un posto nella Russia di oggi dopo avere vissuto l’orrore di quel massacro. Al ritorno a casa aveva incontrato solo corruzione e si era reso conto che quegli ideali di Patria per cui aveva ucciso e aveva visto morire i suoi commilitoni erano solo bugie, gli slogan di un’oligarchia sempre più spregiudicata. In una palestra aveva fatto amicizia con altri ragazzi, di poco più giovani e altrettanto delusi.

Un giorno della scorsa primavera la polizia arresta uno dei compagni di Roman, di soli 17 anni: lo chiudono in cella e lo picchiano con ferocia perché vogliono che confessi un crimine che non aveva commesso. La responsabilità era del figlio di un politico locale, che aveva pagato gli agenti per trovare un capro espiatorio, per far cadere la colpa su uno di questi servi della gleba senza diritti come ai tempi degli zar. Quando dopo giorni il ragazzo viene rilasciato, il suo corpo mostra i segni delle torture e fa esplodere l’ira dei suoi amici. Il gruppo della palestra corre alla caserma, urla, protesta: sono in otto, incapaci di frenare la rabbia. Un giovane agente esce spavaldo e spiana la pistola contro di loro: «Zitti cani, andate via o vi ammazzo!». Non sa chi ha davanti.

Non sa che Roman Murovzev si era guadagnato i gradi di sergente maggiore neutralizzando ben altri avversari, che alla guida dei suoi commandos delle forze speciali aviotrasportate in Cecenia aveva sfidato la morte decine di volte. L’agente insulta ancora l’ex parà, che si trasforma in un’automa: in un attimo gli strappa l’arma, poi con un colpo di karate lo stordisce e lo stende al suolo. Roman segue l’istinto, applica il copione ripetuto cento volte in Cecenia: come un robot, entra nella caserma pistola alla mano e spara; fa fuoco per uccidere, come gli avevano insegnato nella scuola militare, come aveva fatto in decine di raid contro i miliziani islamici. Uno dopo l’altro, ammazza tutti i poliziotti presenti: qualcuno cerca di rispondere al tiro, ma il Rambo siberiano è molto più rapido e preciso. A terra restano cinque corpi, tutti centrati da un colpo alla testa e uno al cuore: la firma delle forze speciali.

I compagni della palestra capiscono che a non si può tornare indietro: aprono l’armeria e prendono kalashnikov, giubbotti antiproiettili, ricetrasmittenti. Saltano su un fuoristrada della polizia e fuggono nel bosco, dove nessuno avrebbe avuto il coraggio di inseguirli. Per giorni la strage resta un mistero. Le autorità hanno paura, temono che pubblicizzare il massacro accenda i riflettori di tutta la Russia sulla corruzione locale. Per questo la stampa diffonde solo la versione ufficiale: parla di “un incidente” e della fuga di una banda di pericolosi criminali. Ma il passaparola tra la gente racconta un’altra storia: «Finalmente c’è chi ha avuto il coraggio di alzare la testa». Roman e i suoi amici diventano i “Fratelli del bosco”. C’è una gara ad aiutarli con viveri, munizioni, nascondigli. E i ribelli tornano a colpire: attaccano jeep della polizia, si impossessano di altre armi, colpiscono una caserma e poi spariscono tra le conifere, nella loro taiga colma di profumi della primavera che per una volta ha anche il sapore della libertà. Il governatorato locale è nel panico. Anche perché i “Fratelli del bosco” fanno conoscere a tutta la Russia la loro protesta armata: mettono sul Web una serie di video in cui descrivono quello che hanno commesso, elencando corruzione e soprusi delle forze dell’ordine. Non sono messaggi arroganti, anzi: c’è una profonda tristezza nelle parole di questi guerriglieri spesso minorenni. Sanno di non avere speranza, sanno di essere destinati alla sconfitta: «Non dureremo a lungo, presto arriverà l’esercito e ci ammazzeranno», dichiara alla webcam il comandante Roman. Sembrano bambini con la mimetica dei guerrieri, bambini perduti che invocano il perdono delle famiglie e invitano gli altri giovani a mantenere la calma: «Noi stiamo sbagliando, noi non abbiamo futuro…».

Era stato proprio Roman a mandare indietro altri volontari e a spiegare ai suoi compagni cosa li attendeva: gli aveva parlato della Cecenia, dei suoi incubi, delle foreste e dei villaggi cancellati dalle bombe. Sapeva che Mosca non avrebbe tollerato. E aveva ragione.

Quando la saga dei “Fratelli del bosco” comincia a circolare anche nella capitale, è Putin in persona a ordinare in diretta tv: «Quei terroristi devono essere eliminati». I boschi di Primorski Krai si trasformano in un’altra Cecenia: per stanare un pugno di ragazzi vengono schierate tre unità speciali con squadre di cecchini e nuclei di incursori. Autoblindo pattugliano le strade mentre gli elicotteri da combattimento seminano nella foresta sensori elettronici per scoprire le mosse dei fuggitivi: poco alla volta la rete si chiude. I “Fratelli del bosco” si dividono e marciano lungo direzioni opposte verso le città. Cinque vengono intercettati dopo una settimana: si arrendono solo dopo aver finito le munizioni. Altri due cadono in trappola davanti al condominio delle loro famiglie: le madri in lacrime li hanno pregati di arrendersi. Ma loro in preda alla disperazione si sono suicidati. Era l’11 giugno: a quel punto per Mosca la questione si è chiusa: «Il gruppo di terroristi è stato liquidato». Ci sono stati elogi e medaglie per i protagonisti della caccia all’uomo, la polizia locale ha ripreso a spadroneggiare: la taiga è tornata cosa loro.

Il comandante Roman invece è sparito nel nulla. C’è chi sostiene che sia ancora nella foresta, chi dice che anche lui abbia preferito la morte alla resa e chi narra di una sua lunga marcia fino alla Cina. Ma tra racconti passati di famiglia in famigli e altri finiti nei blog, quella dei “Fratelli del bosco” è diventata l’ultima epopea siberiana. Li chiamano “i nuovi partigiani” e vengono esaltati come eroi soprattutto dalla comunità di reduci che dopo l’Afghanistan e la Cecenia si sono trasferiti in queste dure terre, lavorando nell’industria del legno.

«I partigiani sono più vicini al popolo degli agenti della polizia…», dice il colonnello Anatoli Ermolin, celebre ai tempi dell’Urss per avere guidato l’unità speciale Vimpel nel raid dell’Armata rossa che permise di occupare Kabul: «In questa regione ci sono molti ufficiali in congedo, il governo ci ha dimenticato, ignorando quale risorsa potrebbe essere il nostro senso dell’onore. Quando noi vediamo come molti funzionari della polizia fanno i soldi sulle disgrazie della gente, ci sentiamo più uniti che mai: ogni militare onesto è sempre pronto a difendere il debole e il popolo è dalla nostra parte».
Sono parole che fanno paura e portano a temere che tanti possano seguire l’esempio dei “Fratelli del bosco”, in una Siberia ricca di risorse e sempre più avida di autonomia da Mosca.
«Questa regione non ripone più alcuna fiducia nel governo», ricorda il direttore del comitato nazionale contro la corruzione, Kirill Kabanov: «Ci sono state persone che sono state picchiate e umiliate per aver chiesto la tutela della legge contro la polizia e l’amministrazione corrotta». Gli fa eco Aleksei Kondaurov, generale del Fsb: «Quando lo Stato cerca di applicare il suo potere con la forza bruta, il popolo risponde usando gli stessi meccanismi. Ma nessuno vuole informare il Paese, perché è pericoloso raccontare che in una regione i cittadini prendono le armi contro la polizia: ai politici russi non serve un’altra Cecenia».

Non serviva nemmeno al giovane Roman, tornato comandante suo malgrado: lui di guerra ne aveva abbastanza, ma quando la parola “Patria” perde ogni significato, allora resta solo la fratellanza, il legame con i compagni. Chissà se l’ex parà sa di essere diventato una leggenda. Certo, la storia dei Robin Hood siberiani non ha avuto un lieto fine ma forse anche questo fa parte della tradizione russa, che predilige le conclusioni tragiche, quelle che riflettono la vita di un paese così bello e così difficile.