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Una strage. Ma non prendiamocela con l’Islam

di Miro Renzaglia - 03/01/2011



Una strage è una strage. E provoca orrore, qualunque sia il motivo che la genera. Ma se fosse possibile stabilire una graduatoria dell’orrore in fatto di stragi, quelle messe in atto per motivi religiosi sono le più orrende. Dove un Dio “clemente e misericordioso”  arma la mano dei suoi fedeli fino al punto di istigarli ad annientare indiscriminatamente quelli di un altro Dio (o viceversa), le facoltà della comprensione umana si sospendono sul vuoto. “Farsene una ragione”, secondo formula che applicata consente il dominio delle emozioni e l’elaborazione del lutto, diventa praticamente impossibile. Se la fede nel divino, qualsiasi divino, trascende la razionalità umana, la strage in nome di Dio ne è l’epifenomeno.

Poco dopo mezzanotte del 31 dicembre 2010, durante la messa di Capodanno, in una chiesa cristiano-copta di Alessandria d’Egitto, presumibili kamikaze islamici si nono fatti esplodere addosso una carica di dinamite provocando la morte di 21 persone e il ferimento di un altro centinaio. Solo una settimana prima, il 25 dicembre, nelle città di Jos e Maiduguri, in Nigeria, una serie di attentati contro le chiese cristiane aveva provocato la morte di 38 fedeli e, anche qui, un centinaio di feriti. E risale appena a marzo del 2010 la carneficina di 500 cristiani massacrati a colpi di machete, sempre in Nigeria, dove, il 5 maggio del 2004, miliziani cristiani avevano ucciso 630 musulmani nella città di Yelwa.

Ma non è solo nel tormentato continente africano che gli scontri interreligiosi si susseguono quasi senza soluzione. Il 17 dicembre, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha denunciato “l’esodo” di migliaia di cristiani dall’Iraq dopo l’attentato che il 31 ottobre ha ucciso 46 persone nella cattedrale di Baghdad.

Si dice che dietro i motivi religiosi che determinano stragi, eccidi, carneficine, e guerre, si celino divisioni più pratiche e mondane: il potere politico ed economico interno ed esterno delle nazioni in primo luogo. Le persecuzioni dei cristiani nell’antica Roma, per esempio, sembrano rientrare in questa seconda ipotesi: basta fare una visita ad Ostia Antica per accorgersi che, ancora tra il I e IV secolo d.c., tempi pagani, chiesa cristiana e sinagoga ebraica convivevano in rispettosa e reciproca tolleranza. Tano che non risultano tracce evidenti di lotte religiose nel mondo della paganità politeista. Fu solo con l’affermarsi del cristianesimo prima e dell’Islam dopo  che le masse, nel corso dei secoli, furono più agevolmente mobilitate (o fanatizzate) facendo leva sulle corde sottili e irrazionali della fede religiosa. Non è sicuramente un azzardo notare la stretta connessione fra culti monoteisti e intolleranza religiosa che sfocerà, fra l’XI e il XII secolo nelle Crociate. E sarà solo tra il 1500 e il 1600 che in Europa (segnatamente in Francia) si parlerà esplicitamente per la prima volta e propriamente di “guerre di religione”. Per arrivare alla definizione di “scontro di civiltà”, invece, dovremo aspettare l’omonimo saggio teorico di Samuel Phillips Huntington (Scontro di civiltà e nuovo ordine mondiale, 1996) l’assalto alle Twin Towers di New York dell’11 settembre 2001 e l’avvio di quella prassi di criminalità globale che va sotto il titolo di “guerra al terrorismo”, scatenata di conseguenza dalle potenze occidentali con le invasioni di Afghanistan (2001) e Iraq  (2003) e riproposta ovunque sulla Terra.

Forse aveva ragione Stalin quando affermava che «la morte di un uomo è una tragedia, quella di milioni di uomini è solo un dato statistico».  Come dicevamo all’inizio, una strage è una strage, centinaia di stragi, in nome di dio della civiltà o della democrazia, servono solo  a rendere l’uomo assuefatto alla convinzione che gli “altri” non siamo “noi”. E che fra “noi” e gli “altri” l’unico nesso possibile sia l’annientamento.

La strage di Capodanno ad Alessandria ha ridato fiato ai tromboni che pretendono risolvere i conflitti con il conflitto, la violenza con la violenza, l’incomprensione con l’incomprensione. Siccome è una dinamica che conosciamo da millenni, non osiamo sperare che possa interrompersi con la “buona volontà”. C’è bisogno di una profonda riconsiderazione culturale di noi stessi che, purtroppo, richiederà tempi lunghi, forse lunghissimi. Pretendere che siano gli “altri” a farla prima di noi non giova. Da qualche parte bisognerà pure cominciare. L’Islam non è Al-Qaeda e non sono nemmeno i kamikaze di una malintesa Jihad. E’ stata ed è una grande civiltà. Rifiutare il dialogo, anche da parte di chi, come me, è distante dal suo credo religioso, non farà altro che sclerotizzare il presente su passati remoti, anziché sul futuro. Ed è solo lì, nel futuro, che cresce la speranza.