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Io mi provoco da sola (ma non sono felice)

di Francesco Lamendola - 05/01/2011


Uno degli effetti più strani e disarmonici dell’esasperato edonismo e del narcisismo automatico, simile ad un riflesso condizionato, che caratterizzano l’infantilismo consumistico e la smania di apparire anziché di essere, propri della società contemporanea, è la tendenza, sempre più accentuata, non tanto all’autoseduzione, quanto all’autoprovocazione.
Ciò si osserva in entrambi i sessi, e, da alcuni anni a questa parte, forse tra gli uomini più ancora che tra le donne; però, in termini assoluti, il fenomeno è più femminile che maschile, sia perché più antico (la prima donna “moderna”, in questo senso, deve considerarsi la Mirandolina del Goldoni), sia perché, probabilmente, esso affonda nelle pieghe più riposte della psiche femminile e ne costituisce una componente naturale, anche se determinate circostanze storico-culturali possono favorirne ed accentuarne la manifestazione, oppure frenarla ed inibirla.
La donna desidera piacere all’uomo, così come l’uomo desidera piacere alla donna; ed entrambi desiderano piacere a se stessi: fin qui, nulla di strano né di regressivo, nulla che sia in contrasto con la normale linea di sviluppo della personalità, del carattere, della realizzazione del proprio posto nel mondo.
Tuttavia - è evidente - non ci si può fermare a questo livello di pura e semplice constatazione; la domanda successiva, lecita e doverosa, è: perché si desidera piacere all’altro ed a se stesso? Né si deve pensare che questa sia una domanda inutile: la finalità dei moti dell’animo non può essere trascurata, né data per scontata ed autoevidente, perché non lo è. L’agire umano, in particolare, è contraddistinto dallo scopo; che può non essere, ovviamente, uno scopo immediato o di natura materiale, ma che è, comunque, sempre presente. Qualora non lo sia, infatti, ci troviamo in presenza di un agire, e quindi di un sentire, del tutto inconsapevoli, come quelli del bambino piccolo o dell’individuo alienato, dissociato, folle.
Nella personalità normale, il desiderio di piacere e di piacersi esprime il bisogno di accettazione e, se possibile, di approvazione da parte degli altri e di se stessi; sono le due facce della stessa medaglia: la costruzione dell’autostima. Solo che nei soggetto immaturi, il bisogno di piacere precede, compensa e giustifica il bisogno di piacersi, ossia essi cercano nell’approvazione altrui la conferma del proprio valore, anche a costo di indossare una maschera profondamente inautentica, sacrificando la modalità dell’essere a quella dell’apparire. Nei soggetti maturi, al contrario, la personalità accetta se stessa, mano a mano che si costruisce; e, nel rapportarsi agli altri, non giunge mai a falsificare i propri atteggiamenti pur di riscuoterne l’approvazione, per cui si mostra per ciò che realmente è, e non per ciò che vorrebbe far credere di essere.
In una certa misura, peraltro, il bisogno di piacere agli altri condiziona il comportamento di quasi tutti gli esseri umani, spingendoli a qualche compromesso nei confronti del proprio vero sé; tuttavia, finché si tratta di compromessi limitati e temporanei, che non incidono sulla struttura profonda del sé, possiamo considerarli relativamente accettabili - accettabili, si badi, non in senso morale, ma con riferimento al sano e naturale equilibrio della personalità stessa.
Per fare un esempio pratico: rientra nella norma il fatto di truccarsi, vestirsi in un certo modo, parlare in una data maniera, per impressionare favorevolmente le persone con le quali si deve mantenere un contatto prolungato, di lavoro o di vicinato; e, a maggior ragione, per impressionare favorevolmente le persone che, a loro volta, suscitano un interesse particolare e delle quali si vorrebbe conquistare l’amicizia o l’affetto.
Tutto questo, sia chiaro, entro certi limiti: perché esula, invece, dalla normalità, e da un sano equilibrio del sé, passare ore ed ore a truccarsi prima di uscire di casa, anche solo per scendere a comperare il giornale nell’edicola all’angolo;  spendere cifre favolose, magari al di sopra delle proprie possibilità economiche, per poter sfoggiare ogni giorno un vestito diverso, di eccellente fattura; affettare sino alla leziosità tutto il proprio atteggiamento, il proprio linguaggio, il proprio modo di porsi rispetto agli altri, giungendo al punto di recitare costantemente la parodia della propria autentica personalità.
Tutto questo andava premesso, per chiarire quale sia una sana intenzionalità nelle azioni dirette al fine di piacere e di piacersi.
Nel comportamento di molti uomini e specialmente di molte donne, nel corso dell’ultima o delle ultime generazioni, e non solo da parte dei più giovani, si nota, però, un fenomeno nuovo e diverso, come dicevamo all’inizio: un bisogno ardente, inestinguibile, compulsivo, di piacere (non necessariamente di piacersi) che rimane fine a se stesso, che si esaurisce in se stesso, che non serve per gettare ponti in direzione dell’autostima, né della socialità, ma solo ed esclusivamente alla costruzione di un ego ipertrofico e narcisistico.
Non solo: se, fino a qualche anno fa, era divenuta abbastanza frequente (il che non significa anche “normale”) la personalità egoica e narcisistica, tutta protesa a strappare l’ammirazione altrui non già in virtù delle proprie doti di intelligenza, buon gusto, sensibilità e simili, ma solo ed esclusivamente per la propria avvenenza fisica; ultimamente si è assistito ad un ulteriore salto di qualità, ma verso il basso, con la smania sempre più vistosa di sedurre, senza però concedersi, e, alla fine, di provocare, con l’unico fine di potersi poi negare.
Pare che, per un numero non indifferente di uomini, e specialmente di donne, ciò costituisca un passabile surrogato della normale soddisfazione del sé, intendendo  tale espressione anche nel senso fisico e sessuale più esplicito, vale a dire come surrogato dell’orgasmo; e, in certi casi - rari, ma meno di quel che si pensi -, come una modalità per raggiungere l’orgasmo.
Il passo successivo - dato che, una volta rotti gli steccati, non esistono limiti alla degradazione che l’anima può infliggere a se stessa - è stato quello di giungere ad adottare la strategia della provocazione permanente, ma non tanto diretta verso gli altri, bensì verso se stessi; in altre parole, uno stato di perenne eccitazione e di permanente provocazione sessuale di segno introvertito, anziché estrovertito.
Il piacere di piacersi tocca qui il punto estremo del solipsismo: non è l’effetto di un equilibrio dinamico che l’anima ha raggiunto con se stessa, mediando fra le continue tensioni della vita e ridefinendo, alla luce delle esperienze più significative, la propria strategia e la propria visione del mondo; ma è la condizione stabile, indotta artificialmente, di una personalità totalmente autoreferenziale e incapace di comunicare nel senso autentico della parola.
Verrebbe quasi fatto di pensare a una tale condizione esistenziale come una sorta di onanismo emozionale; ma nemmeno questa sarebbe un’immagine adeguata, perché l’onanista - dopo tutto - mira al raggiungimento di un piacere positivo, mentre qui tutto il piacere consiste nella capacità di tenere perennemente desta l’eccitazione sul proprio io, che una deformazione di tipo paranoide induce a vedere come superbo, inarrivabile, superlativo. 
Non si tratta di un piacere positivo, ma di un piacere deliberatamente posticipato e, in un certo qual senso, sublimato; ma sublimato per una via che è l’opposto della sublimazione normale, perché non procede dal concreto all’ideale, ma dall’ideale (delirante) al concreto. Gli istinti non oltrepassano se stessi in una forma superiore di attività della coscienza, ma rimangono intrappolati nella dimensione più bassa e, per così dire, congelati nella propria energia primitiva.
Si verifica così un autentico corto circuito delle energie messe in circolo dall’attività coscienziale; e, più precisamente, si produce una sollecitazione erotica sempre più intensa, cui non corrisponde alcun soddisfacimento e neppure la speranza di un soddisfacimento, ma solo una stagnazione del desiderio entro il cerchio stregato della propria soggettività.
Si tratta di qualcosa di molto simile alla pazzia, perché, in questa dinamica, i termini del rapporto fra istintualità e progettualità sono nettamente invertiti: e la volontà, invece di fungere da cinghia di trasmissione fra pulsione e scopo, fra desiderio e obiettivo da raggiungere, si riduce a girare a vuoto come un disco rotto, ripetendo sempre lo stesso motivo, disgiunto da qualunque fine che non sia la gratificazione paranoide e, per così dire, non reale, ma virtuale, dell’istinto medesimo; istinto che, a sua volta, non tende a nulla, se non alla reiterazione di se stesso.
Tale è la condizione, divenuta ormai largamente diffusa, di un numero crescente di individui: la nemesi di un edonismo sempre più forsennato, sempre più irragionevole, che finisce per divorare se stesso e per indurre la coscienza ad autodistruggersi, inseguendo la fata morgana di un piacere che, per definizione, trascende qualunque possibilità di soddisfacimento.
Chi scivola in tale situazione psicologica, e vi si abitua, finendo per incanalare in essa tutte le proprie energie affettive e sessuali, deve essere considerato, alla lettera, come un’anima persa: come un’anima, cioè, per la quale non è possibile alcuna prospettiva di redenzione dall’inferno della propria soggettività, chiusa e farneticante in se medesima.
È importante, quindi, rendersi conto per tempo della china che si sta imboccando; diagnosticare per tempo il proprio male, la deriva della propria anima: perché, una volta che quest’ultima si sia cristallizzata in una condizione così paradossale e senza sbocco, diventa difficilissimo uscirne o anche soltanto, nei casi più gravi, rendersi conto del totale inaridimento e, in prospettiva, della pietrificazione del proprio potenziale affettivo.
Infatti, per l’anima che si sia sprofondata nel cerchio stregato della propria finitezza e vi si compiaccia, fino al punto di preferirla, e di molto, alle normali relazioni con se stessa e con l’altro, viene a mancare l’elemento essenziale di una possibile redenzione, vale a dire l’istinto a realizzarsi nel rapporto con il mondo, aggiustando continuamente e modificando, se necessario, l’orientamento del proprio io.
La vita dell’anima è simile ad un itinerario, o, se si preferisce, ad un pellegrinaggio, nel corso del quale essa prende coscienza della propria forza e della propria debolezza; cade, si rialza, cade ancora e nuovamente si rimette in piedi; sempre protesa al miglioramento di sé, al perfezionamento di sé, al trascendimento delle proprie pulsioni elementari, in vista di una sintesi dinamica fra le istanze della personalità e le concrete situazioni esistenziali.
Allorché l’anima si ferma e si cristallizza, subentra la morte; una morte tanto più vana ed ingloriosa, qualora essa sia l’effetto di una regressione della coscienza verso le pulsioni narcisistiche primarie, che non differenziano l’essere umano adulto e normale da un bambino di sei mesi o da un malato di mente irrecuperabile.
La vita dell’anima, lo ripetiamo, è dinamismo, lotta, sacrificio, impegno per modificare o rimuovere gli ostacoli che si frappongono al conseguimento dei suoi fini, o, qualora ciò non sia possibile - come nel caso della morte di una persona cara -, accettazione dell’impotenza, della mancanza, del dolore: in vista (si capisce) di un loro superamento, spostando la propria condizione verso piani superiori di consapevolezza.
Non esistono alternative né, tanto meno, scorciatoie: l’idea che l’evoluzione dell’anima possa arrestarsi, per godere in oziosamente il raggiungimento di un qualsiasi risultato, è fuorviante e pericolosa in se stessa; le uniche soste che essa può concedersi sono temporanee, e la loro ragion d’essere è sempre e solo quella di ricostituire le proprie forze, in vista di un cammino ulteriore, di un balzo successivo.
Chi non ha compreso questo, non ha capito nulla della terribile serietà della vita; la quale, certamente, è fatta per la gioia e non per il dolore: ma ciò non deve intendersi giammai come un dato acquisito in partenza, bensì come un punto d’arrivo, come un percorso incessante e, per molti versi, problematico e faticoso.
Sì, faticoso: proprio quello che le filosofie edonistiche vorrebbero eliminare, cancellare, distruggere, in nome di non si sa quale “diritto” alla felicità.
La felicità non è affatto un diritto, bensì - casomai - un premio concesso ai forti, ai coraggiosi, ai tenaci; e non ai pigri, ai paurosi e ai voluttuosi. In altre parole, bisogna meritarsela, e non bamboleggiare con un supposto diritto nei suoi confronti.
La vita non riconosce diritti di alcun tipo a chi non abbia l’energia, la purezza e l’onestà di lottare per ciò che desidera.
In compenso, se tutto questo può sembrare difficile, bisogna ricordare sempre che non ci viene chiesto di far tutto da soli, come fossimo altrettanti superuomini. C’è una forza inesauribile, alla quale possiamo attingere se siamo abbastanza umili: la forza viva, possente, luminosa dell’Essere.