Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La strage di capodanno. Dove porta e di chi fa il gioco il salafismo?

La strage di capodanno. Dove porta e di chi fa il gioco il salafismo?

di Moreno Pasquinelli - 05/01/2011



L’orrendo attacco di capodanno contro la chiesa copta di Alessandria è solo l’ultimo atto di uno strisciante conflitto che vede opposti, non solo in Egitto, musulmani e cristiani e che viene avanti da almeno tre decenni, ovvero dal definitivo collasso del nazionalismo arabo. Nazionalismo, arabo e antimperialista, i cui fondatori e principali esponenti non per caso uscirono quasi tutti dalle comunità cristiane del Medio oriente. Questo collasso non avvenne per consunzione, ma sul campo di battaglia, sopraffatto dalla coalizione tra Israele e le potenze imperialistiche, a loro volta appoggiate dalle varie satrapie arabe come quella saudita. Questa sconfitta fece sentire le sue conseguenze in tutto il Medio oriente, ma ebbe nell’Egitto il suo epicentro. Da paese guida del fronte anti-sionista, l’Egitto divenne, con Anwar Sadat, l’avamposto degli Stati Uniti e il primo garante della pax israeliana.

Chiuso il ciclo del nazionalismo arabo, dalla metà degli anni ’70, si aprì quello dell’Islam politico, dell’islamizzazione sociale e delle resistenze antimperialiste e antisioniste, il cui principale beneficiario è stata in Egitto la Fratellanza Musulmana. Un’organizzazione con profonde radici storiche e popolari, che il regime di Nasser aveva sottoposto alla sua dura Lex e che prima Sadat e poi Mubarak, malvolentieri, sono stati costretti a tollerare, in quanto la formale islamizzazione sociale e giuridica poteva assicurare loro quel minimo di consenso per puntellare i loro dispotici regimi di polizia. Il risultato è che in Egitto abbiamo avuto un regime geopoliticamente asservito agli interessi imperialistici il quale, per mascherare questo suo carattere essenziale, ha usato un travestimento islamista. Malgrado la comunità copta annoveri diversi miliardari, in quanto comunità, ovvero la sua grande maggioranza, dopo la scomparsa di Nasser e soprattutto con l’avvento di Mubarak, ha subito indubbie discriminazioni e vessazioni. I simboli, in politica, hanno la loro importanza. Per non inimicarsi e ammansire la maggioranza musulmana, che è una maggioranza di diseredati (come del resto quella copta), il regime ha fatto della minoranza copta una specie di capro espiatorio. Ha cioè cercato di cavalcare l’ondata islamista, che a suo modo incarnava il generale malcontento sociale, deviandola verso il falso bersaglio copto.

Se l’onda islamista ha profonde cause storiche, sociali e geopolitiche, che essa stia prendendo in Egitto la forma di conflitto settario e inter-confessionale, ciò dipende dunque anche dalla scelte politiche del regime e dalla sua crisi cronica.

E’ dunque sintomatico che Mubarak, e con lui tutto il corrotto apparato del partito al potere (Ndp-Partito democratico nazionale), subito dopo l’attentato di capodanno, se la sia presa con “occulte forze straniere”. Il solito disco rotto di al-Qaida e del jihadismo. In pochi in realtà credono a questa spiegazione. Di certo non sono gli americani o gli israeliani ad avere interesse a far saltare per aria l’Egitto, la cui stabilità è a loro preziosa come i propri occhi.

Che il “jihadismo” abbia dimostrato di avere addentellati e nuclei in questo paese, non è un mistero per nessuno. Anzi, fu proprio lo spettacolare attentato in cui Sadat perse la vita il 6 ottobre del 1981, compiuto da un gruppo islamico armato, a segnare il vero e proprio atto di nascita del “jihadismo” come protagonista della scena mediorientale. Insomma: se è del jihadismo che Mubarak parla, egli dovrebbe sapere che è nato in casa sua, che ce l’ha da sempre dentro casa sua. Come Mubarak sa bene che è grazie a lui se il jihadismo egiziano si è potuto fare le ossa nella guerra in Afghanistan contro i russi, visto che i volontari egiziani che partirono per dare man forte ai mujhaeddin afgani furono migliaia. Tre le ragioni per cui Mubarak, negli anni ’80, favorì la formazione di vere e proprie brigate di combattenti islamisti egiziani destinati a combattere i sovietici in Afghanistan. La prima è che doveva obbedire alle direttive di Reagan; la seconda è che prese un sacco di quattrini, sia dagli americani che dai sauditi; la terza, non meno importante, è che così si tolse dai piedi gli elementi interni più turbolenti. Ma questi ultimi, finito il conflitto in Afghanistan, ritornarono, e molti di loro, fatto tesoro dell’esperienza e dei contatti acquisiti, gli portarono il conflitto dentro casa, alcuni per unirsi proprio a Bin Laden (vedi Ayman al-Zahawiri). Si è perso infatti il conto degli attentati stragisti compiuti dai jihadisti in Egitto dal 1990 in poi, e che spesso hanno preso a bersaglio turisti occidentali e israeliani e proprietà e rappresentanze occidentali.

Ma anche qui, non è che al-Qaida o il jihadismo siano un monolite. Essi sono solo due peculiari espressioni dell’islam politico, o meglio, del salafismo puritano (salafiya). La corrente salafita ha oramai un secolo di storia alle spalle, da quando il suo fondatore, il siriano Rashid Rida, si saldò con la spinta integralista radicale del movimento wahhabbita. Il jihadismo vero e proprio invece, ha solo vent’anni di storia. Sorse come costola tarda del salafismo sul piano dottrinario, e politicamente, proprio in contrasto con alcune correnti salafite, per aver indicato gli Stati Uniti d’America, e non invece i “rinnegati regimi arabi” come nemico principale.

Non abbiamo elementi per stabilire a chi l’attacco di capodanno debba essere attribuito, Prendiamo atto che dopo la patetica uscita di Mubarak, la stessa sicurezza egiziana si sta orientando “verso una pista locale”. Qui ci interessa segnalare che occorre saper discernere, non fare di tutt’erba un fascio. E’ vero che i cosiddetti qaidisti iracheni (le cui fila, guarda caso, sono piene zeppe di egiziani), seguendo le direttive di al-Zarkawi, hanno teorizzato e poi praticato che la Jihad, la lotta di liberazione, dovesse avere come obbiettivo gli “apostati” shiiti e gli “infedeli” cristiani, per estirparli dal suolo islamico. Una strategia folle e stragista che ormai, nel macello iracheno, aveva ormai poco a che fare col jihadismo di al-Qaida. Di qui l’esortazione, eravamo nel 2005 se non sbagliamo, che a suo tempo al-Zahawiri, fece ai jihadisti  iracheni, non appena questi ultimi si dedicarono al massacro degli shiiti e dei cristiani, ad evitare di trasformare la guerra di liberazione in una guerra interconfessionale.

Chi ha compiuto la strage davanti alla chiesa d’Alessandria, non ha colpito né i sionisti, né gli americani. Non ha colpito propriamente nemmeno il cristianesimo come simbolo dell’Occidente, essendo i copti egiziani, non solo autoctoni, radicati in Egitto quant’altre confessioni mai, tant’è che i copti considerano i musulmani “ospiti” nella “loro” terra, né la comunità copta è accusabile di avere simpatie per il sionismo o l’ebraismo. E’ stata colpita una minoranza che come la maggioranza musulmana soffre e patisce la tirannia di Mubarak.

La strage, ove non fosse frutto di una trama oscura, ha come finalità quella di scatenare una guerra tra poveri, nella forma di un conflitto inter-confessionale, il tutto nell’ottica nichilista del tanto peggio tanto meglio, del tutto fa brodo per far cadere la tirannia di Mubarak. Solo un salafismo perverso può concepire un simile disegno, gruppuscoli intergralisti fanatici che magari così vogliono farsi spazio nella scena politica, anzitutto ai danni della Fratellanza Musulmanaegiziana, attraversata da una seria crisi politica e di direzione - aggravata dalla decisione, rivelatasi disastrosa, di partecipare alle elezioni farsa del dicembre scorso, mentre buone parte delle opposizioni, tra cui Kifaya le hanno giustamente boicottate. E se non escludiamo la “trama oscura” è proprio perché questo calcolo, quello di terrorizzare i cristiani copti e di costringerli all’esodo può in realtà tornare utile soltanto al traballante regime di Mubarak, che così può ergersi come arbitro e protettore della pace civile, innescando quindi una spirale repressiva di cui saranno vittime, non solo l’ala radicale della Fratellanza Musulmana ma pure le opposizioni nazionaliste e di sinistra, quindi anche i settori più dinamici della comunità cristiano-copta.

A maggior ragione ove le cose stiano così, ove cioè certi gruppuscoli salafiti siano eterodiretti o pilotati da pupari di questo o quel regime, è necessario che la battaglia contro il salafismo non sia lasciata ai servi e ai satrapi del sionismo e dell’imperialismo. L’esempio forse ci viene proprio da Gaza e dal Libano, dove HAMAS da una parte e Hezbollah dall’altra, alle prese con l’attivismo settario salafita, conducono una perseverante azione di contrasto, in qualche occasione forse esorbitante, tuttavia efficace proprio perché all’insegna della lotta senza tregua contro il sionismo, l’imperialismo e i suoi fantocci locali.