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Pioggia e nebbia

di Francesco Lamendola - 09/01/2011



Pioviggina silenziosamente, incessantemente, nella grigia giornata invernale, da settimane, quasi come se il sole non fosse mai esistito.
Pioviggina nella nebbia che avvolge ogni cosa nel suo umido abbraccio, che sfuma le distanze e inghiotte nel nulla la maggior parte del mondo esterno.
Pioggia e nebbia: la pioggia che cade monotona, infinita, con tristezza; la nebbia che si posa come una sfinge enigmatica e introduce un tempo fuori del tempo, una dimensione fuori della nostra dimensione, strana, quasi aliena.
Tutto ciò che sta appena oltre quel gruppo di alberi, a pochi metri dalla finestra, è stato rapito, trasportato chissà dove e forse non esiste più; rimangono solo le cose più vicine, anch’esse immerse in una atmosfera trasognata e profondamente malinconica.
Ci si chiede cosa sia successo e se mai ritorneranno le belle giornate luminose, i cieli azzurri e le lunghe ore serene, piene di dolcezza.
Fino a qualche giorno fa sembrava quasi di presagire un vago sentore di aria nuova, un timidissimo accenno, se non di primavera, almeno di qualcosa che prelude alla fine dell’inverno; ed ecco che sembra di essere ricaduti nel pieno dell’autunno, come se la ruota del tempo si fosse messa a girare all’incontrario.
Un senso di pesantezza scende sull’anima, offuscando i pensieri e indebolendo le forze vitali che vorrebbero emergere, sorridere, aprirsi con fiducia.
Ma è proprio vero?
È proprio vero che questa pioggia viene solo per rattristare, che questa nebbia serve unicamente a confondere e demoralizzare chi aspettava un segnale di incoraggiamento?
Non è forse questo un sentire infantile, un pensare infantile, un modo di porsi radicalmente sbagliato nei confronti della varia bellezza dell’esistente?
Non è forse vero che senza questa pioggia e senza questa nebbia nessuno saprebbe più apprezzare il sole, nessuno si accorgerebbe di quanto sino benefici il suo abbraccio e il suo sorriso?
Perché la pioggia e la nebbia dovrebbero provocare tristezza e perché, se anche così fosse, si dovrebbe considerare ciò come un fatto negativo per la vita dell’anima?
L’anima equilibrata, centrata in se stessa e tuttavia aperta alla trascendenza, non si rattrista per così poco e non si deprime con tanta facilità; al contrario, gode di tutto, sa apprezzare tutto, è capace di ringraziare per tutto.
È solo l‘anima debole, fragile, inaridita, che attende con impazienza un aiuto esterno e pensa che, se lo riceverà, tutto comincerà ad andare meglio: ma intanto non è capace di aiutarsi da sé, non ci pensa nemmeno, ha completamente dimenticato come si fa.
Far dipendere un certo stato d’animo dalle condizioni meteorologiche è comprensibile ed, entro certi limiti, fisiologico e naturale; ma permettere a qualche giornata o a qualche settimana di cattivo tempo di sprofondare l’anima nella tristezza e nello scoraggiamento, questa è tutta un’altra cosa: è il sintomo di un malessere molto più antico e molto più profondo.
L’anima ammalata non sa riconoscere la natura del proprio male, non sa farne una diagnosi e non sa individuare la giusta terapia per uscirne; vivacchia stancamente, si lascia sopravvivere, con fatica sempre maggiore: attende passivamente chissà quale beneficio dal di fuori, senza sapere come, né perché. 
Forse, se anche lo ricevesse, non lo riconoscerebbe e, pertanto, non sarebbe capace di trarne il benché minimo giovamento. Perché una grande verità dell’anima è che, se essa non è pronta per ricevere le cose buone, queste ultime non vengono a lei; e, se pure vengono, l’anima non se ne rende neppure conto e non apre loro la porta, non le lascia entrare.
È come quando una persona, depressa e piegata dalla sofferenza interiore, ogni mattina si affretta a guardare nella cassetta della posta, sperando che qualche cosa arrivi: non sa nemmeno lei che cosa: qualcosa, qualunque cosa che venga a premiare la sua pazienza, la sua lunga attesa, e che la faccia nuovamente sperare, sognare, amare.
Ma è certo che, fino a quando quella persona non uscirà da un tale stato d’animo, non le accadrà mai nulla di nuovo, nulla di buono, nulla che le possa realmente giovare. La vita non concede alcun premio a chi non si batte, a chi non lotta, a chi non si mette in gioco. 
La pazienza è certamente una virtù, ma solo se accompagnata dalla chiarezza dei propositi e dalla volontà di realizzarli; altrimenti, non è che la debolezza dei rinunciatari. In altre parole, essa non è e non potrà mai essere un fine, ma solo e unicamente un mezzo: un mezzo per sopravvivere in attesa di tempi migliori; ma questi tempi migliori non verranno mai, se l’anima non deciderà di prendersi cura di sé stessa in prima persona.
Aver pazienza è una buona cosa, ma solo se si sa che cosa si sta aspettando e se si mettono in opera tutte le strategie che possono almeno consentire di avvicinarvisi. O si ha pazienza in vista di qualcosa, oppure la pazienza non è più una virtù.
La verità è che, quando l’anima si mette ad aspettare qualche cosa di buono, senza sapere cosa, essa non crede in se stessa e non crede che potrà mai trovare la felicità, perché oscuramente intuisce di non meritarsela. 
Non merita la felicità chi la attende con struggimento e chi la cerca in maniera affannosa, ma solo chi, non cercandola, è disposto a sacrificarsi per assolvere degnamente il proprio posto nel mondo, per rispondere alla chiamata dell’Essere.
La felicità è data in premio ai forti che non la inseguono, che non la corteggiano, che non si inginocchiano davanti a lei; a coloro che sanno voltare le spalle alle strade più facili, ma meno pulite e meno onorevoli, per intraprendere audacemente dei sentieri nuovi, talvolta erti e scoscesi, mai battuti prima da alcuno.
E così la speranza.
La speranza non è attesa imbelle e passiva di qualche bene futuro.
La speranza è la virtù di chi non perde mai di vista la propria stella polare, l’orizzonte della propria vocazione, il senso del proprio cammino esistenziale; e che, conscio della propria fragilità, sa che da solo non potrà fare mai niente, ma che le sue forze cresceranno a dismisura se saprà trovare l’umiltà di rivolgersi a quella Forza poderosa e benefica che è pronta ad aiutarci, se noi siamo capaci di chiedere il suo aiuto.
Parlando della vulnerabilità, lo scrittore Deng Ming-Dao afferma (in: «Il Tao per un anno. 365 meditazioni», Parma, Ugo Guanda Editore, 1993, 137):

«Il guerriero considera ognuno come avversario.
Ne scorge tutti i punti vulnerabili,
e si allena per eliminare i propri.
Il saggio non ha punti vulnerabili.»

Non ha punti vulnerabili colui che, conscio della propria debolezza, si rivolge all’Essere da cui provengono ogni pienezza e ogni vigore; e, se ne ha, li fortifica per mezzo di quell’aiuto, trasformando in forza ciò che prima era vulnerabilità.
Perfino la paura suprema, la paura della morte, perde i suoi artigli quando l’anima si rifugia nella fortezza dell’Essere, che le offre ogni conforto ed ogni protezione.
Deng Ming-Dao così prosegue:

«Si dice che il saggio non offre alcuna entrata alla morte. Per questo egli - perfetto nel Tao - è superiore al guerriero - semplicemente abita nel tao. Il secondo accetta la morte, ma non si spinge oltre. Il primo supera i concetti di protezione, competizione, onore e onestà, e non teme la morte. Egli sa infatti che nulla muore, e che la vita è mera illusione: un sogno in perenne trasformazione.»

Quando l’anima si è raccolta in se stessa ed è capace di guardarsi con trasparenza, senza tentare di ingannarsi o di fuggire, allora è entrata in armonia con sé e con il mondo: ha trovato il suo equilibrio e ciò che taluni chiamano “saggezza”. 
Ma si tratta, sia ben chiaro, di un equilibrio dinamico, che deve essere sempre riconquistato attraverso difficoltà e lotte; e di una saggezza che non si considera mai arrivata, che mai si siede in poltrona o, meno ancora, pretende di salire in cattedra, a fare la lezione agli altri, ma che ogni giorno si confronta con se stessa, individua le proprie imperfezioni e lavora per eliminarle o, almeno, per ridurle. 
E sempre confida in Qualcosa che  è più grande di sé, perché sempre conserva la consapevolezza del proprio limite, della propria inadeguatezza, della propria vocazione alla trascendenza.
Ecco perché anche la pioggia e la nebbia sono un dono prezioso, che va accolto con gioia e con riconoscenza e non con disappunto e contrarietà.
Tutto è dono, tutto è grazia, se siamo capaci di metterci nella giusta disposizione d’animo e se sappiamo vedere il filo benefico e necessario che lega tutte le cose.
Le uniche cose non buone in se stesse sono quelle che provengono dall’anima che si separa dall’Essere: l’insofferenza, l’invidia, la gelosia, l’egoismo e la cattiveria; ma tutto quello che viene da fuori è buono, perché svolge una funzione utile alla conservazione del mondo.
Noi, che siamo parte del mondo, dovremmo saper vedere questo legame, questa necessità, questa utilità, ovviamente ricordandoci di non essere i soli abitanti dell’universo e che ciò che appare dannoso in una prospettiva parziale, è invece benefico guardando le cose dall’alto, ossia cogliendo la stretta interdipendenza fra tutto ciò che esiste.
Si tratta, allora, di imparare a vedere meglio; di non fermarsi alla superficie, di non assolutizzare singole esperienze e singole situazioni, ma di riuscire ad intuirne il disegno complessivo, del quale siamo parte e che è, in se stesso, armonioso e benevolo.
Al tempo stesso, noi siamo abitanti di un altro mondo, diverso da questo, e al quale aspiriamo a ritornare, poiché sentiamo, oscuramente, di provenire da esso, e che quella è la nostra vera patria, non questa.
La pazienza per sopportare le situazioni di difficoltà, dunque; la speranza per rasserenare l’anima con il pensiero della nostra meta finale, del nostro ultimo destino. La prima ci permette di accettare, di accogliere, di ringraziare; la seconda ci consente di elevarci, di rigenerare le nostre forze, di non perdere mai di vista il faro che brilla nella notte.
A volte, è vero, ci si può sentire terribilmente soli.
Vi sono dei momenti nei quali ci sembra di essere abbandonati in balia delle onde di un mare buio e tempestoso, ignorati da tutti, dimenticati da tutti.
Ma non è così.
Vi è Qualcuno che non ci dimentica mai, che non ci abbandona mai; che ci rimane sempre accanto, se noi siamo capaci di percepirne la presenza amica. Anche nella notte più oscura, la Sua luce continua a brillare vittoriosa, dileguando i fantasmi delle tenebre.
Nessuna pioggia può spegnere quella luce, nessuna nebbia sarà mai in grado di nasconderla, se noi non vi consentiamo.
Dipende da noi.
Non è un sopravvalutare la nostra forza, questo, ma soltanto essere consapevoli della forza infinita di quella presenza benevola: forza alla quale possiamo attingere in ogni momento, purché siamo capaci di deporre il nostro orgoglio, che ci fa credere separati dal tutto.
Noi siamo radicati nell’Essere, siamo parte dell’Essere, siamo una scintilla del Suo splendore e della Sua magnificenza.
Da soli non potremmo fare niente; ma, uniti all’Essere, possiamo fare tutto.
Possiamo far brillare il sole dell’anima anche nell’ora più buia e far fiorire il suo giardino primaverile, anche nel gelo del più crudo inverno.
Non noi, ma la forza che è accanto a noi; che è in noi, anche se non lo sappiamo.