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Secondo Obama l’economia migliora, ma in realtà le feste sono finite

di Piero Pagliani - 09/01/2011


obomba

Nel gennaio dello scorso anno Giulietto Chiesa, fedele alla nostra tradizione, con un articolo sulla reale situazione economica statunitense ha portato via tutte le feste della sinistra obamiana italiana, schieramento che copre un ampio ventaglio che va dal mai dimenticato direttore di Liberazione, Piero Sansonetti, per il quale la vittoria di Obama alla Casa Bianca era addirittura paragonabile a quella di Vladimir Luxuria all’Isola dei Famosi (forse era il contrario, ma rovesciando l’ordine l’essenza del paragone non cambia), all’allora neo-segretario di Rifondazione Comunista, Franco Giordano, che commosso ci veniva a dire che Obama era un po’ anche il suo presidente, per finire alla cosiddetta sinistra moderata che era entrata letteralmente in estasi: finalmente poteva, oltre ad esserlo, dichiararsi filoamericana senza se e senza ma.

Essendo passata da poco la Befana 2011, voglio seguire anch’io la tradizione, come ha fatto Giulietto Chiesa un anno fa.

Ricorderò allora che era dai tempi della fine della caduta della “cortina di ferro” che la sinistra ormai ex-comunista si proponeva agli Stati Uniti come alternativa ai decadenti PSI e DC, oltretutto incrostati a quella economia pubblica che il Washington Consensus imponeva a tutti i Paesi del mondo si smantellare e svendere, attraverso varie gradazioni di minacce economiche o diplomatiche e con varie gradazioni di effetti: tragici quelli nel Terzo Mondo e nella Russia di Yeltsin; odiosi, forieri di impoverimento e preannuncianti il disarmo politico e sindacale di tutti i lavoratori, nel mondo capitalistico avanzato.

Era la “globalizzazione” (solo un altro termine per “dominio americano”, come ammise subito il dottor Kissinger).

L’ex-sinistra italiana e i suoi nuovi alleati furono gli interpreti più fedeli di questa politica economica, fin nei suoi risvolti militari che ci spinsero alla guerra contro la Jugoslavia (la prima guerra italiana dopo la seconda carneficina mondiale e per giunta ancora una volta in Europa: fu in quel momento che la nostra bella Costituzione si rivelò in tutta la sua drammaticità essere carta straccia).

Da parte sua, la destra berlusconiana e leghista - eletta da settori che avevano vari motivi per non allinearsi alla politica della cosiddetta “globalizzazione” - si barcamenava in modo confusionario e populista, facendo progressivamente irritare i nostri alleati d’oltreoceano che lo dichiaravano senza mezzi termini per bocca dell’Economist, del Financial Times (non propriamente pubblicazioni “prive di interessi”) e da noi per bocca specialmente di La Repubblica e MicroMega. Per via soprattutto di una politica estera ed energetica poco ortodossa (cioè non totalmente appiattita sulle scelte strategiche statunitensi). Un’irritazione il più delle volte mascherata dietro la denuncia di quella corruzione in denaro e sesso che appartiene alla storia del potere (un solo esempio: Ted Kennedy aveva lasciato annegare a Chappaquiddick la giovanissima Mary Jo Kopechne per coprire la sua tresca con lei, ma quando egli morì la nostra sinistra lo santificò).

Ma, dai e dai, nella destra finalmente pare che abbiano capito che è più igienico sforzarsi di cercare un’intesa con gli interessi USA e con l’alta finanza che finora si sono sentiti più rappresentati politicamente dall’ex-sinistra. Possiamo in parte leggere in quest’ottica la politica dei tagli del ministro Tremonti, probabile abile mediatore tra la finanza vaticana e quella anglosassone e quindi probabile uomo per tutte le stagioni e magari per i suoi nuovi schieramenti (tuttavia se questa mediazione non va in porto - attenzione alle dichiarazioni di Sua Santità e dei suoi collaboratori, specialmente quando sembra che parlino d’altro - sarà difficile vedere sottobraccio Fini e Casini).

Tornando all’articolo di Giulietto Chiesa, che annunciava una dissimulata politica economica statunitense d’austerità, il suo contenuto sembrerebbe in contrasto con le recentissime dichiarazione di O-Bomba (come il Presidente viene chiamato, et pour cause, dalla sinistra statunitense) rispetto all’andamento dell’economia del suo Paese. Mi viene in mente allora una storia americana.

Il presidente democratico Johnson, successore di Kennedy, si era specializzato in “contabilità creativa”: nella contabilità nazionale creativa con la quale cercava di nascondere la verità con espedienti come il calcolare nel Consolidate General Budget anche i fondi dei lavoratori versati al Federal Security Trust Fund; e nella “contabilità internazionale creativa” grazie alla quale l’oro versato dagli USA all’FMI veniva contabilizzato anche nelle riserve auree di Fort Knox.

Il vizio del falso in bilancio nazionale e internazionale non è passato con Obama se, come sostengono alcuni analisti, il PIL statunitense è per lo meno del 30% inferiore a quanto dichiarato mentre il tasso di disoccupazione sarebbe almeno il 20% e non poco più del 9% (si veda il rapporto GEAB N. 47).

In effetti l’atteggiamento di Obama è molto più simile a quello di Johnson che a quello di Kennedy, se possibile con qualche tratto negativo in più.

Johnson aveva promesso una politica di riforme, chiamata “Great Society”, che per gli statunitensi ebbe anche degli effetti positivi: si pensi al Civil Act emanato nel 1964 e ad alcuni miglioramenti nel sistema scolastico e in quello sanitario. Anche l’economia godette di una buona congiuntura. Ma quella ricchezza era frutto della devastante politica internazionale statunitense focalizzata in quei tempi sulla guerra del Vietnam.

Obama passerà alla storia come il presidente della riforma sanitaria che favorisce ulteriormente le assicurazioni, a spese dei soldi pubblici stavolta, quello che ha rimpinguato con 13 trilioni di dollari i finanzieri di Wall Street indebitando per i prossimi cento anni i propri concittadini, che ha depresso ulteriormente l’economia reale e infine - ma non è la prima volta - come Nobel per la Pace artefice di escalation militari (per ora Pakistan e Yemen che si aggiungono ad Afghanistan e Iraq) con relativo impressionante aumento delle spese militari (il cui bilancio è molto poco chiaro, tanto per rimanere fedeli al metodo; vedi: peacereporter.net).

Le elezioni di medio termine hanno solamente registrato che il “sogno Obama” si è infranto in meno di due anni.

Per la sinistra americana si era incrinato ancor prima delle elezioni presidenziali ed è totalmente andato in frantumi dopo pochissimi mesi di amministrazione. Ma per la sinistra italiana Obama rimane ancora un faro, anzi l’unico faro mondiale.

La tragedia della Storia si ripresenta in farsa, ma in condizioni drammatiche. E da noi col solito spirito da commedia dell’arte.

Se negli anni Sessanta la sinistra italiana vedeva la luna (la guerra del Vietnam) e non il dito (la Great Society che per altro nemmeno era un affare nostro e infatti all’epoca alla sinistra non importava) oggi essa vede - accecata dai suoi media e rimbambita dai suoi intellettuali da strapazzo, o meglioirresponsabili come affermava Pasolini - il dito (le dichiarazioni e le “riforme” farlocche di Obama, che comunque non hanno nulla a che vedere col nostro benessere) e non la Luna, cioè le escalation militari e la rapina mondiale che questa superpotenza continua almeno dal 1971 (dichiarazione della inconvertibilità del dollaro in oro, ovvero l’ammissione finalmente esplicita che il sistema mondiale non si basava su nessuna “legge economica”, bensì sulla potenza assoluta e discrezionale degli Stati Uniti); rapina che serve a rallentare la propria decadenza (non ineluttabile, per altro, dato lo strapotere militare che hanno - ma allora bisogna ammettere finalmente cosa implicherebbe un nuovo “secolo americano”).

Ancora una volta la sedicente sinistra italiana, purtroppo in tutte le sue espressioni e componenti, ha reso omaggio all’annotazione di Ennio Flaiano che in Italia succedono cose anche gravi ma mai serie. Lo ha fatto nella sua variante “globalizzata”: mentre nel mondo accadono cose gravissime la nostra fu-sinistra continua a non essere seria. Anzi, le piace pigliarci in giro. E poi ci si interroga ancora sul “mistero” della longevità al potere di Berlusconi.