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Stili di vita sostenibili e nuova politica. Ecco l'agenda

di Paolo Bartolini - 09/01/2011


conzumizmIl ruolo della politica e della comunicazione di massa

 


Un discorso coerente sull’attuale crisi di sistema, che affermi per giunta la necessità di un superamento dell’assetto capitalistico e dei suoi dispositivi ideologici, non può nascondere all’opinione pubblica i radicali mutamenti che si annunciano per miliardi di persone e che andranno a modificare in profondità i nostri stili di vita. La portata della transizione epocale che stiamo attraversando – e che dovrebbe condurre, con esiti imprevedibili sul versante della democrazia e dei diritti, ad una società post-industriale non più centrata sullo sfruttamento delle energie fossili – si misurerà quindi sull’entità di questi cambiamenti.

Ma nessuno si illuda: per noi del “miliardo d’oro”, che abbiamo creato nell’ultimo mezzo secolo una ricchezza materiale senza precedenti, tale passaggio risulterà difficile e doloroso, se non altro per la nostra scarsa abitudine a vivere il benessere fuori dai parametri quantitativi del possesso e del consumo.

Tuttavia esistono in Occidente delle avanguardie sociali che, in nome della “sobrietà”, della “decrescita” e del “consumo critico”, stanno ridisegnando una comunità umana diversa, fondata sullo scambio di beni relazionali e su una maggiore qualità della vita.

Se ci soffermiamo su queste “buone pratiche alternative” (si pensi al lavoro importante dei Gruppi di Acquisto Solidale GAS, dei Comuni Virtuosi, delle Botteghe del commercio equo, delle Reti di Economia Solidale RES, ecc.), ci sembra di intravedere fin d’ora un modello di convivenza opposto a quello dell’accumulazione infinita, quasi una prefigurazione di un futuro finalmente sostenibile. Ad una prima sensazione positiva, però, si affianca la necessità di una riflessione strategica.

Siamo infatti in presenza di azioni che si limitano (se così si può dire) all’adozione responsabile di stili di vita virtuosi, prevalentemente a livello locale. Certo, rispetto al vuoto delle promesse della casta, alla miseria dei suoi giochi di potere, alla dilazione continua dei finanziamenti e degli interventi in difesa dell’ambiente e dei cittadini, le prassi di queste avanguardie incarnano una nobile forma di partecipazione alla vita collettiva.

La sfiducia nella politica istituzionale e l’orgoglio per gli effetti tangibili del proprio operato, spingono dunque questi soggetti a rappresentare le istanze della società civile saltando a piè pari l’intermediazione dei partiti “corrotti” e “inaffidabili” (secondo una logica affine a quella che, mediante l’acquisto diretto di beni presso il circuito delle imprese locali, mira a tagliare l’intermediazione della grande distribuzione risparmiando soldi e riducendo le emissioni inquinanti).

“Allora, dov’è il problema?” potrebbe chiedere spazientito il nostro lettore.

Il problema è che, in assenza di forze politiche organizzate capaci di conquistare democraticamente il potere e riformare radicalmente il sistema dell’informazione-comunicazione, è impossibile orientare larghi strati di popolazione, ormai imprigionati nel circolo vizioso del consumo e della crescita, verso nuovi stili di vita sostenibili.

Ciò è evidente ogni qual volta parliamo di decrescita e di riduzione del PIL a persone estranee a quelle avanguardie: dinnanzi a questi proclami la stragrande maggioranza di esse reagisce con sufficienza, fastidio o avversione.

Proviamo allora ad abbozzare alcune considerazioni per spiegare questa rigidità manifesta, che va di pari passo con una totale incapacità di mettere in discussione il proprio modus vivendi.

A tal fine utilizziamo il cosiddetto “paradosso della felicità” individuato da alcuni economisti durante gli anni ’70 (per ulteriori approfondimenti si veda L. Bruni, P.L. Porta, a cura di, Felicità e libertà. Economia e benessere in prospettiva relazionale, 2006, Guerini e Associati).

Ebbene, il paradosso della felicità ci dice che il rapporto tra reddito e benessere non è né diretto né scontato. In altre parole: ad un accrescimento delle entrate economiche non corrisponde necessariamente un aumento della felicità percepita dalla persona. Anzi, il rapporto è spesso inversamente proporzionale, come se la felicità degli esseri umani dipendesse molto poco dalle variazioni di ricchezza e dal potere d’acquisto.

Questo avviene perché insieme all’aumento dei consumi entrano in gioco altri fattori psicologici. Ad esempio, chi compra un’auto nuova, più potente e accessoriata della precedente, innalza per poco tempo il suo livello di piacere e, una volta terminato l’effetto novità, vedrà calare progressivamente il proprio benessere tornando allo stesso comfort raggiunto con la vecchia macchina (processo di adattamento o treadmill edonico).

Oltre a questa vera e propria assuefazione al nuovo, esiste anche un effetto negativo legato alleaspirazioni. Esso fa sì che il confine fra risultati soddisfacenti e insoddisfacenti sia sempre spostato in avanti, generando frustrazioni e aspettative irrealistiche (ad es.: acquistiamo il computer di ultima generazione ma già sogniamo il computer ideale, quello che uscirà solo nei prossimi anni).

Le aspirazioni vengono poi alimentate, secondo la teoria della “felicità posizionale”, dal continuo confronto con i propri simili e in particolare con quelli che riteniamo essere dei modelli di riferimento per noi. Invidia e rancori sono all’ordine del giorno se l’obiettivo diventa quello di avere più degli altri.

Tali meccanismi, che hanno uno sfondo biologico ma sono caratteristici della società dei consumi, vengono quotidianamente sollecitati dall’influsso dei media e dall’estensione incontrollata dei rapporti di produzione capitalistici.

Accade dunque che il bombardamento dei messaggi pubblicitari e il peggioramento evidente delle relazioni umane – nonché dei rapporti con l’ambiente fisico circostante – stimolino il consumo compulsivo e la competizione con gli altri per compensare crescenti carenze affettive ed esistenziali, trasformando i bisogni in desideri astratti e riducendo drammaticamente le espressioni di solidarietà e cooperazione tra le persone.

Ecco allora che, in una società come quella odierna, le motivazioni intrinseche degli esseri umani (il piacere di fare le cose bene, la gioia di stare in relazione con gli altri, la voglia di mostrare il proprio valore interno) vengono quasi completamente sostituite da motivazioni estrinseche (rapporti strumentali con gli altri, ricerca esclusiva del proprio utile individuale, impegno nelle attività quotidiane con l’unico fine di un compenso monetario).

Questo, piaccia o meno, è lo scenario psico-sociale che abbiamo dinnanzi, e saperlo è indispensabile per predisporre azioni politiche e culturali capaci di catalizzare il disagio diffuso e inconsapevole dei nostri tempi. Difatti non è possibile, date le condizioni appena esposte, convincere una moltitudine di persone a cambiare comportamenti ormai radicati partendo da pochi esempi virtuosi o avvalendoci di discorsi impeccabili sul “ben vivere” e sull’opportunità di porre una misura ai nostri desideri.

Tutto ciò è essenziale, ma resta elitario e distante dai problemi quotidiani di chi vive immerso, senza alcuna difesa, nel rumore di fondo della società dello spettacolo.

E’ dunque necessario che l’azione frammentata delle avanguardie sociali si doti di strumenti comunicativi e decisionali capaci di trasformarla in un vero e proprio progetto di cambiamento. Ciò significa accettare la sfida della politica istituzionale e dare battaglia direttamente sul campo dell’informazione-comunicazione (si vedano i contributi sul tema di Giulietto Chiesa). Senza questo salto di qualità è impensabile una fuoriuscita pacifica dal paradigma dello sviluppo e del consumo.

Si ricordi, infatti, che l’ideologia del capitalismo assoluto è penetrata nella vita di miliardi di persone perché la politica, l’economia di mercato e lo spettacolo hanno lavorato coerentemente per creare un mondo a loro immagine e somiglianza.

Suggerire stili di vita più sobri e rivendicare l’importanza di un’economia civile rispettosa dell’uomo (come fanno ad esempio Stefano Zamagni, Leonardo Becchetti, Amartya Sen e altri economisti contemporanei) non può assolutamente bastare.

Servono piuttosto delle politiche concrete che solo un soggetto organizzato può promuovere, a livello nazionale e locale. Di seguito ne elenchiamo diverse, a breve, medio e lungo termine:

- Tassare, secondo principi di giustizia sociale da troppo tempo dimenticati, i patrimoni e le rendite finanziarie di chi si è arricchito sulla pelle dell’intera popolazione in questi decenni di feroce neoliberismo.

- Difendere il Territorio dallo sviluppo ipertrofico delle grandi opere e di tutti gli ecomostri che ne abbruttiscono il paesaggio (promuovere politiche di biourbanistica che azzerino il consumo del suolo).

- Creare nelle città spazi verdi e luoghi d’incontro, riducendo drasticamente il traffico dei veicoli privati e offrendo una mobilità sostenibile gratuita resa possibile dall’impiego di mezzi pubblici e sistemi efficienti di car sharing.

- Realizzare politiche che incentivino l’economia di prossimità e penalizzino duramente gli sprechi e le pratiche socialmente irresponsabili.

- Impostare leggi per il risparmio energetico e per la diffusione di piccole unità di energia rinnovabile autogestite.

- Combattere seriamente l’evasione fiscale con particolare attenzione ai grandi evasori.

- Diminuire le spese per la politica, per il comparto militare e per il sostegno economico a imprese private che producono merci inutili o dannose, impiegando i soldi recuperati in politiche di welfare che garantiscano a tutti servizi pubblici gratuiti (su questa forma di reddito indiretto scollegato dai salari si vedano le proposte di Badiale e Bontempelli in “Bisogna finire. Bisogna cominciare”, ma anche in “Due vie per la decrescita”).

- Riacquisire i principali asset strategici per l’economia pubblica (Istruzione, Sanità, Previdenza sociale, Beni comuni, ecc..) impedendo al profitto e al mercato di espandere su di essi la loro sfera di influenza.

- Modificare profondamente il ruolo dei sistemi informativi e comunicativi, sottraendoli al monopolio privato e utilizzandoli per rilanciare un grande programma educativo che prepari i cittadini alla transizione e al cambiamento dei loro stili di vita e di consumo.

Queste iniziative, che possono essere portate avanti solo da una forza politica organizzata, sono le uniche capaci di infrangere gradualmente il circolo infelicitante del consumo, fornendo da subito ai cittadini una prospettiva comprensibile di benessere, che sia conciliabile con la diminuzione del Prodotto Interno Lordo e che corrisponda ad esigenze di giustizia ed uguaglianza oggi inascoltate.