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Il trionfo di Costantinopoli. Le storie sublimi di una città al centro del mondo

di Pietro Citati - 10/01/2011




Per mille e cento anni fu considerata il cuore della civiltà. Luogo di grandi opere, di commerci e spiritualità. Vasto e teatrale. Il racconto in un volume di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini
Fondeva in sé tutte le luci possibili: quella di Apollo, quella di Cristo e quella di Maria
La chiesa di Santa Sofia era ritenuta dai turchi "il modello del Paradiso"
Gli architetti cercavano qualcosa di stravagante, di bizzarro e di illusionistico

Per mille e cento anni, Costantinopoli fu il cuore del mondo. Per mare e per terra, svedesi, danesi, tedeschi, inglesi, russi discendevano verso il Bosforo; e persiani, arabi, amalfitani, veneziani, genovesi, normanni risalivano verso il Bosforo. All´alba, quando i viaggiatori si alzavano per contemplare Costantinopoli, la città era nascosta, o mascherata, o lasciava confusamente trasparire le infinite abitazioni. Attorno alle navi si stringeva una luminosa nebbia bianca, qualcosa di folto, umido e lattiginoso: il primo segno di Costantinopoli.
Verso mezzogiorno, quando cominciò a soffiare una brezza, la spessa nebbia lattiginosa si diradò. Poi scomparve. All´improvviso, tutto fu chiarore, splendore, irradiazione, trionfo. La folla degli oggetti luminosi abbagliarono gli occhi che non riuscivano a contemplarli tutti insieme; e la visione era raddoppiata e moltiplicata nelle acque del mare. Tra queste innumerevoli visioni di Costantinopoli, una si distinse tra tutte: quella dell´estate 1203 quando le navi veneziane arrivarono a Santo Stefano: «Nessuno poteva immaginare esserci nel mondo –scrisse Geoffroy de Villehardouin - una città tanto ricca, quando vedemmo quelle alte mura e quelle torri possenti, dalle quali è racchiusa tutt´intorno in un cerchio, quei ricchi palazzi in così gran numero e quelle alte chiese, e nessuno avrebbe potuto crederlo se non l´avesse visto con i suoi occhi». Tutti provarono stupore. «L´illustre e venerabile città brillava stranamente di un´infinità di meraviglie», insisté Geoffroy de Villehardouin. Sulla riva della città si levavano centinaia di statue: statue che i primi imperatori avevano saccheggiato dai tesori dell´Occidente e dell´Oriente, che col passare degli anni diventarono segrete, fantastiche, incomprensibili, o soggette a qualsiasi interpretazione.
La più bella era, probabilmente, una statua di bronzo alta trenta piedi che sorgeva nel Foro di Costantino. Molti l´attribuirono a Fidia. La veste a pieghe giungeva ai piedi per proteggere dagli sguardi umani le membra divine. Com´era bella quella figura misteriosa! Il capo era quietamente inclinato, il collo nudo e lungo, il corpo si chinava mollemente, le vene corrugavano la fronte, i capelli intrecciati e legati dietro il capo sfuggivano all´elmo, ciocche scendevano sul viso, gli occhi gettavano dardi, la mano sinistra sollevava le pieghe della veste. Il bronzo imitava ogni particolare del corpo, si piegava, si modulava, diventava viso, collo, capelli, abiti; e sembrava trasformarsi in voce e parola. Tutta la figura senza vita fioriva di vita, «facendo fluire negli occhi tutta la forza dell´ardore». Nessuno - scriveva Niceta Coniate - aveva mai visto una «donna di così invincibile dolcezza». 
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Nel Foro, sopra una grande colonna di porfido, sorgeva una colossale statua bronzea di Costantino: aveva la forma di Apollo-Helios, come una volta a Roma, molti secoli prima, era stato rappresentato Nerone davanti alla Domus Aurea. Portava uno scettro nella destra, un globo nella sinistra e una corona di raggi lucente sul capo. Tre secoli più tardi, la figura dell´imperatore Giustiniano appariva a cavallo, molto più piccola. Nella parte superiore, c´era Cristo avvolto da un disco col sole, la luna, una stella sorretta da due angeli: benediva con una mano e con l´altra reggeva una croce. Giustiniano montava un destriero focosissimo, che si impennava uscendo dalla cornice: una vittoria reggeva la palma del trionfo, mentre la terra, seminuda, teneva la staffa del cavallo in un gesto di sottomissione. 
La città di Costantinopoli veniva raffigurata nelle tre forme della luna pagana: Artemide, Selene, Ecate: l´acqua lunare la circondava, come nell´ultimo libro delle Metamorfosi di Apuleio. La luna pagana era Maria cristiana, che irradiava il mondo di candore luminoso. Uno degli imperatori bizantini adorò Maria con una mania profondissima: la rimirava di continuo, la divorava con gli sguardi, le erigeva intorno gli arredi di una reggia, dispiegava drappi di porpora. Così Costantinopoli fondeva in sé tutte le luci possibili: quella di Apollo e quella del Sole, quella di Cristo, di Artemide, di Maria: lo splendore più ardente si mescolava con lo splendore più delicato; il chiarore più freddo con quello più prossimo. 
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Santa Sofia, "la chiesa senza pari", "il modello del Paradiso", come dicevano i turchi, era stata inaugurata nel 360: distrutta in una rivolta del 404, ricostruita nel 415, di nuovo distrutta nel 532; e di nuovo definitivamente inaugurata il 27 dicembre 537. Sopra una grandissima lastra bianca, la mano della natura aveva inciso segni, venature, rilievi, screziature, che disegnavano a loro volta le figure umane di Gesù Cristo, Maria e Giovanni Battista. La pietra sembrava illusione: il sasso immagine umana; e tutto era variegato, suscitando in chi vedeva stupore e sgomento. Gli architetti avevano rivestito il pavimento di lastre di marmo colorato, o di sottilissime luci policrome. Se dal pavimento si guardava Santa Sofia, la volta sembrava un infinito cielo stellato, e se dalla cupola si guardava il pavimento, ecco, le pietre tumultuavano, ondeggiavano, oscillavano, sembravano un ardimentoso mare in tempesta.
Quando qualcuno penetrava sotto la cupola di Santa Sofia, la sua mente si innalzava verso Dio, nella convinzione che Egli fosse lì accanto, lì prossimo, e che amasse risiedere nel luogo che aveva prescelto. Santa Sofia, scriveva mirabilmente Procopio, era uno spettacolo bellissimo, quasi eccessivo per chi lo vedeva, e assolutamente incredibile per chi ne sentiva parlare. Era luce e riflesso. Sembrava «che la luce non venisse da fuori, ma che un bagliore accecante nascesse nel suo interno». Tutto il soffitto era rivestito d´oro puro, per aggiungere maestà alla bellezza, eppure lo splendore dell´oro era sopraffatto dal barbaglio della pietra preziosa. Fasci di luce penetravano da finestre diverse, convergendo verso un punto diafano, oppure incrociandosi ad altezze varie, le lame di luce scivolavano lungo le pareti e si allungavano sul pavimento. Questa mobile irradiazione accresceva, agli occhi di tutti, l´effetto irreale e inverosimile della visione.
In alto, in alto, Santa Sofia culminava in un quarto di sfera, al di sopra della quale si elevava un´altra semisfera, «di bellezza meravigliosa ma anche spaventosa», perché, diceva Procopio, tutto sembrava instabile, inquieto e incerto e in procinto di crollare al suolo. «Chi potrebbe descrivere lo splendore delle colonne e delle pietre che le abbelliscono? Sembrava di essere capitato in un superbo prato fiorito. Allo sguardo ammirato si offriva la tonalità purpurea, verde, rosso acceso, bianco brillante delle pietre, per non parlare dei marmi che la natura, come una pittrice, aveva screziato di tinte d´ogni sorta». Ciò che sorprendeva nelle vette di Santa Sofia, era l´estrema cangiabilità del sacro, la mobilità incessante dell´eterno, simile alle irradiazioni degli angeli evocate nei libri dello Pseudo-Dionigi l´Areopagita. Settantadue tonalità diverse brillavano, secondo la natura della pietra, delle perle e dei materiali più diversi.
Maometto II aveva conquistato Costantinopoli penetrando in Santa Sofia nel dicembre 1453. La sua era una tremenda passione erotica. Non sapeva allontanare dal suo cuore il pensiero dell´amatissima città. Conversava con l´immagine della sua sposa, contemplava la sua bellezza, parlava di quando l´avrebbe conquistata, congiungendosi nel suo grembo. Adorava la «lunga e profonda fessura odorosa del Corno d´oro»: un´immensa vagina di acqua, di terra e di alberi. Provava la stessa passione per Santa Sofia. Quando volle godere lo spettacolo delle opere d´arte, salì sulla superficie concava della cupola, come Gesù -"il soffio di Dio"- ascese al quarto cielo. Dopo aver ammirato il mare ondoso del pavimento, raggiunse la cima. Così sia Costantinopoli sia Santa Sofia, diventarono la più intima delle sue passioni. 
In apparenza, Costantinopoli era vastità, grandezza, teatralità, sublimità, tragedia, ineffabilità – tutto portato all´estremo, fino a inebriare ed estasiare gli abitanti della capitale. In realtà gli architetti, gli artefici, i truccatori cercavano qualcosa di profondamente diverso, come accadeva a Bagdad e a Ctesifonte: qualcosa di stravagante e di illusionistico, di bizzarro e di eccentrico.
Secondo il famoso racconto di Liutprando, un albero di bronzo dorato era disposto davanti al trono imperiale: i rami erano gremiti di uccelli di ogni specie e colore, anch´essi in bronzo dorato; e ciascuno degli uccelli emetteva il canto inconfondibile della sua specie. In quel momento gli ambasciatori si prosternarono tre volte a terra, secondo un costume che risaliva ad Alessandro Magno. Il trono imperiale appariva dapprima disteso, poi si innalzò e in un attimo torreggiò altissimo nella grande stanza, custodita da leoni di immensa grandezza che sferzavano il pavimento con la coda e ruggivano con la bocca aperta. 
L´imperatore di Costantinopoli era in primo luogo il signore delle forme e delle apparenze e delle liturgie. Quando nasceva, si sposava o aveva figli, la città era in festa per sette giorni e su tutte le piazze si mangiava e beveva a spese del sovrano. Le strade erano purificate: durante le processioni si spargevano fiori sul selciato, sulle finestre e sui balconi: si esponevano le suppellettili più preziose e si ostentava vasellame d´oro e d´argento. Un tappeto di bellissima lana rappresentava una coda di pavone: le stoffe di seta, tinte con porpora di Tiro, erano ricamate con l´ago; si esaltava lo scarlatto fiammante, il cupo viola, il delicato splendore del verde. I fabbricanti degli oggetti di lusso – orefici, importatori di seta, mercanti di lino, profumieri, autori di bronzi niellati - affermavano al mondo intero il prestigio di Bisanzio. Come scriveva lo storico turco, «si mescolavano le bellezze greche, franche, russe, ungheresi, cinesi»: le belle dai morbidi capelli, le fanciulle simili alle stelle della Lira, fresche come il gelsomino, alte e sottili come il cipresso, con la fronte simile alla luna e le ciglia al Sagittario. 
In momenti straordinariamente solenni, l´imperatore lasciava da solo il palazzo e passava il Bosforo in una galera imperiale. Quando raggiungeva la giusta distanza dal ponte, conosceva la visione spettacolare e grandiosa della città. Allora, si alzava sulla sedia: restava in piedi guardando verso est con le mani alzate al cielo, faceva tre volte il segno della croce sulla città e poi rivolgeva una preghiera a Dio: «Signore Gesù Cristo mio Dio, nelle tue mani affido questa tua città: preservala, Ti prego, dall´assalto di ogni avversità e tribolazione, dalla guerra e dalle invasioni straniere. Conservala inviolata dalla cattura e dal saccheggio, perché è in Te che abbiamo riposto la nostra speranza e Tu sei signore di misericordia e padre di pietà e Dio di ogni consolazione e a Te spetta avere grazia e preservarci e salvarci dalle difficoltà e dai pericoli ora e per sempre e nell´eterno dell´eterno». Mai, come in quel momento, l´imperatore aveva rivolto al cielo una preghiera così commovente: così tenera, delicata e quasi indifesa. 
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Il Romanzo di Costantinopoli di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini (Einaudi, pagg. XXXI- 956, euro 28) è un libro bellissimo. Contiene testi bizantini, francesi, inglesi, americani, turchi, arabi, italiani, tedeschi: scelti con grazia e intarsiati con rara raffinatezza.