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Dualismo e universalismo nella dialettica del Cristianesimo primitivo

di Francesco Lamendola - 11/01/2011


Una cultura laicista a senso unico, rozzamente secolarista e pregiudizialmente antireligiosa e anticristiana, ha tramandato l’idea di un Cristianesimo oscurantista e intollerante, responsabile di una indebita fusione tra la sfera religiosa e quella politica; fino a quando il pensiero laico, appunto, iniziato con Marsilio da Padova, proseguito con Machiavelli e Hobbes e culminato, infine, con l’Illuminismo, non avrebbe reciso l’innaturale commistione e restituito, finalmente, dignità e autonomia alla sfera politica.
Il sottinteso di questa interpretazione è che, se non fosse sorto e non si fosse affermato il pensiero politico laico, l’Europa e l’Occidente sarebbero ancor oggi in condizioni simili a quelle dei Paesi islamici fondamentalisti, ove non esiste distinzione fra religione e politica, né fra legge coranica e legge statale: col risultato che recare offesa, in qualsiasi modo, alla parola di Maometto o anche solo alla tradizione orale musulmana, comporta l’immediato intervento delle autorità secolari, il processo e l’eventuale condanna da parte di queste ultime.
Questo è stato il capolavoro, per così dire, della deformazione storica scientemente portata avanti, da almeno tre secoli a questa parte, dai nipotini e dai pronipoti della «Encyclopédie», quella gigantesca, boriosa mistificazione del sapere universale, a fini di propaganda ideologica, che Diderot e i suoi collaboratori realizzarono sul presupposto razionalista e materialista che solo alla Ragione spetta l’ultima parola in ogni campo della vita e del conoscere.
Edward Gibbon, il massimo esponente della grandiosa mistificazione storica anticristiana, lo aveva detto a chiare lettere, allorché, a suggello della sua immane fatica, «History of the Decline and Fall of the Roman Empire», ne aveva così riassunto il senso e la linea-guida: «Abbiamo descritto il trionfo della Barbarie e della Religione».
C’è solo un particolare che non quadra in tutto ciò: il fatto che il Cristianesimo, non che introdurre il connubio fondamentalista di religione e politica, lo ha messo in crisi, rifiutato e distrutto; tale connubio, al contrario - o, per meglio dire, tale confusione, perché di confusione si trattava - non risale affatto al Cristianesimo, ma al pensiero politico greco.
Erano i Greci a considerare inconcepibile la separazione fra politica e religione e, di conseguenza, fra Stato e culto; la Chiesa, all’opposto, proprio perché “invenzione” cristiana, introdusse quella distinzione e mise bene in chiaro che altro è la vita associata, con i suoi doveri e le sue responsabilità, e altro la vita dell’anima, con la sua eterna tensione verso Dio e verso una giustizia eterna, che non delude e non inganna.
Gesù Cristo lo aveva detto con forza e con disarmante semplicità: «Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio»; e Sant’Agostino vi aveva costruito sopra la dottrina delle due città, la Città terrena e la Città celeste; peritura e soggetta al peccato la prima, perfetta ed eterna la seconda.
Del resto, era nella forza delle cose che il Cristianesimo dovesse imboccare la via del dualismo fra religione e politica: e non solo, né principalmente, per il fatto che, affermatosi nel corso di una lotta secolare contro l’Impero Romano, doveva per forza ribadire la superiorità della coscienza rispetto alla legge statale (come verrà riaffermato anche da San Tommaso, il massimo filosofo medievale); ma proprio perché si trattava di una religione universalistica, che aveva trionfato in uno Stato universale, che tendeva a identificarsi con il mondo intero.
In questo senso, la contraddizione non era del Cristianesimo, ma dell’Impero Romano: il quale, erede della “polis” greca, ne aveva ereditato anche gli Déi, aggiungendovi via via tutti quelli delle altre regioni conquistate; ma gli Déi delle “poleis” erano grettamente particolaristici, non universali: proteggevano ciascuno la propria città, contro ogni altra realtà politica.
L’Impero Romano, dunque, viveva la contraddizione fra la sua missione universale, cantata da Virgilio e teorizzata da Augusto, e le religioni sulle quali si reggeva la sua dimensione spirituale, che erano disparate e tutte particolaristiche; tanto è vero che, quando lo Stato, nella persona di Diocleziano, volle ingaggiare la battaglia decisiva contro l’unica religione (oltre al Mitraismo) veramente universale, che ne minava le basi ideologiche, dovette scegliere per proprio vessillo, fra tutte le religioni pagane, quella che più si prestava a legittimare la figura semidivina del sovrano, ossia la religione del Sole Invitto.
Tuttavia, così facendo, l’imperatore abbracciava di fatto un culto monoteista che poco o nulla aveva a che fare con il Paganesimo classico, necessariamente politeista, e presentava invece parecchi punti di contatto con la religione “nemica” che egli si proponeva di distruggere. La somiglianza era anzi tale, anche nei simboli esteriori, che ancora oggi gli storici discutono animatamente se il simbolo sognato da Costantino alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio - dalla quale sarebbe scaturito l’editto di tolleranza per il Cristianesimo -, simbolo che egli fece incidere anche sugli scudi e porre sui labari delle sue truppe, fosse il monogramma cristiano oppure il simbolo solare.
Tra i filosofi greci, il solo Platone aveva negato che l’aspirazione dell’uomo al Bene possa realizzarsi integralmente nell’ambito della “polis”; lui solo aveva avuto il coraggio concettuale di proiettare il Bene, l’Idea del Bene, al di là delle cose terrene e contingenti, nelle sfere celesti dell’Iperuranio: ed è ben questa la ragione per cui il Cristianesimo troverà nel platonismo, e più ancora nel neoplatonismo, il ponte necessario fra sé e la civiltà classica al tramonto, sulla base del quale costruire una civiltà nuova.
San Tommaso d’Aquino, poi, riprendendo la distinzione aristotelica tra fisica e metafisica, tra mondo terreno, soggetto al mutamento e mondo celeste, immutabile, aveva posto la distinzione tra l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale, per cui l’uomo viene ad essere, per così dire, cittadino di due patrie: della patria terrena, ossia dello Stato, quanto alla sfera politica; e della patria ultraterrena, ossia divina, quanto alla sfera religiosa. Aristotele,  del resto, aveva distinto non solo fra i due ordini, ma perfino tra le diverse virtù dell’uomo: naturali alcune, soprannaturali altre; e anche questa è una distinzione di cui faranno tesoro i teologi medievali.
In teoria, le due patrie avrebbero dovuto concorrere entrambe al bene dell’uomo: la patria terrena, ossia l’Impero, all’affermazione della pace e della giustizia; e la patria celeste, rappresentata dalla Chiesa, alla salvezza dell’anima.
Era però inevitabile, date le premesse, che sorgesse un conflitto circa i rapporti reciproci delle due “città”: in particolare, era pressoché inevitabile che sorgesse un conflitto fra le attribuzioni dello Stato e quelle della Chiesa, essendo entrambi voluti dall’alto, ma in un rapporto reciproco che si prestava a dubbi, contese e lotte per la supremazia (quali appunto furono le cosiddette lotte per le investiture).
Il pensiero politico di Marsilio da Padova e quello religioso “riformatore” di Guglielmo di Ockham, con i quali giunge a maturazione il divorzio tra le due sfere, naturale e soprannaturale, che Tommaso aveva creduto di poter armonizzare nel quadro della superiore sintesi operata dalla Provvidenza, ha la sua radice e la sua premessa nel dualismo cristiano fra Città Terrena e Città Celeste; dualismo che era stato controbilanciato dalla superiore aspirazione all’unità fra tutti i popoli, nel segno della comune fede religiosa: tanto è vero che, nel Medioevo, alla parola “Europa” si preferiva la parola “Cristianità”, in senso culturale se non geografico.
Ma, quando - fra XIII e XIV secolo - prendono ad affermarsi, in Europa, le monarchie nazionali, l’aspirazione all’unità sovranazionale comincia a scomparire e l’elemento dualista, proprio del pensiero politico cristiano, non più controbilanciato dal principio unitario, riemerge con forza rinnovata. 
Ed è allora, non certo con Machiavelli o con l’Illuminismo, che si creano le condizioni sufficienti, non già per la separazione fra politica e religione - separazione che il Cristianesimo stesso aveva introdotto -, ma per l’affermazione della politica a scapito della religione, e dello Stato a scapito della Chiesa: processo che inizia ad Anagni nel 1303.
Tale fu il dramma politico del Medioevo: che inizia con l’umiliazione di Teodosio ad opera di Sant’Ambrogio, a Milano, nel 390; culmina con quella di Enrico IV da parte di Gregorio VII, a Canossa, nel 1077; e conosce la sua risoluzione e la sua nemesi con la cattura e l’oltraggio fatto a Bonifacio, da parte degli inviati di Filippo il Bello, ad Anagni, nel 1303.
Ha scritto Alessandro Passerin D’Entreves (in: «La filosofia politica medioevale», Torino, Guappichelli, 1934, pp. 28-39):

«Vi è un passo del Nuovo Testamento di cui si può dire che la dottrina politica medioevale non sia se non un lungo commento: è il passo di S. Matteo in cui è tramandato l’insegnamento diretto del Redentore: “Reddite quae sunt Caesaris, Caesari; et quae sunt Dei, Deo”.
Col segnare una scissione profonda nell’ordinamento fino allora unitario della vita, il divino precetto segna veramente l’inizio di una nuova epoca della storia e del pensiero umano. Tale dualismo, tale scissione erano ignoti al pensiero classico: l’ideale greco ne è anzi la più diretta e completa antitesi. In quanto la città rappresenta la forma più alta e perfetta di associazione, e la vita dell’individuo si realizza in essa e per essa, il problema politico si confuse per i greci col problema morale. Confusione piuttostoché subordinazione: anziché proiettare l’ideale del bene in una sfera trascendente, riconoscendo l’insufficienza della vita politica a realizzare la compiuta vita etica dell’individuo, il pensiero greco, pur mantenendo il criterio del bene come norma suprema di valutazione dell’esperienza politica, lo concepì come immanente allo Stato, come raggiungibile soltanto in esso e per mezzo di esso. La contrapposizione, il dualismo del bene individuale e del bene dello Stato sono assolutamente estranei al pensiero greco; l’associazione politica rappresenta la piena attuazione del fine individuale, e quindi la forma più alta della vita.  E così come il pensiero greco non conobbe distinzione tra vita politica e morale, non conobbe distinzione tra Stato e Chiesa. Si potrebbe dire anzi che la “polis” è, ad un tempo, Stato e Chiesa: ma della Chiesa manca precisamente l’elemento essenziale, l’idea  di un vincolo universale, al di sopra delle distinzioni di città o di razza. Gli Dèi della città sono ad essa particolari ed esclusivi, e l’ideale politico greco rispecchia questo politeismo.  Il Cristianesimo segna la definitiva proiezione dell’ideale  morale fuori e al di là della vita politica, proiezione venuta preparandosi e compiendosi nella dissoluzione dell’ideale classico e nella rivendicazione di nuovi valori disgiunti  e talora antagonistici della vita politica. Di questo distacco della vita morale dalla vita politica il riflesso e la diretta conseguenza nella sfera dei apporti sociali e giuridici è il dualismo e la distinzione dell’ordine spirituale e dell’ordine temporale. Accanto allo Stato, associazione perfetta e sufficiente a se stessa, sorge, con pretesa a non minor sufficienza e perfezione, collegando gli uni con un vincolo nuovo assai più intimo, e tenace, una associazione da quella interamente diversa, con diversi caratteri e finalità: la Chiesa.»

Riassumendo.
La “polis” greca non fa alcuna distinzione tra la sfera civile e quella religiosa, né tra l’ambito naturale e quello soprannaturale.
Tale distinzione appartiene a Platone, e se ne comprende bene la ragione: a che cosa si doveva la tragedia del processo e della condanna a morte del suo venerato maestro, Socrate, se non a quella mancata distinzione, per cui l’accusa rivolta a Socrate in ambito religioso e morale (aver professato l’ateismo e aver cercato di corrompere la gioventù) si tradusse automaticamente nell’accusa politica di attentato alle leggi e alla sicurezza dello Stato?
Il Cristianesimo, invece, sulla base della libertà di coscienza, introduce tale distinzione, ed è proprio questo che i suoi avversari non gli perdonano; è proprio questo che anima il cruento disegno delle persecuzioni, non un delitto specifico: come appare chiaramente da svariati documenti dell’epoca e, fra l’altro, dal carteggio tra Plinio il Giovane, governatore della Bitinia dal 111 al 113, e l’imperatore Traiano.
La patria del cristiano, la sua Patria celeste, non è di questo mondo, dice Agostino; e Tommaso, più tardi, afferma che, ogni qual volta la coscienza si trovi in dubbio fra l’osservanza delle leggi esterne e quella della legge morale interiore, essa deve dare ascolto a quest’ultima. In ciò risiede la grandezza morale del pensiero politico cristiano; e in ciò risiede, se si vuole, la debolezza pratica del cristianesimo sotto l’aspetto della vita politica: mentre il cittadino della “polis” si identificava totalmente con essa, fino a scegliere di morire per lei, il cristiano non s’identifica mai del tutto con lo Stato, ciò che gli sembrerebbe un peccato di idolatria.
In lui vi è sempre una riserva, un sottinteso: che, qualora le leggi terrene non dovessero coincidere con la legge morale proveniente da Cristo, la sua preferenza deve andare alla seconda, perché la salvezza dell’anima è più importante di quella del corpo.
Inoltre, se l’ordine politico è voluto da Dio, come lo è quello ecclesiastico, allora non è chiaro se entrambi derivino ugualmente dall’alto, o se il secondo sia subordinato al primo, come la Luna che riceve la sua luce dal Sole e non da se medesima. E questo porterà ad un altro fattore di debolezza e di instabilità, non solo per l’Impero (quello Romano prima, quello Germanico poi), ma anche per la Chiesa stessa, dato che i due poteri universali del Medioevo sono complementari e la fragilità dell’uno si ripercuote negativamente sulla solidità dell’altro.
Tuttavia, se da un latro il pensiero politico cristiano è dualista, dall’altro è universalista, perché proclama francamente, con San Paolo, che non vi più né Giudeo né Greco, dal momento che tutti gli uomini sono fratelli in Cristo; e questo secondo elemento, l’universalismo, fu abbastanza forte da controbilanciare gli effetti potenzialmente negativi primo per oltre un millennio.
Solo quando nasce il moderno Stato nazionale, l’universalismo cristiano va in crisi e retrocede; e, al suo posto, avanzano gli opposti nazionalismi, che culmineranno nel XIX secolo e troveranno la loro nemesi nelle due guerre mondiali del successivo.
Si parla sempre dei fiumi di sangue che sono stati versati nelle guerre di carattere religioso; ma è giusto dire che nessuna guerra religiosa ha mai richiesto un tributo di morte più alto delle moderne guerre per l’affermazione nazionale, con il loro corollario di deportazioni di massa, persecuzioni e genocidi.
Il pensiero laicista, che nasce da un marcato pessimismo antropologico, non è stato affatto una “invenzione” della modernità - Rinascimento, Rivoluzione scientifica o Illuminismo -, ma l’ulteriore approfondimento di una distinzione che era stata posta dal Cristianesimo e, tranne Platone, da nessun altri prima di esso.
Se fossero intellettualmente onesti, gli storici contemporanei dovrebbero riconoscere questo debito verso il pensiero politico cristiano e ammettere che si trattò di un contributo fondamentale al nostro attuale modo di vedere il rapporto tra religione e politica; invece di continuare a ripetere le insulse accuse di Voltaire, quasi che per millesettecento anni il Cristianesimo avesse svolto opera puramente negativa, e solo la modernità avesse riportato ordine nel disordine, e luce nelle tenebre della superstizione e del fanatismo.