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Democrazia occidentale e geopolitica

di Fabio Falchi - 11/01/2011


Democrazia occidentale e geopolitica

In un recente articolo, “Il tramonto della democrazia nell’era della globalizzazione”, (1) Danilo Zolo ha ben evidenziato come al giorno d’oggi la parola democrazia, pur venendo usata in contesti retorici per connotare la (presunta) superiorità dell’ideologia occidentale, non denoti alcuna realtà politica e non abbia più nulla a che fare con le istituzioni politiche dell’antica Atene. Ormai, secondo Zolo, nessuno può più credere che «i partiti politici siano realmente delle organizzazioni “rappresentative” che trasmettono fedelmente ai vertici del potere statale le esigenze e le aspettative degli elettori», dato che è innegabile che i partiti investano «il loro potere e il loro denaro entro circuiti finanziari informali e spesso occulti, attraverso i quali essi distribuiscono risorse finanziarie, vantaggi e privilegi» e che siano del tutto funzionali all’egemonia «di alcune élites economico-politiche al servizio di intoccabili interessi privati», sì che è impossibile condividere la tesi secondo cui le democrazie occidentali si basano su un autentico consenso politico. Si assiste invece alla manipolazione della cosiddetta “opinione pubblica”, grazie soprattutto ai mass media e alla comunicazione pubblicitaria che diffondono «in tutto il mondo messaggi simbolici fortemente suggestivi che esaltano la ricchezza, il consumo, lo spettacolo, la competizione, il successo». Del resto, è noto che il sociologo del diritto Niklas Luhmann, (2) come ricorda giustamente Zolo, ha (di)mostrato che il meccanismo mediante il quale si “pro-duce” il consenso in una moderna democrazia liberale è una finzione istituzionale, benché sia essenziale per il funzionamento del sistema sociale, «una formula rituale di giustificazione ideologica della politica, non certo la ricerca di un consenso effettivo, fondato sulle [...] convinzioni dei cittadini». Vale a dire che la sua vera funzione consiste nel «neutralizzare e rendere puramente formale il ruolo degli elettori, consentendo loro di esprimere la propria volontà soltanto con un “sì” o con un “no” nei confronti di alternative molto generiche e ridotte di numero». Di fatto, osserva Zolo, «la grande maggioranza dei cittadini non “sceglie” e non “elegge”, ma ignora, tace e obbedisce» e i rappresentanti del popolo altro non sono che «dei burocrati e dei managers che “rappresentano” gli elettori soltanto nel senso che fanno qualcosa al loro posto, qualcosa che i singoli elettori non hanno la competenza, le risorse finanziarie o la possibilità di fare». Si spiegano così la crisi del Welfare, la privatizzazione dell’incertezza, l’abbandono delle politiche di sostegno del diritto al lavoro, la rinuncia a finanziare programmi per il miglioramento delle condizioni dei ceti sociali più deboli ed il fatto che si sia passati «da una concezione della sicurezza come riconoscimento dell’identità delle persone e della loro partecipazione alla vita sociale ad una concezione della sicurezza intesa come difesa poliziesca degli individui da possibili atti di aggressione e come repressione e punizione della devianza» (al riguardo, si tenga conto che dal 1980 ad oggi negli Stati Uniti la popolazione penitenziaria si è più che triplicata, raggiungendo nel 2007 la cifra di oltre 2.300.000 detenuti). Pertanto, non stupisce che Zolo giunga ad affermare che le democrazie occidentali sono «regimi orientati alla pura efficienza economico-politica, al benessere delle classi dominanti e alla discriminazione dei cittadini non abbienti». Data poi l’enorme complessità che caratterizza il sistema sociale occidentale, nonché la difficoltà, per la maggior parte dei cittadini, di comprendere come funzionano le tecnostrutture (nazionali e non) o di acquisire le necessarie competenze non solo per prendere le decisioni “giuste”, ma anche per giudicare quali decisioni siano “giuste” e quali decisioni non lo siano, è comprensibile che Zolo alla domanda “che cosa fare?” risponda che non può negare di essere pessimista. Ciononostante, egli pensa che si dovrebbe «tentare di salvare alcuni valori e alcuni diritti umani che oggi sono fra i più calpestati». Il che può sembrare abbastanza scontato e perfino opinabile, se si considera che proprio la difesa dei “diritti umani” è un veicolo specifico dell’imperialismo americano (che pure Zolo, anche in questo articolo, non esita a criticare). Si deve però aggiungere che Zolo precisa: «anzitutto i diritti sociali», che notoriamente non sono particolarmente apprezzati dai difensori del mercato e che non sono certamente i “diritti” che gli americani vogliono, o meglio “possono” esportare nel mondo. Comunque sia, pare assai più condivisibile, quanto Zolo sostiene nella sua conclusione, vale a dire che«contro l’utopia cosmopolita à la Bauman o à la Habermas, [...] l’autonomia individuale non esclude ma anzi implica il senso di appartenenza a un particolare gruppo sociale e culturale. Non c’è autonomia e libertà senza radici nella particolarità di un territorio, senza identificazione intellettuale, sentimentale ed emotiva con una storia, una cultura, una lingua, un destino comune». In questa prospettiva, l’affermazione che «solo chi dispone di solide radici identitarie riconosce l’identità altrui, rispetta la differenza, cerca il dialogo con gli altri, rifugge da ogni fondamentalismo e dogmatismo», non pare un luogo comune, ma una considerazione necessaria per “de-ideologizzare” e demistificare la questione della democrazia liberale e perfino quella dei “diritti umani”.

Nondimeno, si deve anche notare che questa conclusione non sembra del tutto coerente con le premesse dell’analisi di Zolo, il quale pare non avvedersi non solo che il declino dell’unipolarismo americano è condizione indispensabile per poter valorizzare le proprie radici identitarie ma anche tale declino è l’effetto di un mutamento degli equilibri geopolitici che si è venuto a determinare grazie ad una reazione “positiva” a quel processo di sradicamento e di dissoluzione di ogni senso di appartenenza diverso da quello “occidentale” (ovvero angloamericano) che Zolo, definisce, alquanto genericamente, come processo di globalizzazione. Infatti, Zolo da un lato osserva che vi è una «nuova classe capitalistica transnazionale che domina i processi di globalizzazione dall’alto delle torri di cristallo di metropoli come New York, Washington, Londra, Francoforte, Nuova Delhi, Shanghai»; dall’altro sostiene che «le corporations transnazionali che hanno il monopolio dell’emittenza televisiva sono in maggioranza insediate negli Stati Uniti [ma allora sono veramente transnazionali?] e sono tutte appartenenti all’OCSE: fra queste Aol-Time-Warner, Disney, Bertelsmann, Viacom, Tele-Communications Incorporated, News Corporation, Sony, Fox» e si augura che vi sia «una riforma delle istituzioni internazionali che includa anzitutto le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, che fra l’altro sono tutte insediate nel continente americano senza alcuna ragione»(3). E’ ovvio però che, se ci si limita, come Zolo, a rilevare che «il potere politico ed economico si è concentrato nelle mani di poche superpotenze e il diritto internazionale è ormai subordinato alla loro volontà assoluta» e ad affermare che «la sovranità politica degli Stati nazionali si è molto indebolita», sia incomprensibile la ragione per la quale la maggior parte delle corporations e istituzioni come l’FMI o la Banca mondiale hanno le loro sedi negli Usa. E non comprendendo la relazione tra la globalizzazione e la politica di potenza americana, in particolare dopo la caduta del Muro di Berlino, ci si lascia sfuggire che la capacità di alcuni Stati nazionali (si pensi ad esempio a Paesi come la Cina, la Russia, l’India, la Turchia, l’Iran, il Brasile e il Venezuela,) di opporsi alla politica di potenza americana modifica, con ogni probabilità, il senso stesso della cosiddetta globalizzazione. A nostro giudizio, si dovrebbe invece prendere in considerazione l’aspetto geopolitico della globalizzazione ed il conflitto tra potenze che ha messo in crisi la strategia “globalizzatrice” statunitense – in quanto ben difficilmente si può dubitare che a globalizzare sia stata e sia ancora soprattutto l’America – se si vuole capire il passaggio da una fase unipolare ad una multipolare, che costringe(rà) gli Stati Uniti a cambiare la propria strategia (sebbene si debba notare che gli Usa paiono costretti, per il loro modello di sviluppo, sempre più imperniato sul Warfare State, a non “fare alcun passo indietro”, e a persistere nel loro tentativo di dominare l’Eurasia) e che offrirebbe (il condizionale è, purtroppo, d’obbligo!) anche a Paesi dell’Europa continentale l’opportunità di un nuovo “orientamento” geostrategico, per tutelare e rafforzare i propri interessi e la propria propria sovranità, da cui non può non dipendere anche la difesa dei “diritti sociali”. D’altronde, non è difficile immaginare che fino a quando l’Europa non si libererà dei “liberatori”, non solo gli europei dovranno anteporre gli interessi d’oltreoceano ai propri interessi (con conseguenze che già appaiono drammatiche per non pochi Paesi, Italia compresa), ma si indeboliranno sempre più le radici identitarie dell’homo europaeus, affatto diverso dall’homo occidentalis, (4) che fonda la propria identità non sul senso di appartenenza ad una determinata “terra” e sul riconoscimento reciproco, ma sull’annientamento della stessa idea di “con-fine”. E non è forse proprio questa “dismisura” che ispira la strategia della superpotenza americana e che domina l’immaginazione collettiva, generando «un conformismo profondo [...] che influenza i ritmi di vita, le scelte di valore e le propensioni politiche della grande maggioranza dei cittadini», anche in un Paese di antiche tradizioni e cultura come l’Italia? D’altra parte, se dovesse parere poco “realistico” cercare di smarcarsi dalla politica di potenza del Leviatano, ci si dovrebbe ricordare della “lezione politica” dei palestinesi che resistono da anni alla “pre-potenza” sionista, unicamente grazie alla loro determinazione, al loro spirito di abnegazione e al fatto che conservano una relazione organica con la loro terra, tanto è vero che, se dovessero considerare solo i reali rapporti di forza, non potrebbero fare altro che cedere le armi e rassegnarsi alla sconfitta. Né queste considerazioni debbono ritenersi non avere relazione alcuna con la questione della “democrazia”, ché anzi provano che le critiche da “sinistra” (com’è ancora, in definitiva, quella di Zolo) al sistema politico liberal-democratico, sebbene possano essere preziose, rischiano di apparire come un sorta di “elaborazione del lutto” (per la scomparsa del “soggetto rivoluzionario”) e di impedire o ritardare la costruzione di una “mappa teorica” (5) per poter “com-prendere” i rapidi e profondi cambiamenti sociali e geopolitici che caratterizzano il nostro tempo (una “mappa” che dovrebbe essere essa stessa “in divenire”, per così dire, benché ciò non significhi affatto lasciarsi “trasportare dalla corrente”, dato che una “buona mappa”, nonostante debba essere costantemente aggiornata e possa essere disegnata impiegando “scale” e metodi diversi, indica sempre i punti cardinali necessari per orientarsi). Inoltre, la consapevolezza dell’importanza del conflitto geopolitico che contraddistingue la fase multipolare appena iniziatasi, getta anche una nuova luce sulla esigenza di ridefinire il ruolo politico e strategico dei singoli Stati nazionali, per contrastare le aberrazioni di una società di mercato “a stelle e strisce”, che tende a mercificare tanto le relazioni che formano la sfera pubblica quanto quelle che costituiscono i diversi mondi vitali delle singole persone, “diritti umani” compresi (senza dimenticare che questi ultimi sono “incastrati” in un complesso ventaglio di istituzioni giuridiche, economiche, sociali e culturali e non possono che essere “interpretati” in molteplici modi, anche se non necessariamente si escludono a vicenda). E il fatto che in “Occidente” non vi sia alcun “soggetto sociale rivoluzionario” (ma ci può essere un “soggetto sociale” che sia, in quanto sociale e non politico, rivoluzionario?) e che la stragrande maggioranza dei cittadini sia totalmente esclusa dalla vita politica della comunità nazionale cui appartiene, dovrebbe portare a porsi il problema della “forma” dello Stato liberal-democratico. Uno Stato cioè che – come ammette, in definitiva, lo stesso Zolo, il quale, anche se non lo cita, sembra far proprie le critiche di Carl Schmitt alla ideologia liberal-democratica – tradisce sia il principio di identità che quello di rappresentanza: il primo, poiché priva il popolo di sovranità reale, trasferendola ad un’oligarchia; il secondo, in quanto tutela interessi di parte e non rappresenta più l’unita dello Stato, né agisce più secondo un’idea di “bene comune”. Una critica della democrazia “formale” quindi che dovrebbe saldarsi con un progetto di “liberazione” dei popoli europei dal dominio americano, non per difendere un nazionalismo ottuso ed anacronistico, ma per poter costruire uno “spazio geopolitico”, insieme con altri popoli dell’Eurasia, uniti da un comune destino e dalla necessità di stringere alleanze per difendersi dal “nemico comune”. Certo, ciò non sembra possibile senza una élite in grado di far valere l’interesse nazionale”, non solo sullo scacchiere internazionale (Unione europea inclusa, tenendo presente – anche ammesso che l’Unione europea possa diventare realmente indipendente dagli Usa – il ruolo niente affatto marginale che in ambito europeo riescono in ogni caso a svolgere Stati “forti” come la Francia e la Germania), ma anche sul “piano interno”, di modo da promuovere le attività strategiche per lo sviluppo del Paese e da garantire che gli interessi settoriali siano al servizio dell’intera comunità, concependo la vita economica e sociale come cooperazione e costruzione collettiva, secondo il principio di responsabilità, senza lasciarsi fuorviare dalla polemica sullo statalismo, poiché tanto più uno Stato è efficiente tanto maggiore è l’autonomia che può concedere, a patto che non si confonda la concezione olistica della società con il totalitarismo. Naturalmente, qualora vi fosse un movimento politico che cercasse di realizzare un siffatto progetto di “liberazione” nazionale e si adoperasse per una trasformazione radicale dell’attuale sistema sociale e politico, è indubbio che sarebbe fortemente criticato tanto da “destra” quanto da “sinistra”. Una volta però che si sia ammesso che la democrazia occidentale è non solo una finzione, ma una finzione che favorisce fenomeni “regressivi” e addirittura profondamente lesivi della dignità umana, e che senza la salvaguardia del proprio “ethos” (e si badi che “ethos” designa in primo luogo non comportamenti soggettivi bensì l’ “abitare”, l’essere parte di una comunità, cioè la radice cui si appartiene, con tutto ciò che ne consegue) non vi è né autentica autonomia né autentica libertà, ha ben poco senso continuare a condividere i presupposti, politici e culturali, dell’ideologia occidentale (quasi che non si dovesse più rischiare di “errare” nuovamente, dopo le terribili esperienze del Novecento). Occorrerebbe dunque una cultura politica nuova, ossia tale da formare classi dirigenti nazionali che dessero ai popoli europei la possibilità di essere non masse di consumatori, bensì autentici “soggetti

 

politici”. Per questo motivo, ancor più dell’apatia delle masse, è la mancanza di una classe dirigente degna di questo nome – capace di agire con cognizione di causa e consapevole che, in un certo senso, più pericolose del Leviatano statunitense sono le “quinte colonne”, soprattutto quelle formate da coloro che lavorano per il “re di Prussia” senza saperlo – che dovrebbe preoccupare, anche perché il “ritardo” della vecchia Europa e dell’Italia in particolare non dipende (solo) dal fatto che il processo di globalizzazione appare essere assai meno rapido che in altre zone del pianeta, ma anche dal fatto che non si sa o non si vuole “governare” il mutamento sociale (ovverosia la stessa globalizzazione). E’ lecito allora concludere che, se il merito di Zolo – che pur muove da premesse diverse o persino opposte rispetto a quelle di Luhmann o di Schmitt (il che rende ancor più significativa la sua analisi) – è quello di aver riconosciuto che vi è una relazione non accidentale tra l’ “involuzione” delle società occidentali e il progressivo sradicamento dei “legami sociali ed identitari” che sono a fondamento della vita di un popolo, si deve constatare che anch’egli – proprio come la maggior parte di coloro che, sia pure a diverso titolo, si richiamano alla problematica comunitaria – tende ad ignorare la rilevanza della “dimensione geopolitica” per comprendere il ruolo essenziale dello Stato e del Politico nell’elaborare una “strategia di potenza” adeguata a contrastare l’imperialismo americano, sia sotto il profilo economico-sociale, sia sotto il profilo politico-culturale. Si potrebbe però obiettare che gli Stati europei e la stessa Unione europea, così come sono strutturati, sono “macchine tecno-burocratiche”, più adatte a servire gli interessi dei potentati economici, che hanno il loro “cuore” oltreoceano, e a reprimere il bisogno di autonomia delle diverse identità locali, che articolano le singole comunità nazionali, che non a tutelare un orizzonte di senso intersoggettivamente condiviso e a promuovere lo sviluppo e il benessere dei popoli europei. Tuttavia, non pare essere un’obiezione decisiva, poiché è proprio questo che mostra la necessità, a nostro avviso, di una nuova configurazione geopolitica e, di conseguenza, anche di una nuova concezione dello Stato e del Politico, non per cancellare la storia del secolo passato, ma per interpretarla secondo le esigenze del nostro tempo, se è vero che la storia è sempre storia “contemporanea” e che ogni comprensione si attua a partire dai problemi che si devono risolvere e dalle sfide a cui non ci si può sottrarre.


NOTE

1) Vedi http://www.juragentium.unifi.it/it/surveys/wlgo/tramonto.htm

2) Al riguardo, si possono trovare alcune indicazioni bibliografiche nel mio articolo “Potere e disinformazione” (vedi http://www.cpeurasia.eu/1088/potere-e-disinformazione ).

3) Vedi http://www.juragentium.unifi.it/it/surveys/wlgo/populism.htm .

4) Ho cercato di motivare questa fondamentale differenza in “Homo europaeus”, “Eurasia”, 2/2010, pp.11-23.

5) Che l’impianto teorico, per comprendere l’attuale fase geopolitica e i mutamenti sociali e politici che vi sono connessi, lo si debba concepire come una “mappa” è sostenuto con vigore intellettuale da Gianfranco la Grassa. Una “mappa” che dovrebbe essere essa stessa “in divenire”, per così dire, benché ciò non significhi affatto lasciarsi “trasportare dalla corrente”, dato che una “buona mappa”, nonostante debba essere costantemente aggiornata e possa essere disegnata impiegando “scale” e metodi diversi, indica sempre i punti cardinali necessari per orientarsi.