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“Guerra di civiltà”: l’ingrediente malsano di troppi manuali di storia

di Cecilia Palombo - 12/01/2011


religioneguerra

L'inconfondibile prurito del dubbio comincia a solleticarmi la nuca mentre aiuto mio fratello, che frequenta la prima media in una scuola statale di Roma, a ripetere la lezione di storia. Legge ad alta voce dal suo libro di testo, seduto di fronte a me. Qualcosa stona, devo forzarmi per non interromperlo ad ogni punto. Ma non posso correggerlo, si spazientisce, deve imparare quello che è scritto nel capitolo, Se è scritto dev'essere vero. A causarmi il prurito sono soprattutto gli incisi, le parentesi, gli aggettivi sparsi qua e là fra le righe: quasi niente di quello che legge è del tutto sbagliato; tutto è inesatto, impreciso.

Il dubbio che mi è sorto è che, per la leggerezza con cui le parole sono usate dagli adulti e la diligenza con cui vengono imparate dai bambini, l'idea che la "guerra di civiltà" sia un esito storicamente inevitabile ci germogli dentro sin dall'infanzia. Nello stesso momento in cui viene loro insegnato ad aborrire la violenza, gli studenti più giovani imparano a pensare in termini di incompatibilità fra abitudini religiose, di contrapposizione storica fra bene e male, di superiorità culturale di un gruppo sugli altri.

Per verificare quella brutta impressione ho sfogliato alcuni libri di testo per scuole medie. Ne ho ricavato che in molti casi, quando si propongono di spiegare i momenti di interazione fra civiltà, solo superficialmente i testi parlano di un incontro (come a volte pretendono i titoli dei libri).

La storia che raccontano è più subdolamente la narrazione di un conflitto continuo, incentrato per lo più su differenze religiose e morali, di una guerra fra valori positivi e valori negativi che implicitamente si propone di legittimare controversie di oggi.

La radicalizzazione delle diversità religiose e l'inasprimento del senso di appartenenza a uno dei tre monoteismi, recepito come antagonista agli altri, possono così essere assorbiti a scuola come conseguenze oggettive di innate qualità naturali dei popoli. Senza mai affermarlo apertamente, questa storia finisce per essere il racconto dell'atavica superiorità spirituale e culturale del mondo occidentale.

Quando racconta la fine dell'Impero romano d'Occidente, ad esempio, A. Brancati ("I popoli antichi 2", ed. La Nuova Italia, 2000) si preoccupa giustamente di avvisare i lettori che le più moderne teorie storiografiche hanno abbandonato l'idea di un Medioevo barbaro: «I popoli germanici infatti accettarono il Cristianesimo e si incivilirono» (pg.54). La forma della frase non può che far intuire allo studente un nesso di causa ed effetto tra la conversione e la fine della barbarie: il cristianesimo e la civiltà.

Quella dei Germani, dopotutto, non era che «una religione della paura», per fortuna sconfitta dall'impegno della Chiesa, che «armò tutte le sue forze per trasmettere loro la religione della speranza» (V. Calvani, "Scambi tra civiltà 1", Mondadori Scuola, 2007, pg.70). Lo stesso sospiro di sollievo («Per fortuna») è riservato ancora da A. Brancati alla vittoria di Carlo Martello a Poitiers, «sulle terre della dolce Francia» (ma non a quella di Leone III Isaurico, di cui nei libri non è rimasta traccia).

La trasmissione dei giudizi di valore (come dire la direzione da dare allo sguardo sul passato e insieme sul presente) è quello che rimane maggiormente impresso nella mente degli alunni, ben più di date e dati. Dal momento che non hanno ancora gli strumenti per una lettura critica, difficilmente studenti così giovani sapranno distinguere fra risultato di una ricerca storica e opinione personale di chi scrive.

crociatoarmatoDisseminare giudizi contribuisce a costruire in loro un modo di pensare: per fortuna il re cristiano vinse quella battaglia, per fortuna i pagani si sono convertiti, per fortuna la Storia non ha preso la piega sbagliata. In quest'ottica le numerose popolazioni che chiamiamo germaniche e gli Arabi vengono spesso affiancati nei libri di testo (si fa la stessa approssimazione con Ungari, Normanni e cosiddetti Saraceni), perché hanno in comune l'onta di aver mandato in frantumi la presunta “unità politica economica e spirituale” del mondo mediterraneo.

Da una parte, una grande tabella spiega ai bambini le differenze fra la civiltà romana e quella dei germani ("Scambi tra civiltà 1", pg.60): «I Romani facevano il bagno nelle terme; i Germani non si lavavano quasi mai; i Romani si profumavano con unguenti; i Germani emanavano cattivi odori; i Romani costruivano con malta pietre marmo e mattoni; i Germani costruivano con paglia sterco secco e legname».

Dall'altra si tratteggia la terribile storia delle conquiste arabe ("I popolo antichi 2", pp.99-103): quello arabo è «un popolo disperso», «primitivo», «che muove da una regione isolata e povera», «costretto a vivere in uno stato di continua anarchia al di fuori di ogni legame politico», con un unico elemento di unità: «la religione politeistica e idolatrica». Eppure è riuscito a conquistare il Mediterraneo, grazie alla straordinaria inventiva di Maometto ma soprattutto perché «animato da spirito guerriero e sollecitato da grande fanatismo». Accanto a una lettura tradizionale (ma ben poco aggiornata) delle origini dell'Islam, si fa strada il giudizio dell'autore: «La guerra degli Arabi fu combattuta con entusiasmo fanatico» da una gente che per sua natura è caratterizzata da «innata pigrizia»; ed è stata combattuta «in aperto contrasto con lo spirito del messaggio evangelico, affidato solo a persuasione e predicazione apostolica».

I ragazzi metabolizzano così il messaggio che la religione della speranza (l'unica, sembra suggerire l'articolo) è anche la religione della pace. Qualcosa che non sembra conciliabile con lo spirito che muove i nuovi aggressori musulmani i quali, al contrario dei nostri avi, baserebbero la loro fede su «un libro dal contenuto elementare».

Chi impara a scuola che nella storia si è sempre manifestata una distinzione unilaterale fra bene e male, paura e speranza, guerra fanatica e messaggio d'amore, avrà probabilmente più facilità ad accettare la necessità di uno scontro violento nel presente fra parti presentate come incompatibili.

Ovviamente non bisogna misconoscere nessun dato storicamente certo, nessun conflitto avvenuto, ma astenersi il più possibile dai giudizi morali e personali, dalle approssimazioni, dalle imprecisioni su argomenti che non si dominano. Essere comprensibili, parlare in modo chiaro e senza annoiare, non esclude l'uso di un buon metodo storico, né dovrebbe esporre al rischio di disabituare gli studenti (o non abituarli affatto) ai pensieri complessi. Nella Storia, sta imparando mio fratello di undici anni, c'è un bianco e un nero. Il male ha le forme dell'invasione, della guerra di conquista, della rottura di una tradizione più antica (la nostra): ma può essere sconfitto, assorbito, convertito. L'esercito persiano invase quel mondo greco da cui si vuol far direttamente derivare la nostra cultura e la nostra democrazia, ma non prevalse; i barbari sono passati alla civiltà quando hanno abbracciato il cristianesimo nella sua forma ortodossa; gli Arabi hanno smesso di essere «rozzi e semplici» quando la loro natura si è rivelata adatta «a imitare le idee, le cognizioni e le opinioni altrui» e «a fare tesoro degli insegnamenti più interessanti e complessi» dei popoli che soggiogavano ("I popolo antichi 2", pg.111). Caratterizzati da «primitiva rozzezza» sono anche i popoli unni e turchi: è stata la ferocia di questi ultimi a portare Urbano II a indire la prima Crociata, accolta con entusiasmo da quei cavalieri cristiani che inseguivano «nobili ideali di purificazione religiosa» e «nuovo fervore spirituale» (pg.214).

La silenziosa giustificazione della guerra fra civiltà mette così le sue radici nell'infanzia, viene assimilata, ingerita. Naturalmente gli studenti, facendosi adulti e magari continuando a studiare, formeranno e modificheranno spesso le loro opinioni: ma la piattaforma di partenza, la prospettiva con cui guardare al resto del mondo, il magma dei cosiddetti princìpi, tende a solidificarsi durante l'infanzia.

A chi avrà studiato su questi testi rimarrà forse, come sottofondo, la sensazione di aver ereditato dal proprio popolo un patrimonio di valori positivi trasmessi in modo continuativo nel tempo, che altre culture non hanno o non hanno ancora raggiunto (e forse persino una Scrittura sacra più seria di altre!). Per superficialità depositiamo così il seme dell'ignoranza e della presunzione: insegniamo ad essere tolleranti, vale a dire a sopportare, ma non ad allargare gli orizzonti, non ad apprezzare.

La guerra di civiltà, una brutta espressione spesso usata dai mezzi di comunicazione, è una guerra che può spostarsi molto facilmente dal piano intellettuale a quello pratico, ed è una guerra inevitabile solo perché continuiamo a coltivarla, a renderla ingrediente della nostra mentalità, a trasmetterla ed includerla in quello che pretendiamo sia il nostro vero bagaglio storico: perché fa parte dei nostri programmi scolastici.

 

 

Cecilia Palombo con questo articolo ha vinto il premio giornalistico Claudio Accardi 2010.