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I diritti, senza i doveri, perdono il loro vero senso

di Giovanni Reale - 12/01/2011

 


Immanuel Kant (1724-1804) è considerato una pietra miliare nel pensiero occidentale. La sua concezione dell’ «Io penso» è stata determinante in età moderna e contemporanea. La Scuola neokantiana di Marburg, fra l’Ottocento e il Novecento (soprattutto con Hermann Cohen e Paul Natorp, uno dei maestri di Martin Heidegger), ha avuto notevoli influssi, riproponendo Kant insieme a Platone, riletto in ottica kantiana. Ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso, nell’Università di Marburg (che ho frequentato nel 1954, 1955 e 1956), sentivo ripetere che i due pensatori che hanno raggiunto i vertici del pensiero filosofico sono Platone e Kant. Va detto, però, che la lettura di Kant è fra le più ardue, per il suo stile involuto. Ricordo che il professore che a Marburg mi insegnava il tedesco ed era uno specialista di letteratura non gradiva leggere con me opere kantiane, perché riteneva insopportabili certi lunghissimi suoi periodi zeppi di frasi incidentali, in quanto — mi diceva con significativa metafora— non aveva dita sufficienti per tenere sotto controllo quegli incisi e congiungere l’inizio con la fine del periodo. Alla base di ogni grande filosofo sta quella acutezza di pensiero con la quale vengono individuati i grandi problemi di fondo dell’uomo. Kant nella Critica della ragion pura (1781) scriveva: «Ogni interesse della mia ragione (tanto quello speculativo quanto quello pratico) si unifica nelle tre domande che seguono: 1) Che cosa posso sapere? 2) Che cosa devo fare? 3) Che cosa mi è lecito sperare?» . La risposta di Kant al primo problema (che ha avuto influssi straordinari) oggi non regge più nella sua originaria formulazione, in quanto si fondava sul modello della scienza come forma di conoscenza incontrovertibile, mentre l’epistemologia contemporanea ha capovolto quel modello. Ma non poche sue riflessioni restano valide. A parte le dettagliate critiche alla metafisica in generale, che egli riduceva a quella codificata soprattutto da Christian Wolff, resta assai stimolante ciò che ha detto sulla funzione regolativa delle tre grandi idee su cui la metafisica in tutte le sue forme ha sempre discusso: le idee di anima, di cosmo e di Dio. Di tali idee la ragione non può fare a meno, in quanto esse hanno un uso regolativo, e valgono come modelli per regolare i dati dell’esperienza e per dare loro unità. L’idea di anima ci aiuta a unificare i vari fenomeni concernenti l’uomo, come se (als ob) dipendessero da un unico principio; l’idea di cosmo ci aiuta a unificare i vari fenomeni naturali, come se (als ob) dipendessero unitariamente da principi intelligibili; l’idea di Dio ci aiuta a pensare la totalità delle cose, come se (als ob) dipendesse da una intelligenza suprema. Le idee della ragione sono dunque strutturali e ineliminabili, e di esse l’uomo non potrà mai fare a meno. Il secondo problema «che cosa devo fare?» riguarda la vita morale. E in questo ambito Kant ha espresso pensieri che rimangono irrinunciabili. In primo luogo, ha precisato che a ciò che sta al di là del fenomeno, se l’uomo non può giungere mediante la scienza (che non può conoscere se non il fenomeno), può pervenire mediante l’etica. Kant ha approfondito il senso della «legge morale » in modo esemplare, e ha mostrato come proprio mediante essa l’uomo instauri rapporti positivi con la realtà meta-fenomenica. Si può ben dire che l’etica di Kant contiene pensieri metafisici assai forti in una particolare ottica. La legge morale, e in particolare quello che egli chiama «imperativo categorico» , non riguarda le cose che si devono fare, ma l’intenzione e il modo con cui si devono fare. Si impone soprattutto la formulazione della Fondazione della metafisica dei costumi (1785): «Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre come scopo, e mai come semplice mezzo» . Molti dei mali che oggi ci opprimono potrebbero essere sanati, se l’uomo considerasse davvero la persona — in se stesso e negli altri — mai come mezzo, ma sempre come fine. Un altro concetto esemplare di Kant è quello di «dovere» , «nome grande e sublime» , in quanto esprime «ciò che innalza l’uomo al di sopra di se stesso (come parte del mondo sensibile)» , e quindi gli fa capire di appartenere non solo al mondo sensibile ma anche al soprasensibile: «Non c’è da meravigliarsi — scrive Kant — che l’uomo, in quanto appartenente a entrambi i mondi, debba considerare il proprio essere, rispetto alla sua seconda e suprema destinazione, non altrimenti che con venerazione e con il più profondo rispetto» . E l’uomo di oggi, che crede solo nei suoi «diritti» , potrebbe imparare da Kant che i diritti, se si dimenticano i «doveri» , perdono per intero il loro vero senso. E così le idee di libertà, di anima e di Dio diventano, da semplici esigenze della ragion pura, anche «postulati della ragion pratica» , che si devono ammettere per dar ragione della vita morale, e che se «non ampliano la conoscenza speculativa, danno alle Idee della ragione speculativa in generale (per mezzo del loro rapporto con i principi pratici) una realtà oggettiva, e autorizzano concetti di cui, altrimenti, non si potrebbe presumere di affermare neppure la possibilità» . Al terzo problema la risposta che dà Kant è una conseguenza logica della risposta data al secondo: è lecito sperare in una felicità, in proporzione al modo in cui ci si è resi degni di essa con la vita morale in questo mondo. A conclusione della Critica della ragion pratica (1788), Kant scrive: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me» . Di fronte all’infinità del cielo stellato, noi, come realtà fisica, siamo infinitamente piccoli. Invece «la legge morale mi rivela una vita indipendente dall’animalità, e perfino dell’intero mondo sensibile: almeno per quel che si può desumere dalla destinazione finale della mia esistenza in virtù di questa legge; la quale destinazione non è limitata alle condizioni e ai confini di questa vita, ma va all’infinito» . A giusta ragione, la frase iniziale è stata incisa anche sulla tomba di Kant, in quanto esprime in maniera emblematica la cifra spirituale del grande filosofo