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L'eclissi della dialettica e le nuove conflittualità della storia

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 12/01/2011

 
 
1. La crisi economica e politica del mondo occidentale non sembra offrire soluzioni
a breve o medio termine, perché non emergono nuovi equilibri economici e politici
che possano sostituire l’ordine mondiale instaurato dal primato americano. La
peculiarità di questa crisi è quella di un sistema liberista globale, che sopravvive
alle proprie crisi in assenza di dissenso. Nell’ambito dell’attuale quadro politico –
istituzionale liberal democratico, si verifica l’alternanza tra destra e sinistra,
nell’ambito di una perfetta continuità delle impostazioni di carattere politico ed
economico di fondo: abolizione progressiva del welfare, tali alla spesa pubblica,
privatizzazioni, riduzione della sovranità dello Stato, condivisione delle strategie
geopolitiche americane. Le opposizioni al sistema sono assai marginali e legate alle
ideologie identitarie novecentesche (fascismo, comunismo). In realtà le motivazioni
ideologiche, seppur legittime e convincenti sul piano della critica, sono legate a
condizioni storiche ormai superate, conducono cioè a soluzioni impraticabili nella
società del XXI° secolo, oltre ad essersi dimostrat e fallimentari già nel secolo
scorso per quanto concerne il superamento del sistema capitalista. Nel campo
politico e culturale le vecchie ideologie sono oggi autoreferenti, non idonee quindi a
confrontarsi con una realtà storica il cui sviluppo è ormai estraneo ad esse.
Tuttavia, la globalizzazione liberista si è affermata come fenomeno totalizzante,
anche in conseguenza della assenza di una critica interna alla stessa ideologia
liberale, che svolga una analisi critica della realtà storica attuale sulla base degli
stessi presupposti ed obiettivi della società globalizzata. Occorrerebbe quindi
considerare se l’economia globalizzata, ormai libera dagli ostacoli politici ed
ideologici, abbia prodotto sviluppo, occupazione, miglioramento delle condizioni
socio economiche delle masse. Emergerebbe allora il sostanziale regresso
economico e sociale dell’occidente, cui fa riscontro lo sfruttamento indiscriminato
delle risorse materiali ed umane del terzo mondo, oltre ai danni prodotti dal
livellamento culturale scaturito da un economicismo pervasivo che annulla ogni
identità comunitaria. Occorrerebbe inoltre considerare se la diffusione / imposizione
a livello globale dei diritti umani possa aver condotto all’espandersi delle libertà
individuali. Dall’analisi della realtà storica attuale emerge invece la abrogazione
progressiva dei diritti sociali, specialmente in materia sicurezza e stabilità del
lavoro, di assistenza e previdenza. La società liberale dovrebbe offrire maggiori
opportunità di lavoro, emancipazione sociale e ricambio continuo delle classi
dirigenti. L’attuale società liberal democratica è caratterizzata invece dalla assenza
di mobilità sociale, dalla stratificazione elitaria delle classi sociali (capitalismo
feudale).Per tornare all’Italia, gli abnormi compensi percepiti dai manager (vedi
Marchionne), vengono criticati solo dal punto di vista pseudo – etico (con annessa
demagogia fondata sull’invidia), ma non si considera (proprio dal punto di vista
liberale), quale ricaduta questi folli investimenti nel menagement possano produrre
in tema di sviluppo, crescita economica, redistribuzione del reddito. Nessuna, in
quanto l’economia finanziaria può solo produrre profitti per le élites, liquidando
strutture produttive e falcidiando l’occupazione. Il panorama politico attuale è
sconcertante: né i liberali, né le minoranze ideologiche sono in grado di analizzare
compiutamente le contraddizioni interne e, oserei dire genetiche, della
globalizzazione.
Tu affermi in conclusione: “Nè i liberali, né le minoranze ideologiche (fascisti e comunisti)
sono in grado di analizzarle compiutamente le contraddizioni interne, e oserei dire
genetiche, della globalizzazione“. Sono pienamente d’accordo, e quindi ho la strada
spianata per analizzare quanto tu suggerisci. Il minimo comun denominatore di queste tre
posizioni (liberalismo, fascismo, comunismo) sta nel fatto che tutte e tre si sono sviluppate
sul comune fondamento dell’ideologia del progresso (inevitabile accompagnamento
simbolico del passaggio storico in Europa dalla società feudale-signorile alla società
borghese capitalista) e sul dato della sovranità monetaria dello stato nazionale moderno,
con conseguente almeno parziale sovranità della politica sull’economia (presupposto della
dicotomia funzionale Destra/Sinistra e della politica economica governativa indipendente,
da Colbert a Keynes). Venuti meno questi due presupposti, tutte e tre le posizioni perdono
ogni fondamento, e devono essere reimposte artificialmente e fragilmente dai tre apparati
ideologici della riproduzione capitalistica globalizzata (ceto politico, circo mediatico e clero
universitario-il primo è il più squallido e corrompibile, il secondo è il più sfacciato e
cialtrone, il terzo è il più presuntuoso ed arrogante). Ognuna di esse, però, presenta
patologie differenziate.
II liberalismo moderno si è costruito sulla base del fondamento della sovranità
dell’individuo moderno, e cioè di un individuo programmaticamente separato
(“robinsoniano”, diceva correttamente Marx) dalle comunità precedenti, a loro volta molto
differenziate geograficamente (feudali e signorili in Europa e Giappone, dispoticogerarchiche
in Cina ed India, comunistico-primitive in Africa, eccetera). La sovranità
economica presupponeva ovviamente una sovranità politica (stato rappresentativo
costituzionale) ed una sovranità religiosa e filosofica (tolleranza religiosa, autonomia del
dibattito filosofico dal controllo chiesastico, eccetera). Questo non solo non coincideva con
la democrazia (sovranità popolare, suffragio universale, partiti politici, eccetera), ma anzi
la escludeva espressamente. Solo quando le grandi masse furono neutralizzate ed
incorporate nella riproduzione capitalistica la “democrazia” poté essere concessa. Si usa
dire nei libri di storia che la democrazia non fu mai “concessa”, ma fu ottenuta con terribili
lotte. Non sono d’accordo. Senza rivoluzioni, il capitalismo nella sua ferrea logica
riproduttiva non concede nulla, di là di quanto può funzionalizzare e rendere innocuo e
compatibile.
Mano a mano che la sovranità originaria dell’individuo, effettivamente esistente nell’epoca
storica della prima accumulazione capitalistica e dell’espansione colonialisitica, veniva
svuotata ed annullata dall’anonimo dominio impersonale dei cosiddetti “mercati”, la nuova
divinità idolatrica che aveva sostituito la ben migliore divinità monoteistica precedente il
liberalismo sopravviveva soltanto più in modo fantasmatico in una esistenza da “zombie”
(personalmente, faccio risalire a questo fatto simbolico la centralità del vampiro
nell’immaginario giovanile e cinematografico contemporaneo). Le due fasi ideologiche
progressive di questa sopravvivenza da zombie (in mancanza della sovranità dell’
individuo) sono state prima la lotta contro le dittature totalitarie gemelle (fascismocomunismo)
e poi la lotta per imporre i cosiddetti “diritti umani”, con l’uso incrociato dei
bombardamenti, dei corpi di spedizione e delle ONG di mascalzoni e finti pacifisti. Ma su
questo mi soffermerò maggiormente nella prossima risposta. Per ora basta ed avanza
quello che ho rilevato sullo svuotamento integrale del presupposto storico-sociale del
liberalismo
A proposito dell’identità fascista (che pure non è mai esistita in forma unitaria) sempre più
appare chiaro che essa è stata un “incidente di percorso” della storia del Novecento,
dovuta alla congiuntura specifica della Grande Guerra 1914-1918, e che non ha mai avuto
una vera e propria portata mondiale (non hanno infatti avuto nulla a che fare con il
“fascismo” propriamente detto le dittature latino-americane, il populismo arabo, eccetera).
Per questa ragione il successivo ed ossessivo “antifascismo in assenza integrale di
fascismo”, peste ideologica dell’Italia dopo il 1945 è sempre e soltanto stato una “ideologia
di diversione” il cui unico scopo era appunto quello di impedire, di individuare, nominare e
concettualizzare le nuove contraddizioni storiche.
Nella mia vita precedente al 1999 (guerra dalemiano-USA alla Jugoslavia) di “intellettuale
di sinistra” mi hanno ingozzato di antifascismo ossessivo come si ingozzano le oche
all’ingrasso, e per questa ragione la storiografia sul fascismo 1919-1945 mi è venuta a
noia specialmente di fronte a fenomeni immensamente più interessanti come le origini
dell’ebraismo, del cristianesimo o dell’Islam o gli affascinanti Ittiti e Sumeri. In genere si
afferma che il fascismo è stato originato dalla paura del bolscevismo e della rivoluzione
salariata, operaia e proletaria. Non nego che questo fattore possa essere anche esistito
(Italia 1922, Germania 1933, eccetera), ma lo ritengo secondario. Il fattore principale non è
però stato anti-proletario, ma anti-liberale, in quanto i ceti medi si sono spaventati di fronte
all’indebolimento dello stato rispetto al mercato mondiale (situazione peraltro vagamente
simile a quella odierna, da cui l’esorcizzazione isterica del così detto “populismo” da parte
degli apparati ideologici della globalizzazione finanziaria neoliberale). E si veda
l’importanza di personaggi come Giovanni Gentile ed Ugo Spirito, del tutto privi di odio
anti-proletario. Deve però far riflettere il fatto che ben presto il fascismo individuò il nemico
principale non nel liberalismo ma nel socialismo, e dopo il 1945 il neofascismo diventò la
polizia militare del capitalismo americano e dei suoi servizi segreti. In questo senso Fini
non è affatto un “traditore” (lasciamolo berciare a Storace o alla “vajassa” Mussolini), ma si
situa in una perfetta continuità con la scelta strategica dei dirigenti nel MSI dopo il 1945.
Sembra che lo abbiano capito tutti, al di fuori forse solo di Marco Tarchi.
Le cose sono più complesse per la terza identità, quella comunista. In Italia il fatto che
essa si sia “sciolta” all’interno del solvente antifascista è certo stato un fattore di
dissoluzione, perché l’antifascismo è sempre e soltanto un liberalismo borghesecapitalistico
di “sinistra”. Su questo punto il vecchio Amadeo Bordiga ha sempre capito
l’essenziale, a differenza di confusionari cronici come Ingrao o la Rossanda. Ha giocato un
ruolo anche la natura nichilistica dello storicismo progressistico, secondo l’insuperata
diagnosi filosofica di Augusto Del Noce. Su queste basi, il passaggio da Antonio Gramsci
a Norberto Bobbio era in effetti inevitabile. Ma il vero crollo è stato dovuto al venir meno
dei due fondamenti fallaci della filosofia comunista della storia, l’inesistente carattere
rivoluzionario inter-modale della mitica classe operaia, salariata e proletaria e l’inesistente
presunta incapacità del sistema capitalistico di sviluppare le forze produttive industriali e
sociali. Su questa base era ovviamente del tutto impossibile comprendere la natura delle
nuove contraddizioni della globalizzazione, ed era ora inevitabile che si creassero bacini
residuali di “guardie plebee” ideologizzate urlanti dei neoliberali di destra di Fini (Rauti,
Storace eccetera) e dei neoliberali di sinistra di D’Alema (Bertinotti, Vendola, eccetera).
Questa non è però più tragedia greca, ma solo teatro dei pupi siciliano.
È dunque triste, ma anche del tutto normale, che le contraddizioni interne della
globalizzazione non possano essere non dico capite, ma anche solo nominate,
verbalizzate e concettualizzate dai due ceti intellettuali parassitari degli apparati mediaticouniversitari.
In essi la componente fascista è pressoché introvabile, data la
demonizzazione del politicamente corretto, mentre la componente liberale sfiora il novanta
per cento e quella comunista il dieci per cento (giudico per così dire “a occhio”, ma forse il
rapporto è addirittura del novantotto a due, essendo molti “comunisti” di tipo vendoliano
semplici intellettuali liberali snob di sinistra).
Si illude chi pensa che si debba aspettare che una nuova teoria completa e compiuta
debba essere elaborata prima che si possa anche solo iniziare, una efficace prassi
trasformatrice rivoluzionaria. Questa teoria, se verrà (ed io sono sicuro che verrà, sulla
base non certo di inesistenti “moltitudini”, ma della mille volte più esistente natura umana
come fattore di resistenza all’alienazione), verrà “in corso d’opera”, come è del resto
sempre sistematicamente successo nella storia precedente. Sono pressoché sicuro che
elementi delle vecchie tradizioni politico-culturale di destra e di sinistra ritorneranno in
forma nuova ed anche apparentemente irriconoscibili, ma mescolati fra loro al punto di
non poterli neppure distinguere. Si illudono invero coloro che pensano di poter “rilanciare”
il liberalismo, “riproporre” il fascismo o “rifondare” il comunismo. La verità filosofica è
eterna, ma la sua ricaduta ideologica- sociale è sempre solo temporanea e congiurale.
La sola cosa sicura che possiamo dire della globalizzazione è che essa è un nemico
irriducibile. Troppo poco per poter fondare una teoria positiva su di una semplice
negazione. Assicuro il lettore critico e sospettoso di esserne perfettamente consapevole.
Ma senza un No preliminare ed originario non è neppure possibile dire i numerosissimi Sì
che dovremo dire. Soltanto i Sì peraltro, sono in grado di articolare e concretizzare una
tattica ed una strategia. Questi Sì tardano dolorosamente a farsi strada, e non possiamo
aspettare che ci dia il via nessun profeta religioso (Gesù o Maometto) o nessun legislatore
filosofico-politico (Marx, Lenin, eccetera). A cavallo fra due epoche storiche, la nostra
generazione è arrivata troppo tardi per vivere le vecchie contraddizioni, e troppo presto per
vivere quelle nuove. Di qui deriva la sensazione di smarrimento e confusione che ci
circonda, ed in cui siamo noi stessi immersi e cui non possiamo purtroppo sottrarci.
2. La globalizzazione ha determinato profondi mutamenti culturali, anche in virtù del
progresso tecnologico, che ha diffuso il cosmopolitismo, l’omologazione
generalizzata al sistema economico e politico occidentale, consumismo di massa. I
bisogni e la cultura dell’individualismo si sono imposti a discapito delle ideologie
comunitarie. L’individuo dunque, secondo la vulgata globalista, arbitro assoluto del
proprio destino. L’individualismo abbisogna dunque di tutele giuridiche a sostegno
del singolo individuo come elemento a se stante, estraneo alla comunità in cui vive.
Anche il suo diritto al dissenso allora, rimane comunque garantito nella sfera
individuale, suscettibile di condivisione nell’ambito di tanti individualismi
convergenti, ma in ogni caso riconosciuto in quanto pertinente all’individuo. In
realtà, l’assenza di dissenso odierno ha la sua origine proprio nella misconosciuta
natura sociale dell’uomo. E’ infatti nel rapporto sociale tra individui appartenenti
alla stessa società in un dato periodo storico, che si creano e si rafforzano identità
sociali differenziate, in funzione di interessi comuni, di istanze culturali, di una
visione complessiva della struttura della società attuale. La riproduzione sociale
può generarsi solo nell’ambito comunitario, in un ambito in cui prevale cioè un bene
comune non identificabile con gli individui. Oggi, in questa struttura societaria
antisociale, è impensabile il configurarsi di blocchi sociali contrapposti, data la
frammentazione atomistica scaturita dall’individualismo. L’affermazione univoca dei
diritti individuali e la proliferazione di leggi a loro tutela, ha portato al diffondersi di
una conflittualità esasperata tra individui, a danno di quella solidarietà sociale
costitutiva dell’identità comunitaria. Inoltre, i meccanismi attuativi della tutela
individuale, hanno prodotto tecniche di controllo sociale tipiche di una società
totalitaria. La protesta è oggi limitata a motivi “etici”, quali i diritti civili, il pacifismo,
il femminismo, l’omosessualità: la libertà individuale è intesa come proprietà
esclusiva della propria vita. L’attuale dissenso quindi, svolge una funzione di
legittimazione etica dell’ordinamento liberal capitalista. In questa ottica, è il
dissenso stesso ad offrire al sistema nuove prospettive di dominio totalizzante.
Durante la sanguinosa guerra civile americana (1861-1865) non era sempre possibile
rinchiudere subito i prigionieri dietro palizzate protette. Veniva allora tracciata sul terreno
una linea la deadline (linea della morte), per cui se un prigioniero la sorpassava veniva
ucciso immediatamente. Il teatro culturale del nostro tempo può essere interpretato con
l’aiuto della metafora della deadline. È possibile dire quasi tutto in nome del principio
liberale della libertà d’espressione, ma soltanto all’interno di un preventivo Giuramento di
Fedeltà Occidentalistico (in acronimo GFO). Questo giuramento di fedeltà occidentalistico
ha molte componenti, ma qui per brevità ne segnalo soltanto tre: la religione olocaustica di
espiazione illimitata dell’Europa in cui un ingiustificabile male relativo a coloro che lo
hanno compiuto viene definito Male Assoluto, ed in questo modo sottratto a qualsiasi
valutazione ed interpretazione storiografica alternativa (a differenza di Hiroshima, del
genocidio degli armeni, eccetera); la condanna senza appello di tutte le dittature, sia pur
distinte in dittature con attenuanti (Cuba, Venezuela, Cina eccetera) ed in dittature
assolute senza attenuanti (Corea del Nord, Iran, Myanmar, eccetera) ove la concessione o
meno di attenuanti è fluttuante, perchè è patrimonio arbitrario dell’impero USA, sacerdote
della religione occidentalistica infine la religione dei Diritti Umani, nuova teologia idolatrica
che ha sostituito i vecchi monoteismi prescrittivi del tempo della morale borghese. Chi
rifiuta il giuramento di fedeltà Occidentalistico non viene più ucciso (come ai tempi
pittoreschi dei roghi medioevali o delle prigioni staliniane), ma viene escluso dalla
comunicazione del genere umano politicamente corretto, come se avesse sorpassato una
invisibile deadline. Chi scrive l’ha sorpassata da tempo. Continua a far parte del genere
umano, ma non più della comunità intellettuale legittima politicamente corretta, non
importa se cattolica o atea, religiosa o laica, di centro, di destra o di sinistra di sopra o di
sotto. Qui, sotto lo stimolo della tua seconda domanda a proposito dell’individualismo
prenderò in esame soltanto l’ideologia dei cosiddetti Diritti Umani. Per far capire subito
quello che ne penso, dirò che si tratta dell’equivalente moderno (o più esattamente postmoderno)
del rogo degli eretici o dell’ ideologia hitleriana della razza. Mi rendo conto che
tutto questo suona paradossale ed estremistico. Ma siccome lo penso veramente, sono
costretto a spiegarne sommariamente le ragioni.
Quando ci si trova di fronte ad un paradosso dialettico, è necessaria una ricostruzione
storica chiarificatrice. Ed il paradosso dialettico sta in ciò, che una filosofia originariamente
nobile ed umanistica come quella dei Diritti Naturali dell’Uomo in quanto tale (e non solo in
quanto ateniese, spartano o persiano) è stata trasformata nel suo contrario, cioè nella
ripugnante ideologia della generalizzazione dei cosiddetti Diritti umani, evidente involucro
antropologico-sociale dell’Individuo omogeneizzato alla riproduzione della globalizzazione
capitalistica di oggi. È allora necessaria una sommaria ricostruzione storica, in cui
cercherò di ridurre al minimo tutti i tecnicismi filosofici specialistici.
Nel mondo greco, matrice quasi esclusiva del mondo occidentale in cui viviamo, in
assenza di una religione monoteistica rivelata in libri sacri da profeti fondatori, il riferimento
alla natura come codice normativo della riproduzione della comunità era pressoché
obbligato, e derivava da una “fessurazione” della precedente unità indistinguibile di
macrocosmo naturale e di microcosmo umano-sociale. In assenza di qualsiasi filosofia
della storia universale del genere umano (inevitabilmente derivata da una teodicea
monoteistica o da una sua successiva secolarizzazione razionalistica) il riferimento
normativo alla natura era inevitabile per cui la “natura” aveva un carattere insieme
ontologico ed assiologico (e cioè etico e morale), che rendeva del tutto impensabile, ed
addirittura inimmaginabile, la successiva distinzione illuministica kantiana fra categorie
dell’essere e categorie del pensiero. La natura normativa del concetto di natura faceva sì
che i primi filosofi (impropriamente definiti, “presocratici”) erano necessariamente
legislatori comunitari “ideali”, che potevano legittimarsi come “credibili” di fronte ai loro
concittadini soltanto presentandosi come autorevoli interpreti della natura stessa (ed ecco
perchè, da Talete ad Anassimandro, da Eraclito a Parmenide, eccetera, erano sempre
invariabilmente autori di poemi sulla natura, perì physeos). La natura non era interrogata
primariamente come oggetto astronomico, fisico, chimico e biologico (come credono gli
ingenui, fuorviati e mal guidati studenti liceali), ma come modello normativo da “trasporre”
metaforicamente (e del resto “metafora” significa in greco trasporto) nella legislazione
sociale.
In quella prima fase la “natura dell’uomo” era quindi coincidente con la sua natura sociale,
politica e comunitaria, ed era a tutti chiaro che l’individuo isolato dell’attuale capitalismo
non poteva esistere, e l’uomo isolato veniva connotato come una bestia o come un Dio. Lo
stesso Socrate, del tutto ancora interno a questo mondo comunitario, individua l’oggetto
esclusiva della filosofia nel detto delfico “conosci te stesso” (gnothi s’eau tòn), da
intendere non nel senso psicologico- individualistico, ma nel senso della conoscenza
dell’individuo come essere comunitario.
Nella successiva epoca ellenistico-romana la perdita della sovranità e della precedente
comunità politica (polis) rese impossibile anche la stessa distinzione fra la normale
“economia” intesa come riproduzione giusta ed ordinata e la “crematistica” intesa come
tecnica dell’arricchimento individuale. Occorre far notare che, sul piano dell’analogia
storica, la perdita di sovranità politica della comunità antica presentava aspetti simili alla
perdita di sovranità politico-monetaria dello stato nazionale moderno prima della attuale
globalizzazione, per cui l’età ellenistico-romana può proficuamente essere pensata come
una sorta di proto-globalizzazione. Questo comporta necessariamente la produzione di un
nuovo individuo astrattizzato, e astrattizzato in quanto privato della “concretizzazione”
derivata dal suo precedente inserimento in una comunità. Ma il pensiero ellenistico, a
differenza dell’attuale e degenerato pensiero postmoderno, manteneva ancora un rapporto
con il concetto di natura come dato normativo sulla cui base pensare anche la condizione
umana. Mentre il pensiero epicureo prendeva atto della fine della sovranità comunitaria
della politica ripiegando in una sorta di comunità protetta in un giardino di amici, il pensiero
stoico coniava per la prima volta il concetto di Diritti Umani dell’uomo inteso in senso
cosmopolitico come cittadino “astratto” del mondo senza confini e senza frontiere. Quanto
questo universalismo sia poi passato al successivo cristianesimo è oggetto di discussione.
A mio avviso molto. Se il cristianesimo fosse soltanto l’universalizzazione del monoteismo
messianico ebraico rivelato non avrei per esso che disprezzo ed indifferenza, e
condividerei l’opinione di chi (Assman, de Benoist, eccetera) vi vede la radice della
violenza e dell’intolleranza. Ma siccome ci vedo invece la prevalente natura di ricezione
dell’umanesimo universalistico greco non posso fare a meno di nutrire per esso una certa
simpatia (sia pure da non credente in nessun mondo ultraterreno), e per questo considero
Ratzinger immensamente superiore non solo alla coppia sionista spiritata Bonino-Pannella
ma anche ai disincantati atei positivisti Turchetto-Odifreddi.
Ma facciamola corta. I successivi Diritti dell’uomo della rivoluzione francese del 1789
derivano ancora dalla precedente filosofia giusnaturalistica del Diritto Naturale, e pertanto
mantengono ancora un rapporto, sia pur tenue, con il fondamento greco della natura
umana come riflesso razionalizzato del presupposto dell’unità ontologica, e quindi anche e
soprattutto assiologica, di macrocosmo naturale e di microcosmo sociale. Ma nel
Settecento la nozione di natura umana viene reinterpretata da Hume e Smith non più
come base normativa per il Bene Comune (da Hume considerata in termini di metafisica
illusoria del tutto indimostrabile, per gli scettici l’unica realtà che sfugge allo scetticismo è il
“dato” della proprietà privata e dello scambio capitalistico delle merci). Ma come attitudine
“naturale” degli esseri umani alla proprietà ed allo scambio, che in quanto tale è
perfettamente autonoma ed autofondata, e non ha bisogno quindi di nessun fondamento
religioso (esistenza di Dio), filosofico (riferimento ai diritti naturali dell’uomo) o politico
(contratto sociale).
E’ allora necessario impadronirsi concettualmente in modo sicuro della natura di questo
passaggio dalla benefica filosofia dei diritti naturali dell’uomo (supporto teorico del Bene
Comune comunitario) alla malefica ideologia dei cosiddetti “diritti dell’uomo”, in cui
propriamente l’Uomo non c’è più, ed è fatto sparire con la sua riduzione a supporto
(Träger) ed a “maschera di carattere” (Charaktermaske) di semplice portatore
indifferenziato dei rapporti di produzione e di scambio capitalistici. E’ questo l’uomo, che
sta alla base dei cosiddetti Diritti Umani. Il carattere più sporco ed intollerabile di questa
sudicia ideologia di esportazione imperialistica sta proprio nella natura nobile della sua
lontana origine, e la mia indignazione contro questa porcheria è simile all’indignazione che
un vero cristiano priverebbe se vedesse la croce di Cristo essere usata come diretto
strumento di tortura per estorcere informazioni su di un tesoro nascosto.
Appare allora chiaro ciò che tu stesso avevi rilavato nella prima domanda, per cui l’agitare
ideologico scomposto dei diritti umani come diritti del potenziale produttore-consumatore
capitalistico globalizzato non si pone affatto come aggiuntivo e complementare
all’espansione progressiva dei diritti sociali e comunitari, ma anzi all’opposto si pone come
vettore attivo della loro abrogazione. In sintesi, la sporca ideologia dei Diritti Umani, lungi
dall’essere la benefica concretizzazione della nobile filosofia greca e poi cristiana dei diritti
naturali dell’uomo (e ciò che c’è di buono nel pensiero di Ratzinger è frutto esclusivo del
riferimento, greco ed aristotelico, non certo del biblismo confindustriale di monsignor
Ravasi e della pagina culturale domenicale del “Sole 24 Ore”), è solo, la protesi
sovrastrutturale imperialistica dell’impero USA come unica forma di vita legittima da
imporre a tutto in pianeta.
Pensiamo alle motivazioni con cui e stato assegnato il premio Nobel per la pace del 2010
al dissidente cinese Liu Xiao Bo. Il gran capo indiano della tribù USA Obama e gli
intellettuali scandinavi servi di Oslo lo hanno premiato in quanto portatore e testimone di
“valori universali”. Ora, il termine “universale” è molto impegnativo. Io stesso sono un
fautore dell’universalismo processuale dell’umanità, in quanto avversario del moderno
codice teorico post-moderno, frutto di una sintesi di storicismo, sociologismo, relativismo
e nichilismo. Ma l’Universale, se esiste (in forma ratzingeriana, spinoziana, hegeliana,
marxiana e addirittura previana), è una cosa seria e non può essere subordinato agli
interessi di una superpotenza cannibalica che ha cosparso il mondo di basi nucleari (che
nella storia, ha già usato due bombe atomiche a soli tre giorni di distanza). Bene, il signor
Liu Xiao Bo (di cui non auspico affatto la punizione-personalmente, non godo mai del
dolore di altri esseri umani) ha scritto un documento (politico e non filosofico) in cui
auspica il trapianto in Cina di un sistema politico di tipo americano. Il suo primo effetto
sarebbe (ormai, dopo il 1989 lo sappiamo bene) la perdita di ogni sovranità politica dello
stato cinese sull’economia, e pertanto l’ulteriore approfondimento (in Cina già scandaloso,
per cui non mi faccio raccontare favole alla Domenico Losurdo sulla natura socialista della
Cina di oggi) della forbice fra ricchi e poveri. Vuole questo il signor Liu Xiao Bo? Non lo so,
non lo conosco personalmente. Ma siccome so invece che cosa accadrebbe se le sue
oscene proposte politiche venissero accettate, so invece che i suoi “diritti umani” si
accompagnerebbero all’ulteriore erosione di quanto resta dei diritti sociali in Cina. Oggi
sappiamo, dove ha portato il berciare apparentemente “umanistico” dei Sacharov, dei
Walesa e degli Havel. Ci vuole il dominio del momento politico su quella economico. I
sostenitori dei diritti umani vogliono il contrario. Possono tenersi il loro falso
“universalismo”. Si tratta dell’universalizzazione del capitalismo finanziario globalizzato.
Non ci caschiamo più.