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Nella gabbia delle autocrazie

di Roberto Zavaglia - 16/01/2011

 

 

Sul piano della crescita del Pil, l’indicatore con cui l’ideologia occidentalista misura la salute di un Paese, Tunisia e Algeria se la passano piuttosto bene. L’incremento medio degli ultimi cinque anni in Tunisia è stato del 3,5, mentre l’Algeria, nel 2010, è cresciuta del 4%. Molti economisti resteranno dunque stupefatti nel leggere delle rivolte “per il pane” che sono in corso nei due Stati magrebini. Ma il feticcio del Pil molto spesso impedisce di vedere la realtà. Dovremmo forse pensare che l’Angola e il Niger, che sono ai primi posti della classifica di crescita del decennio, rispettivamente con un + 11,1%  e un + 8,9 % all’anno, sono nazioni in cui esiste un benessere diffuso? In realtà, i “successi” dell’Angola derivano dallo sfruttamento del petrolio, di cui i cittadini beneficiano solo minimamente, quelli del miserrimo Niger sono attribuibili alle risorse di uranio di cui si occupa la Areva. La grande azienda nucleare francese, tra l’altro, avrebbe provocato, nello scorso dicembre, un disastro ecologico (200mila litri di fanghi radioattivi nell’ambiente, secondo le denunce delle associazioni ambientaliste) di cui non si trova traccia nella stampa. Ma questa è un’altra storia…

  La storia delle sommosse popolari in Algeria e Marocco ha, invece, alcuni elementi in comune tra le due nazioni, ma anche un retroterra sociale piuttosto diversificato. La guerra fra lo Stato e gli islamisti del Gia, che si combatté soprattutto fra il 1992 e il 1997, provocando oltre 100mila morti, ha causato un terribile shock nella società civile algerina, la quale fatica a rialzarsi anche perché non è del tutto scomparso il pericolo del terrorismo jihadista, portato avanti, adesso, da piccoli gruppi armati più o meno legati ad Al Qaeda. Dal punto di vista economico, il Paese si regge, quasi esclusivamente, sulle risorse di idrocarburi, soprattutto gas. Non è mai stato, infatti, messo in atto un tentativo serio di diversificazione a cui potessero partecipare grandi o piccole aziende private.

  Il reddito medio dei cittadini tunisini è migliore rispetto a quello dello Stato confinante, ma la distribuzione della ricchezza è enormemente diseguale. L’economia appare più dinamica, anche grazie agli 8 milioni di turisti all’anno, e il numero di diplomati e laureati risulta soddisfacente almeno rispetto agli standard dell’area geografica. La “svolta liberista” impressa da Ben Ali, che si impadronì della presidenza con un golpe incruento nel 1987, estromettendo l’anziano “padre della patria” Burghiba, ha finito con l’arricchire soprattutto quella piccola parte della popolazione legata da stretti rapporti al regime. L’opera di privatizzazione delle aziende statali è stata inquinata dal nepotismo e dalla corruzione, nel mentre venivano accentuandosi le differenze economiche tra la fascia costiera e le regioni interne, da cui, infatti, è partita la scintilla della rivolta, ora estesasi anche alla capitale.

  In entrambi i Paesi, il mercato del lavoro è di difficile accesso e sul merito prevalgono le raccomandazioni politiche e le tangenti. Ne soffrono in particolare i giovani che, come in tutto il Nord Africa, sono la grande maggioranza della popolazione. La disoccupazione, soprattutto giovanile, è altissima e ciò è particolarmente frustrante per i ragazzi tunisini che, spesso, con un diploma o addirittura una laurea in tasca, sono costretti ad accettare i lavori più modesti per sopravvivere. In questa fase, la rivolta tunisina pare avere un carattere più politico, esprimendo una fortissima insofferenza verso il regime e forse è anche per questo che le forze di sicurezza di Ben Ali hanno usato una mano ancora più pesante dei loro colleghi d’oltre confine. Il rincaro dei generi alimentari di base è stato il motivo comune dei primi moti di piazza in entrambi i Paesi e in Algeria, almeno per il momento, la protesta resta soprattutto di carattere “sociale”.  Non bisogna comunque dimenticare che fu proprio la sanguinosa repressione delle lotte sociali del 1988 a screditare definitivamente il regime del Fln, il partito della lotta anticoloniale, e a provocare l’ascesa del Fronte islamico di salvezza (Fis) con le drammatiche vicende che sono seguite.

  I due Paesi magrebini, sia pure con alcune diversità, rappresentano uno dei molti esempi del fallimento dei regimi politici arabi post-coloniali di stampo laico. Da decenni, le classi dirigenti sono sorde alle esigenze dei cittadini, preferendo fare sfoggio di una retorica che, di volta in volta, è stata nazionalista, socialista, terzomondista, ma, in tutti i casi, è servita soprattutto a difendere i privilegi del potere e a impedire il ricambio politico. Basi pensare che, dalla sua indipendenza ad oggi, la Tunisia ha avuto solo due presidenti e quello attuale governa da 24 anni. Le cose non vanno molto diversamente in altri Paesi del Nord Africa come la Libia o l’Egitto. In questa regione si perde il potere solo con un golpe o in seguito a una guerra civile, mai con un normale passaggio delle consegne.

  La Tunisia di Ben Ali e l’Algeria di Bouteflika sono “democrazie apparenti” dove, ogni tanto, si svolgono elezioni nelle quali nessuno crede veramente poiché tutti conoscono in anticipo il risultato In realtà, si tratta di autocrazie, nelle quali i partiti-Stato controllano quasi tutto pur non potendo più  fare affidamento, se non sul piano meramente propagandistico, a quelle motivazioni ideali che sono andate progressivamente scomparendo negli anni successivi all’indipendenza. La sola strategia politica è la perpetuazione del potere, al di là di effimeri cambiamenti di facciata. Per rimanere in sella, i due regimi, come si vede in questi giorni, sono disposti a scatenare repressioni sanguinose.  La realtà di tutti i giorni, invece, è costituita dalla censura dell’informazione e dal soffocamento delle libertà politiche. La macchina della “sicurezza”, ciclicamente, attenua la pressione quando i regimi si sentono più saldi, ma poi riparte a tutta forza se si presentano “minacce politiche”. La rabbia e la volontà di cambiamento delle popolazioni devono essere veramente al culmine se, oggi, le forze di polizia non riescono più a prevenire le manifestazioni di protesta.

  Tornando ai dati econometrici, va sottolineato come i due Paesi magrebini rappresentino l’esempio  di una crescita robusta che non genera né lavoro né sviluppo sociale. L’Algeria, da un certo punto di vista, è ancora legata a un’economia di tipo coloniale (vendita delle risorse naturali agli Stati più sviluppati), anche se l’elevata rendita energetica garantisce forti introiti. Quello che manca a entrambi i Paesi, sia pure in misura diversa, è una ridistribuzione della ricchezza che non sia vincolata al circuito gestito dai regimi al potere. Nonostante questa assenza di libertà, anche di carattere economico, l’Occidente, difensore dei diritti umani a fasi alterne, non ha critiche da muovere. Il problema, si sostiene, è che non si possono indebolire gli autocrati al potere perché la sola alternativa sarebbe il trionfo dell’islamismo più radicale.

  A parte il fatto che una considerazione di questo genere andrebbe verificata nazione per nazione,  non si può difendere ad oltranza la stabilità di Paesi “amici” governati in modo tanto indecoroso. Le rivolte di questi giorni e la difficile successione a Mubarak in Egitto, quest’ultima con conseguenze potenziali anche più dirompenti, segnalano l’esigenza ineludibile di un ricambio politico e di nuove e migliori classi dirigenti per molti Paesi arabi. Il mantenimento dello status quo esaspererebbe la situazione e, alla lunga, potrebbe rivelarsi un danno anche per tutti gli altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.