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Il nuovo ambientalismo e il bene comune del territorio

di Piero Bevilacqua - 17/01/2011




L'articolo di Asor Rosa sul Manifesto del 17 novembre merita non solo di essere
ripreso, ma dovrebbe dare avvio a una discussione generale che ponga al centro i
caratteri del nuovo ambientalismo e i problemi generali del territorio italiano. Quello
che Asor Rosa definisce nuovo ambientalismo è l'arcipelago frastagliato dei comitati e
movimenti che in tutti questi anni sono nati a livello locale per contrastare iniziative,
centralistiche per lo più ( ma non solo) mirate, ad esempio, alla privatizzazione
dell'acqua, o destinate a sconvolgere gli assetti ambientali di vaste aree, o a minacciare
la salute degli abitanti. Di queste centinaia di esperienze – che qui non si possono
enumerare – credo che il nuovo evocato da Asor Rosa consista essenzialmente in due
fenomeni tra loro intrecciati. Il primo attiene alla modalità delle lotte e alla loro
organizzazione. In quasi tutti i comitati di cui parliamo – da quello contro la centrale a
carbone di Civitavecchia alla “comunità” No-Tav della Val di Susa, per intenderci – il
movimento, nato dal basso, da gruppi di cittadini e associazioni, si è organizzato in
forme di democrazia deliberativa che hanno inaugurato un modo originale di fare
politica.Presidi territoriali in cui i cittadini sono diventati attori autonomi di una
prolungata resistenza. Su questo punto, io credo, qualcuno dei protagonisti dovrebbe
intervenire e dar conto di successi e problemi. La seconda novità consiste nel ruolo che
competenze scientifiche, spesso di alto livello, hanno svolto nell'individuare le
minacce ambientali ed anche , spesso, nell'indicare soluzioni alternative possibili.
Queste competenze, che si sono messe al servizio dei cittadini organizzati,
rappresentano una forma nuova di rapporto tra sapere e politica, tra professioni e
democrazia, che meriterebbero una focalizzazione meno occasionale di quanto non si
sia fatto. Ma il nuovo ambientalismo, dovrebbe anche caratterizzarsi per qualcos'altro.
A mio avviso, dovrebbe oggi fornire una dimensione nazionale alle esperienze e
modalità locali e al tempo stesso farsi promotore di un progetto generale di un nuovo
modo di utilizzare e vivere nel territorio italiano.
Partiamo dalla configurazione fisica della nostra Penisola. Se noi escludiamo le Alpi,
possiamo osservare che la gran parte del territorio abitato è costituito da aree altamente
instabili. La Pianura padana è l'enorme catino in cui confluisce la moltitudine dei fiumi
alpini, formando il più complesso e intricato sistema idrografico d'Europa. L'ordine di
questa pianura è il risultato di opere secolari di bonifiche e regimazioni delle acque da
parte delle popolazioni. <<Un immenso deposito di fatiche >>, la definiva Cattaneo,
ora densamente abitata e gremita di costruzioni. Quest'area, dove è insediata tanta parte
della nostra economia, non è assolutamente al sicuro dai fenomeni atmosferici estremi
che ci attendono nei prossimi anni. Com' è noto, stagioni di grande caldo e siccità ed
altre fredde o intensamente piovose sono destinate a scandire l'ordine metereologico
del nostro incerto avvenire. In Pianura padana ci sono vaste aree sotto il livello del
mare, che vengono tenute artificialmente asciutte grazie all'opera di gigantesche
macchine idrovore. Il Po, nonostante il saccheggio delle sue acque, ha mostrato negli
ultimi anni le esondazioni di cui è capace sotto l'azione di piogge intense. E abbiamo
appena visto di che cosa sono capaci anche fiumi minori, come il Bacchiglione.
Ma se noi osserviamo l'intero stivale cogliamo un' altra caratteristica saliente del
nostro paesaggio fisico. Una ininterrotta dorsale montuosa, l'Appennino, attraversa
l'Italia e continua anche in Sicilia.
Come ben sapevano già ingegneri idraulici dell'800, l'Appennino è la chiave di volta
dell'equilibrio dell'Italia peninsulare. Le acque e i potenti fenomeni che modellano
continuamente i due versanti, tendono a trascinare materiali a valle e ad interrare le
aree sottostanti. In una parola, l'Appennino e le alture pedemontane tendono a franare
per necessità naturale. Non a caso almeno il 45% dei comuni italiani risulta interessato
da fenomeni franosi di varia gravità. Orbene, tale discesa verso valle è stata per secoli
controllata e filtrata dall'opera delle popolazioni contadine. Queste oggi sono
scomparse. Ma nel frattempo ben oltre il 66% della popolazione italiana si è insediata
lungo la fascia costiera dello stivale. E qui si concentrano non solo gli abitati, ma le
attività produttive, le infrastrutture, i servizi.
Ebbene, è evidente che all'interno di un territorio di così singolare e complessa
fragilità, negli ultimi decenni gli italiani hanno operato - con le loro scelte
localizzative, con le loro costruzioni, con gli abbandoni delle aree interne – per creare
una condizione futura di altissimo rischio e di certissimo danno. Tutto è stato fatto in
modo che in condizione di prolungata piovosità, nel catino della Valle padana o ai
margini collinari e pianeggianti dell'Appennino, l'acqua possa produrre alluvioni e
frane di eccezionale gravità. Si è operato cioé perché la ricchezza accumulata in
decenni di fatica e di investimenti possa essere distrutta in pochi giorni per effetto di
eventi eccezionali che si prevedono sempre più frequenti. Così, anche nell'impronta
antropica sul nostro territorio, è possibile vedere gli esiti che la libertà sbandierata da
un ceto politico famelico e privo di qualunque cultura hanno predisposto per il
presente e per l'avvenire dei nostri figli.
Ora, solo avendo bene in mente questo quadro, si può comprendere come, in Italia, la
cementificazione di un solo metro quadrato costituisca oggi la sottrazione di un bene
comune raro e rappresenti la predisposizione di un danno certo. Il territorio verde,
capace di assorbire l'acqua meteorica, dovrebbe costituire agli occhi di tutti gli italiani
una risorsa preziosa, da difendere con ogni mezzo, per conservare la ricchezza
nazionale storicamente insediata nel territorio. Ma sappiamo che tali perorazioni,
sempre necessarie, sortiscono, tuttavia, flebili effetti.
Ciò che oggi il nuovo ambientalismo dovrebbe mostrare è che i territori interni oggi
abbandonati, costituiscono aree per la diffusione di nuove economie. Non sono una
diseconomia nell'età trionfante dello sviluppo. Nelle colline interne possono risorgere
le agricolture tradizionali, le policolture di un tempo, che vantavano una biodiversità
agricola ( soprattutto di frutta) senza pari in Europa e forse nel mondo. Oggi
potrebbero dar vita a produzioni di altissima qualità. Qui è possibile riprendere o
sviluppare la selvicultura, producendo legname di pregio, utilizzare in modi
ecologiamente compatibili, quantità immense di biomassa. Chi si ricorda, poi, che
queste aree sono ricche di acqua, che possono dar luogo a svariate forme d'uso? E
quanti allevamenti, ad esempio avicoli, si possono realizzare, bandendo le forme
intensive convenzionali? Non dimentichiamo che il paesaggio ereditato dal passato, e
che vogliamo difendere, è stato creato esattamente da forme consimili di attività
produttive e uso del territorio.I bassi valori fondiari di queste aree consentono inoltre la
possibilità di rimettere in sesto grandi dimore padronali, spesso in abbandono, e farne
sedi di ricerca scientifica, ostelli per la nostra gioventù. Ed ovviamente un diverso e
meno consumistico turismo potrebbe fare scoprire i mille « tesori sconosciuti>> del
nostro Appennino.
Io credo che occorrerebbe lavorare con i sindaci, le comunità montane, il sindacato, i
nostri giovani, le associazioni di extracomunitari per ricreare queste nuove economie.
Gli extracomunitari che oggi vengono cacciati e perseguitati potrebbero fornire un
contributo prezioso alla rinascita di queste terre. E il movimento dei comitati potrebbe
più operosamente cooperare con altre forze oggi in campo, da Slow Food alla
Coldiretti. A tale scopo, ovviamente, è necessario intervenire tanto a livello locale
quanto nazionale ed europeo. E' ora di finirla, e per sempre, con la teoria neoliberista,
finita negl'ignominia di una crisi senza sbocchi, secondo cui lo stato deve limitarsi ad
arbitrare le regole del gioco. Lo stato, parte del gioco, deve piegare le regole a
vantaggio del bene comune. Il libero mercato porta a rendere convenientissimo
trasformare i terreni agricoli in abitazioni o centri commerciali. Ma per per la
generalità dei cittadini italiani tale convenienza costituisce una perdita netta e
drammatica, opera per il danno certo della presente e delle prossime generazioni. Qui
si vede come il mercato è vantaggio immediato e provvisorio per pochi e danno futuro
e durevole per tutti. Se lo lasciamo alla sua « libertà>> nel giro di un ventennio non
avremo più suoli agricoli. E qui si dovrà combattere una battaglia di valore universale,
di cui l'Italia, il Bel Paese, può costituire l'avanguardia. Occorrono nuove leggi,
imposte dai cittadini, all'Italia e all'Europa, che rappresentino finalmente di nuovo
l'interesse generale, che seppelliscano per sempre l'infausta stagione di un diritto
pensato per la libertà delle merci e per gli appetiti disordinati e devastatori dei poteri
dominanti.
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