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Hereafter. La solita domanda: cosa succede dopo la morte?

di miro renzaglia - 18/01/2011

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Non ho visto il film di Clint Estwood Hereafter e, probabilmente, non andrò a vederlo. Forse è un capolavoro o forse, no: la disputa sul suo valore squisitamente cinematografico è aperta e io non mi intrometto. Ma ho letto molte recensioni meritevoli del trattamento che Nanni Moretti riserva a un noto critico nel film Caro Diario, quando va ad agitare i suoi sonni leggendogli, con cinica cattiveria, una sua recensione delirante a proposito di una pellicola coreana. Mi si obietterà: ma se non hai visto il film, come fai a giudicare le recensioni? Perché, cari miei, del film, in senso oggettivamente critico, si dice poco o niente: brevi cenni sulla trama e notiziole da comunicato stampa. Si dice molto, invece, e quasi sempre a sproposito,  dei temi che ha per contenuto: la morte, la vita dopo la morte, i possibili canali di accesso fra il nostro mondo, quello dei vivi o sedicenti tali, e l’al di là. E, allora, parliamo di questo.

Non ho visto il film – come ripeto – ma ho visto il trailer dove, fra scene di indubbio effetto spettacolare, si ascolta la domanda saliente: «Secondo te che succede quando moriamo?». Tutte le religioni, nessuna esclusa, hanno cercato di dare una risposta. Tutte valide, validissime, per chi ha fede: il Regno dei cieli, il Nirvana, il Walhalla, l’Ade… Tutte rappresentano uno sfondo immaginabile. E il problema è proprio qua: qualunque sia la rappresentazione, il risultato non può che essere umano, troppo umano. Dall’estinzione del dolore alle vallate celesti in ricompensa della nostra rettitudine terrena, fino alle fiamme dell’inferno in espiazione dei propri peccati,  non si può far altro che immaginare l’immaginabile. Eppure, per definizione, la metafisica ovvero: ciò che è al di là della fisica e delle nostre capacità sensitive di percepirla è “trascendente”. Prendiamo, per esempio, una delle prospettive più problematiche e, in qualche modo, più consolatorie che ci offre la religione cristiana: la resurrezione della carne. E’ del tutto evidente che una tale possibilità va di gran lunga oltre ogni nostra capacità di comprensione. E se provate a fare qualche obiezione a chi vi crede, tipo: a che età il nostro corpo risorgerebbe: ai nostri 10, 30 o settant’anni? e chi è nato morto? e chi ha patito sul suo corpo qualche malformazione congenita,  risorgerà con le stesse sofferenti limitazioni? e se, sì: dov’è il premio? Vi risponderà che bisogna aver fede nella parola di Dio o che questo è un mistero della fede. La fede, dunque, e solo la fede dà sostegno. Ma, considerando che la fede è un dono di Dio, chi non l’ha ricevuto che fa? Che si arrangi: il problema è suo.

E di tipi che non hanno ricevuto o hanno rifiutato il dono della fede e che, pur tuttavia, non si sono esentati dall’interrogarsi sull’indovinello della morte che la vita stessa propone, ce ne sono parecchi nella storia del pensiero. Uno è Friedrich Nietszche che passa, non senza ragione, per empio spregiatore di ogni metafisica. Eppure, eppure… Eppure, ci sono passaggi del suo scritto che aprono il varco a qualche dubbio sulla sua irriducibilità. Due su tutti: «L’arte è l’ultima possibilità metafisica dell’uomo occidentale» e «La verità è brutta: ma abbiamo l’arte per non perire a causa della verità». Vero: le citazioni risalgono alla Nascita della tragedia cioè, agli esordi  degli studi compiuti dal Grande Solitario che, in seguito, l’ebbe a riconsiderare come «menzogna». Un menzogna tuttavia necessaria perché: «Non senza profondo dolore si concede che gli artisti di tutti i tempi nei loro più alti slanci hanno elevato a una celeste trasfigurazione proprio quelle rappresentazioni che noi oggi riconosciamo false: sono i glorificatori degli errori filosofici e religiosi dell’umanità e non avrebbero potuto esserlo senza credere alla verità assoluta di essi. Se si toglie la fede in tale verità, se sbiadiscono le tinte dell’arcobaleno ai confini estremi dell’umano conoscere e vaneggiare, è impossibile che rifiorisca un’arte che – come la Divina Commedia, come i quadri di Raffaello, come gli affreschi di Michelangelo, come le cattedrali gotiche – suppone un significato degli oggetti artistici non soltanto cosmico ma metafisico» (Umano, troppo umano). E’ un’amara concessione quella che Nietzsche fa all’arte e, ciononostante, non può esimersi dal farla. E’ l’uomo che ha bisogno di non rinchiudersi nella sua finitudine che inventa l’arte: «Se non avessimo consentito alle arti ed escogitato questa specie di culto del non vero, la cognizione dell’universale non verità e menzogna che ci è oggi fornita dalla scienza – il riconoscimento dell’illusione e dell’errore come condizioni dell’esistenza conoscitiva e sensibile – non sarebbe affatto sopportabile. Le conseguenze dell’onestà sarebbero la nausea e il suicidio». Uscita dalla porta della religione, dunque, l’al di là rientrerebbe dalla finestra dell’arte? Niente affatto: «Il paradiso è una dimensione del cuore», dirà ancora Nietzsche. E’ solo lì, nel triangolo pulsante di questo girovita, che si può cogliere, magari solo per un attimo, quella dimensione che non ha parole per essere descritta né immagini per essere rappresentata. L’arte è una metafora che, producendo estetica, riconduce l’uomo a se stesso. In un «eterno ritorno»: punto estremo di avvicinamento del divenire all’essere.

L’etimo di “estetica”, del resto, la dice già lunga. Viene dal greco “Aistánomai” e significa “percezione, conoscenza attraverso i sensi”.  In questa ottica, è l’eros a realizzare su un altro livello la stessa opzione cognitiva che offre l’arte. Ne parlava in questi termini e con ragionevolezza già Platone nel Simposio che identificava tout court l’eros con la filosofia: amore della conoscenza dell’assoluto. Un amore che però, per lui e per i neoplatonici in seguito, aveva la metafisica come orizzonte, ovvero: l’estasi, l’abbandono del corpo e il ricongiungimento con un astratto mondo delle idee. Sarà nel Rinascimento, e segnatamente con Giordano Bruno, che la pratica erotica sostituirà la “meta” di qualsiasi Iperuranio celeste e astratto con un ben più concreto e fisico «cielo interiore».    Ovviamente non si parla, qui, di quel po’ o tanto di ginnastica fra le lenzuola che ci viene proposta in tutte le salse contemporanee. Si tratta, piuttosto, di esaltare i sensi nell’atto erotico fino a uno sconfinamento della propria individualità e, quindi, a una percezione o conoscenza dell’altro da sé. Pratica che non è esente da rischi e, non a caso, al loro riguardo, Giordano Bruno parlava di «furori eroici», dove per “eroici” si assume la doppia valenza, anche qui per approssimazione etimologica, di “eroico” ed “erotico”. E’, in un qualche modo, la “via della mano sinistra” o, per dirla con Lutero, del “pecca coraggiosamente” («pecca fortiter»), non essendo nella virtù altra conoscenza di quella ricevuta dalla fede. Ed essendo il virtuoso esposto al peccato capitale dell’orgoglio per la propria rettitudine. Sprofondare nell’abisso della carne, allora, fino a sperimentare nella «piccola morte» dell’orgasmo la morte fisica e l’uccisione dell’orgoglioso ego, schiuderà la porta d’accesso al «cielo interiore» o, se vogliamo ripetere con Nietzsche, a quel «paradiso» che è «una dimensione del cuore».

Ne potremo riferire dopo averla sperimentata? Cioè, potremo riferire quella percezione che, eventualmente, riusciremo a cogliere negli «eroici furori» del sesso? No, non si potrà. Proprio come Dante che nel XXXIII canto del Paradiso, alla vista di Dio, pronuncia: «Da quinci innanzi il mio veder fu maggio / che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede, / e cede la memoria a tanto oltraggio». A questo punto possiamo rispondere, però, alla domanda iniziale del film di Clint Estwood:  «Secondo te che succede quando moriamo?». Niente. E questo è tutto.