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Un filosofo mancato nel cuore dell’Africa, a caccia di gloria: Carl Peters

di Francesco Lamendola - 18/01/2011




Quella di Carl Peters è una vicenda paradossale, ai limiti del romanzesco e non priva di aspetti kitsch e grotteschi, oltre che truculenti.
Forse la storia dell’Africa sarebbe stata diversa, e, con essa, la storia del mondo, se un oscuro saggio filosofico apparso in Germania nel 1882, «Il mondo della volontà e la volontà del mondo» avesse attratto l’attenzione della critica e se qualcuno, per conseguenza, avesse offerto al suo altrettanto oscuro autore, un giovane inquieto di circa venticinque anni, una cattedra universitaria o, quanto meno, una conveniente sistemazione presso qualche casa editrice o qualche istituzione accademica.
Quel giovane, Carl Peters, figlio (come Nietzsche), di un pastore protestante, e che, come Schopenhauer e come Hartmann, sembrava ossessionato dal rapporto fra mondo e volontà, aveva bensì vinto, da studente, la medaglia d’oro all’Università di Berlino, ma poi non era riuscito a farsi strada nella carriera accademica, o forse si era lasciato trasportare da un’altra vena del suo carattere: quella fantastica, avventurosa e sognante, ma non dolcemente sognante, non contemplativa, bensì freneticamente attivistica e vitalistica.
Imbevuto di ideali superomistici allora largamente diffusi dalla cultura del Decadentismo, e, al tempo stesso, divorato dall’ambizione di emergere, che in lui si legava ad uno spirito nazionalista brutalmente imperioso, nel segno del pangermanismo più rumoroso e anche, se si vuole, a suo modo ingenuo (tutto il contrario, insomma, del freddo, lucido, scientifico imperialismo britannico, ormai assuefatto ad amministrare il più grande impero della storia d’ogni tempo), il giovanotto smaniava per far vedere al mondo di che stoffa fosse fatto, dietro un’apparenza fisica tutt’altro che marziale e anche ben poco nordica - sembrava, piuttosto, un levantino, con quegli occhialetti dalla montatura d’oro che davano al suo viso pallido e magro un’espressione di profonda malinconia e di falsa fragilità.
Al tempo stesso, i suoi sogni di terre lontane e di esotiche avventure (i suoi idoli erano Cortés e Pizarro) si mescolavano e si confondevano con la frustrazione e l’amarezza perché la sua Patria, giunta così tardi all’unità nazionale, non avesse fatto in tempo a gettarsi sulla torta della spartizione coloniale, se non, forse, per raccogliere le ultime briciole rimaste, dopo che il formidabile appetito della regina Vittoria aveva già posto sotto la bandiera inglese un quarto delle terre emerse, relegando tutti gli altri nel ruolo di comprimari o di semplici comparse.
Dare a se stesso gloria e potere e dare alla sua Patria, il Reich germanico, un impero coloniale degno di questo nome, prima che i giochi fossero definitivamente chiusi: questa divenne la sua fede, la sua missione, e ad essa si dedicò anima e corpo, gettandovisi con la foga e l’irruenza di un esaltato o di un folle.
Il modo in cui preparò, alla testa della Società per la colonizzazione tedesca, la sua prima spedizione in terra africana, ove non aveva mai prima posto il piede; il modo in cui la condusse e la portò al successo, sfiorando il disastro per la sua assoluta mancanza di esperienza e di senso del limite, ma assistito dalla incredibile fortuna che, secondo lo stesso Bismarck (ma il termine di paragone errano gli Stati Uniti d’America) assiste talvolta, nella sua imperscrutabile capricciosità, i pazzi e gli ubriachi, furono tali da lasciare senza parole i suoi contemporanei.
Quasi solo, con pochissimi mezzi, agendo quasi nell’anonimato, senza alcun appoggio da parte del proprio governo e anzi ufficialmente disapprovato, egli sbarcò sulla costa dell’Africa orientale (odierna Tanzania) nella più totale ignoranza dei luoghi e del clima, addirittura senza aver fatto alcuna vaccinazione e senza avere con sé alcun medicinale, in un tempo ridicolmente beve, poco più di un mese, penetrò in profondità e sottoscrisse una dozzina di trattati di protettorato con altrettanti sovrani locali, ignorando i diritti nominali del sultano di Zanzibar, sfidando l’occhiuta presenza britannica e deponendo ai piedi di Bismarck, che in lui non aveva mia creduto, le basi di un impero coloniale suscettibile di espandersi ulteriormente in un’area economicamente interessante e strategicamente preziosa, sulle coste dell’Oceano Indiano.
Fu così che, trovandosi su un piatto d’argento quei trattati regolarmente sotto scuriti - dei quali, però, è quasi certo che i capi indigeni non avevano compreso affatto la reale portata – ilo “cancelliere di ferro” si convertì bruscamente ad una politica colonialista e proclamò il protettorato germanico sull’Africa orientale, nel 1885; così come, l’anno precedente, aveva fatto per il Togo, il Camerun e l’Africa sud-occidentale (odierna Namibia).
Dapprima gli onori e gli oneri della colonizzazione furono demandati ala Società di Peters, così come, che era tuttora una istituzione privata fornita di scarsi mezzi; in seguito, mano a mano che la resistenza delle popolazioni indigene si andava organizzando e apparve evidente che sarebbe stato necessario un intervento militare in piena regola per rendere effettivo il dominio tedesco, fu il governo di Berlino a subentrare nella amministrazione del territorio e, in parte, nel suo sfruttamento economico.
Di tutte le colonie africane del Reich, fu proprio quella “regalatagli” da Carl Peters, filosofo mancato improvvisatosi esploratore e conquistatore, come un improbabile eroe uscito dalle pagine d’un romanzo di Emilio Salgari o di Karl May, ad assumere la maggiore importanza e a divenire, anche, la più estesa, con quasi un milione di kmq.; e, anche se non attirò mai un consistente flusso di emigranti tedeschi, ma solo alcune centinaia di coltivatori e commercianti, fu anche quella che creò i maggiori attriti con la Gran Bretagna, insediatasi, frattanto, nel Kenya, oltre che nella stessa Zanzibar.
L’Africa Orientale Tedesca, infatti, ingranditasi fino a comprendere anche il Ruanda-Urundi e, per un momento, l’Uganda, che però venne ceduta alla Gran Bretagna in cambio della preziosa isola di Helgoland, nel Mare del Nord, era in posizione tale da sbarrare la via alla sospirata continuità dei possedimenti britannici dall’estremità settentrionale a quella meridionale del continente africano, lungo i quali era impegnata a costruire una ferrovia d’interesse strategico, «dal Cairo al Capo», come era nei sogni degli imperialisti inglesi, tra  quali Cecil Rhodes.
Non si può dunque escludere chela decisione di levarsi questa spina dal fianco del proprio impero coloniale africano, completato ne 1898 con la riconquista del Sudan contro i Mahdisti e, due anni dopo, con la definitiva sottomissione dei Boeri dell’Orange e del Transvaal , sia stato uno degli elementi che fecero pendere la bilancia a favore dell’intervento contro la Germania, in quell’agosto 1914 in cui le altre maggiori potenze europee erano già impegnate in un conflitto generale (Germania e Austria-Ungheria contro Russia e Francia), mentre la sola Gran Bretagna, non minacciata direttamente da nessuno né legata da impegnativi trattati di alleanza con alcuno, era ancora padrona delle proprie decisioni e aveva pertanto la possibilità, se lo avesse voluto, di conservare la neutralità.
In questo senso dicevamo che la storia dell’Africa, e del mondo, sarebbe stata forse diversa senza la bizzarra impresa coloniale di Carl Peters nel Tanganica; anche se - è ovvio - la storia on si deve fare con i “se”, ma studiando e cercando di comprendere come e perché taluni avvenimenti si siano verificati (nel nostro caso, perché dietro il Peters c’era un potente gruppo d’interessi finanziari ed  economici e un vasto movimento di opinione pubblica tedesca, sostenuto dalla Marina, entrambi favorevoli a una discesa in campo del Reich nell’agone coloniale).
E forse non è un caso che la sola colonia tedesca in cui si combatté ocn estremo accanimento sino al termine del conflitto, e la cui guarnigione gli Inglesi non poterono vantarsi di avere mai sconfitta, fu proprio quella dell’Africa Orientale; la quale, sotto la guida abile ed energica, ancorché spregiudicata, del tenente colonnello Paul von Lettow-Vorbeck, tenne testa a forze alleate enormemente superiori per tutta la durata del conflitto, deponendo anzi le armi tre giorni dopo la resa della Germania in Europa, il 14 novembre 1918 (ma su tutto ciò si veda la nostra monografia: «Le colonie tedesche in Africa nella prima guerra mondiale», sui siti di Arsmilitaris e di It. Cultura. Storia. Miltare).
Così rievoca la figura di Carl Peters e le sue imprese lo storico olandese Henri Wesseling nel suo volume «La spartizione dell’Africa, 1880-1914» (titolo originale: «Verdeel en heers. De deling van Africa, 1880-1914»; traduzione italiana di Giancarlo Errico, Milano, Corbaccio, 2001, pp. 199-203):

«Carl Peters (1856-1914) è una delle figure più bizzarre tra quelle che possiamo incontrare nella storia del’imperialismo in Africa. Era figlio di un pastore protestante. Nacque nel 1856, anno che con suo disappunto non era divisibile per tre. Peters, infatti, credeva profondamente nella mistica pitagorica dei numeri. “Tutti gli avvenimenti importanti della mia vita “ scrisse Peters “hanno avuto luogo in anni che sono divisibili per tre: nel 1878 ebbi la medaglia d’oro per le arti e le scienze all’Università di Berlino, nel 1881 andai a Londra, che è stata l’esperienza più importante della mia vita. (1881 è divisibile non solo per tre ma anche per tre volte tre). “Nel 1884 andai per la prima volta in Africa”, e continua a elencare date. Non sorprende quindi che, se quest’uomo credeva nei numeri,  credesse anche nei fantasmi, il che del resto si coniugava bene con il suo amore per l’Inghilterra. Nel 1881 andò per la prima volta a Londra dove abitava un suo zio. L’ardente patriota rimase molto impressionato da questa immensa metropoli, centro vitale di un superbo, antico, potente e gigantesco impero.
Nel 1882, tornato in Germania, pubblicò uno scritto filosofico dal titolo elegante, ma dal significato decisamente poco chiaro: “Willenswelt und Weltwille” (“Il mondo della volontà e la volontà del mondo”). Subito dopo tornò a Londra per una veglia dedicata allo zio defunto da poco, il quale zio, durante la notte di veglia, ebbe il buon gusto di resuscitare per venti secondi e di sorridere al nipote. Questo, almeno, è quanto scrisse Peters. Approfittò dell’occasione per trattenersi ancora un po’ di tempo a Londra, provò ad attraversare a nuoto La Manica, tentativo peraltro fallito, ma tornò ugualmente sul continente, con la nave, per dedicarsi anima e corpo ala sua vocazione coloniale.
Per quanto erudito, Peters non era uomo incline a vedere il colonialismo esclusivamente come una faccenda scientifica e di studio. Il suo motto era: “Parole e anche fatti”. Non sorprenderà tuttavia che questo filosofo insignito di medaglia d’oro, che credeva nella mistica dei nuerri, nei fantasmi e nella provvidenza, non venisse preso molto sul serio da un cancelliere che credeva “nel ferro e nel sangue”. E non veniva preso sul serio nemmeno dai diplomatici della Wilhelmstrasse, che credevano nei dispacci, nei promemoria e nelle mosse guardinghe sulla scacchiera della grande politica; non indugiarono a bocciare i piani e i progetti del giovane dottore in scienze umanistiche. Peters dovete quindi cavarsela da solo, ma infine, proprio dalla sua Compagnia per la colonizzazione tedesca, riuscì ad ottenere gli appoggi e i mezzi finanziari sufficienti  per organizzare una spedizione. La spedizione da lui stesso e da altri tre colonialisti convinti (un giurista, un conte e un agricoltore), si mosse nel segreto più assoluto, ma le idee di Peters godevano già di una tale nomea che Bismarck gli fece sapere in anticipo che quali che fossero i suoi progetti non doveva contare sull’appoggio del Reich.
Peters era il leader. L’obiettivo era, nella sua lapidaria formulazione, “procurarmi personalmente un impero secondo i miei gusti”. Quei gusti erano piuttosto indefiniti, poiché per lui poteva andar bene sia l’America del Sud ce l’Africa occidentale. Alla fine decise per l’Africa orientale.  Il 16 settembre 1884 prese la decisione di indirizzarsi “da qualche parte di fronte a Zanzibar” per mettere le mani su qualche territorio. La spedizione adottò il moto “intemerati e cauti”, anche se sarebbe stato più adatto il moto “svelti e furtivi”, perché il gruppo partì in fretta e furia per evitare domande indiscrete. Per conservare meglio il segreto, Peters e i suoi amici si fecero persino passare per inglesi. Aveva messo al corrente il Ministero degli esteri dell’iniziativa, ma non aveva chiesto l’autorizzazione. Il governo era contrario. Il console tedesco a Zanzibar, informato dal ministero, fece sapere a questi signori che il governo del Reich non avrebbe offerto alcuna protezione. Avrebbero operato completamente a proprio rischio e pericolo. Bismarck non voleva avere niente a che fare con un coinvolgimento troppo affrettato nella politica inglese riguardo a Zanzibar.
Il 10 novembre 1884 la spedizione si mise in marcia. Era composta da quarantasei uomini. Erano in numero insufficiente e, oltretutto, male attrezzati: poco cibo, nessun equipaggiamento adatto ai topici, niente medicinali. Ciò nonostante i viaggiatori si sentivano - scrisse Peters- come i “conquistadores” che avevano soggiogato il Messico. Il 23 novembre stipularono il primo trattato. Nelle settimane successive ne sarebbero seguiti altri undici. Con differenze minime furono sempre usate le formule adottate per il primo, il cosiddetto “Trattato di amicizia eterna”, stipulato con un capotribù che Peters denominò “Mafungu Biniani, signore di Qatunga, Kwindokaniani, eccetera, sultano di Nguru”. Peters agiva così: un capo villaggio, denominato per lo più “sultano”, ma talvolta anche semplicemente “altezza”, dichiarava di detenere la sovranità e la proprietà su un determinato territorio. Dichiarava inoltre di cedere tutti i diritti che ne derivavano al suo amico Peters, indicato talvolta anche come “fratello di sangue”. Gli  atti venivano scritti sempre esclusivamente in tedesco e in un unico esemplare. Peters vi apponeva la sua firma e il sovrano una croce. La cerimonia in genere veniva preceduta da un’adunata festosa dei viaggiatori e degli indigeni., durante la quale si sparavano colpi di fucile, si intonavano inni teutonici, si bevevano alcolici, e talvolta - sembra Karl May invece di Carl Peters - con una cerimonia solenne si stringeva un patto di fratellanza di sangue.
Il ministro degli esteri tedesco fece eseguire ai propri giuristi un apposito studio sul significato del concetto di “fratellanza di sangue” secondo il diritto dei popoli. Peters faceva bene attenzione a che i capotribù dichiarassero di non avere alcun rapporto di dipendenza dal sultano di Zanzibar; una volta giunse pesino a far sottoscrivere a un sovrano che questi non sapeva nemmeno se a Zanzibar esistesse o meno un sultano.
La spedizione Peters percorse l’entroterra di Bagamoyo e di Dar-es-Salaam, cioè i territori Usagara, Ukami, Useguha e Nguru. Di quest’ultimo si sa per certo che fu annesso, ma non che la spedizione vi avesse mai messo piede. Del resto era composta da un gruppo relativamente  ristretto di uomini, che ben presto cominciarono a risentire dell’equipaggiamento inadeguato. Alcuni si ammalarono e morirono, e il resto dei viaggiatori dopo sili trentasette giorni fece ritorno sula costa; erano tutti esausti e in precarie condizioni di salute. Per i parametri africani cinque settimane non era una spedizione, ma una semplice escursione. Nonostante tutto gli esploratori “intemerati e cauti” avevano incamerato 140.000 kmq. di territorio, corrispondenti all’incirca a Olanda, Belgio, Svizzera e Danimarca messi insieme. Sulla carta, ben inteso. Il significato giuridico di questo genere di trattati era pari a zero. Avrebbero avuto valore solo in caso di riconoscimento internazionale, il che vuole dire riconoscimento inglese.
Quando Peters raggiunse la costa con i suoi trattati era il 17 dicembre 1884, e il 5 febbraio 1885 quando arrivò a Berlino. La Conferenza di Berlino non era ancora conclusa. Peters consegnò al ministero degli Esteri i suoi documenti corredati di promemoria, in cui definiva il territorio acquisito “grandiosamente bello”, e specificava che poteva diventare il primo nucleo di “un’India tedesca” sul continente africano. “In un certo senso, faceva persino pensare al paesaggio intorno a Heidelberg” concluse Peters. Questo era sufficiente a far intenerire i responsabili tedeschi, ma on a far perdere loro il lume della ragione. Difficilmente si poteva arrivare con questa sorpresa mentre oramai la conferenza stava per concludersi. Ma dopo la chiusura dei lavori non persero altro tempo. Il 26 febbraio la conferenza terminò e il giorno successivo fu preparato lo “Schutzbrief” (Lettera di protezione), con la quale i territori di Peters venivano posti sotto protettorato tedesco, e il cui controllo veniva demandato alla Compagnia per la colonizzazione tedesca. La formula “Kusserow” - protezione senza spese a carco del Reich, tramite compagnie concessionarie - si era nuovamente dimostrata utile.»

Quello che Henri Wesseling non dice, in questo ritratto di Carl Peters, è che egli lasciò un ben tristo ricordo di sé presso i popoli africani che ebbe l’incarico di amministrare.
Infatti, nel 1887 era stata creata la Deutsche Ost-Afrika Gesellschaft (D.O.A.G.), una compagnia privata il cui maggiore azionista era il Kaiser Guglielmo II, e questa nel 1888 era succeduta alla povera e dilettantesca Società per la colonizzazione tedesca, ma sempre sotto la guida di Carl Peters, che ritornò in Africa come proconsole della Germania.
In quell’anno scoppiò una violenta insurrezione degli Arabi della costa e Bismarck valutò se fosse il caso di allestire una spedizione militare o di abbandonare l’Africa orientale: certo la D.O.A.G. aveva fallito, per inesperienza e per mancanza di mezzi, e ora toccava al governo prendere in mano la patata bollente. Infine, accordatosi con la Gran Bretagna per un’azione politico-militare congiunta, il cancelliere tedesco scelse la prima soluzione ed inviò nella colonia il capitano Herman Wissmann, in veste di commissario generale governativo.
La repressione degli insorti fu presentata all’opinione pubblica come parte di una campagna antischiavista, trattandosi di debellare l’ultima grande riserva di caccia dei commercianti di schiavi arabi, ciò che era vero, anche se solo in parte. La rivolta di Abushiri ibn Salim al Harti venne domata nel 1891 ed il suo capo venne catturato ed impiccato; ma l’anno dopo ne scoppiò un’altra, ancora più grave, ad opera degli Hehe, seguita da diverse altre ancora, culminate nella insurrezione dei Maji-Maij, nel 1904-06, nella sezione meridionale della colonia, fra il Lago Niassa e l’Oceano Indiano. Per domarla, gli ufficiali tedeschi - tra i quali il non ancora famoso Lettow-Vorbeck -  misero spietatamente il paese a ferro e fuoco, al punto che, ancora oggi, questa è la provincia Cenerentola della Tanzania.
Intanto, nel 18891, aveva avuto inizio l’amministrazione diretta governativa nell’Africa Orientale Tedesca.
Peters aveva proseguito nella sua opera esplorativa e diplomatica: nel 1887 aveva convinto il sultano di Zanzibar a rimettere alla Compagnia tedesca l’amministrazione dei suoi teorici possedimenti di terraferma, né aveva risparmiato critiche a Bismarck per essersi lasciato sfuggire l’occasione di penetrare nel bacino del Congo, avendo riconosciuto i diritti di re Leopoldo del Belgio sul cosiddetto Stato Libero del Congo.
Nel 1888 Peters era partito per una nuova, donchisciottesca impresa: trovare e salvare Emin Pascià, il governatore della provincia egiziana di Equatoria, rimasto isolato dopo il travolgente successo dei Mahdisti a Karthoum, che era costato la vita all’inglese Gordon Pascià.
Emin, infatti, era cittadino tedesco, essendo nato in Slesia da genitori ebrei convertitisi al luteranesimo. Tuttavia, la vera motivazione della spedizione era quella di estendere il protettorato tedesco verso le sorgenti del Nilo, a spese del Kenia britannico: obiettivo che venne effettivamente raggiunto. O, almeno, questo fu ciò che accadde allorché Peters seppe che una spedizione inglese, guidata da Stanley, aveva già raggiunto Emin Pascià e lo aveva riportato, sano e salvo, sulla costa, nell’aprile; senza perdere tempo, Peters, mutò itinerario ed obiettivo e, penetrato fino alla corte del re Mwanga, sul lago Vittoria, convinse quest’ultimo a firmare un trattato di protettorato, per conto del proprio governo.
La cosa, poi, non ebbe seguito perché, come si è sopra accennato, il 1° luglio del 1890 la Germania rinunciò ai propri diritti sull’Uganda in favore dell’Inghilterra, ottenendo, in cambi, la strategica isola di Helgoland, richiesta a gran voce alla Marina del Reich.
Come commissario imperiale per i territori dell’Africa Orientale Tedesca, Peters non lasciò una buona fama di sé: il minimo che si possa dire della sua amministrazione è che si macchiò di innumerevoli abusi di potere, tanto da suscitare reazioni in patria e da provocare l’apertura di una inchiesta a suo carico e dei suoi collaboratori.
Presso gli indigeni egli era conosciuto con il tristo soprannome di Mkono wa damu, ossia “mano insanguinata”, per la straordinaria brutalità con cui trattava con essi, somministrando pene severissime, come la pubblica fustigazione, per chiunque si rendesse responsabile della minima infrazione alla “pax germanica” da lui instaurata. Per sette anni egli sfruttò il Paese ed i suoi abitanti, finché le voci sul suo operato ne provocarono il definitivo allontanamento.
Le circostanze della sua caduta sembrano richiamare il copione di un romanzo d’appendice di terz’ordine. Dopo essersi macchiato di svariate brutalità ai danni della popolazione indigena, Peters si era circondato di un harem di concubine. Un giorno, nel 1892, scoprì che la sua amante, Jagodja, lo tradiva con un suo aiutante africano, e reagì facendo impiccare entrambi e dando alle fiamme i loro villaggi nativi. Ciò provocò una insurrezione armata delle tribù locali e costrinse il governo ad allestire una costosa spedizione militare per ristabilire l’ordine.
Ormai definitivamente screditato, Peters venne richiamato in Germania e addetto, dal 1893 al 1895, presso l’Ufficio coloniale; fu allora che cominciarono a girare, sulla stampa, voci sempre più insistenti e precise circa il suo malgoverno in terra d’Africa. Durante una seduta del Reichstag, nel 1896, il deputato socialdemocratico August Bebel portò le prove delle uccisioni da lui ordinate, leggendo una lettera autografa dello stesso Peters diretta al vescovo Alfred Tucker. Ciò provocò l’indagine, il processo e il suo licenziamento dall’amministrazione coloniale, con perdita della pensione: sanzione che può sembrare di lieve entità rispetto ai reati commessi, ma che, all’epoca, era il massimo che si potesse fare contro un funzionario nella sua posizione.
Peraltro la carriera di quest’uomo strano, paranoico, crudele, ma non rivo di un pizzico di genialità, era ancora ben lungi dal potersi dire finita. Dopo essersi recato a Londra per sottrarsi alla vergogna della sentenza, si trattenne nella capitale inglese, occupato in oscuri progetti di spartizione delle colonie portoghesi fra la Germania e la Gran Bretagna; poi tornò in Africa, questa volta nel bacino dello Zambesi, ove, nel 1901, scoprì delle antiche miniere abbandonate.
In questo periodo la sua figura assomiglia sempre di più a quella del conradiano Lord Jim: un antieroe bianco smarrito in qualche lontana plaga tropicale, tormentato dal peso del passato, dai fantasmi delle proprie male azioni e, forse, dai rimorsi, certo dal rimpianto della gloriosa carriera che sognava di fare, ma che oscure circostanze avevano stroncata bruscamente.
Altri due viaggi, nel 1902 e nel 1905, lo videro ancora nella zona dello Zambesi, difficile dire fino a che punto in veste di archeologo e di geografo e dove, invece, in qualità di agente segreto interessato al futuro sfruttamento del Mozambico portoghese per conto di altre potenze. Nel 1902 pubblicò un resoconto delle sue scoperte archeologiche nel bacino dello Zambesi, con il suggestivo titolo «L’Eldorado degli antichi».
In Germania, nei primi anni del nuovo secolo, Peters era ormai diventato un eroe nei circoli pangermanisti e colonialisti. Guglielmo II, che nel 1890 aveva costretto Bismarck a dare le dimissioni, gli restituì il diritto di fregiarsi del titolo di Reichskommissar, e, con gesto clamoroso, gli fece versare una pensione dal proprio conto personale, in luogo di quella che non poteva più percepire a causa della famosa sentenza.
Peters morì nel settembre 1918, prima di poter vedere la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale. Ma la sua strana epopea non era ancora finita: riscoperto dai nazisti, che lo elessero nell’Olimpo dei loro antesignani, venne ufficialmente riabilitato da Hitler nel 1938, giusto vent’anni dopo la morte. Inoltre, nel 1941 un film di smaccata propaganda ideologica, intitolato semplicemente «Carl Peters», venne girato dal regista Herbert Selpin e interpretato da una delle maggiori star del cinema dell’epoca, l’attore Hans Albers.
Chi fu, in realtà, quest’uomo enigmatico, che lasciò pareri tanto discordi intorno a sé, al punto che molte vie dedicate al suo nome hanno ricevuto, recentemente, una nuova intitolazione, viste le controversie legate alla sua figura?
L’africanista austriaco Oscar Baumann, altro esploratore dell’Africa orientale Tedesca, che si trovò personalmente coinvolto nella rivolta di Abushiri ibn Salim al Harti, rischiandovi la vita, non lo aveva in grande stima: per lui, Carl Peters era, semplicemente, un individuo squilibrato, mezzo malato di mente.
Resta da spiegare come un simile personaggio abbia potuto fare tanta strada, e contare così tanto, in una nazione così colta e così tradizionalmente osservante della legalità, come quella tedesca della “belle époque”; come il colonialismo germanico non sia riuscito a trovare una bandiera più presentabile della sua, mentre la Francia poteva sventolare quella di  un Pietro Savorgnan di Brazzà - che era, in realtà, italiano - e l’Inghilterra quella di un David Livingstone: figure, entrambe, di tutt’altra statura morale.