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Cambiamento climatico nella terra dei nomadi

di Bruno Picozzi - 18/01/2011





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Mongolia, inverni freddissimi seguiti da siccità. Il riscaldamento globale è più evidente qui che nella maggior parte delle altre regioni del mondo, denunciano le autorità del Paese. Nell’ultimo anno il fenomeno ha ucciso il 20 per cento degli animali d’allevamento. L’incessante attività mineraria è tra le principali cause della desertificazione del territorio. Ma il business non si ferma.

Nei primi mesi del 2010, in Mongolia, un inverno molto freddo e nevoso seguito da un periodo di siccità estiva ha impedito a molte specie da pascolo di alimentarsi in maniera adeguata. Il disastro, che i mongoli chiamato zud, ha provocato la morte di milioni tra cammelli, capre, pecore, mucche, yak e cavalli». Questa la didascalia del Time sotto una delle foto mostrate per presentare le dieci più strane ecatombi di animali avvenute quest’anno. Secondo le organizzazioni facenti capo al Cap, strumento di appello umanitario patrocinato dalle Nazioni Unite, a fine aprile quasi 8 milioni di capi di bestiame erano già morti di fame. «Il disastro sarebbe già tragico di per sé, ma in un Paese dove gran parte della popolazione dipende dall’allevamento del bestiame è a rischio anche la sopravvivenza degli esseri umani».
 
In primavera ben 120mila famiglie, secondo il locale ministero dell’Agricoltura, si sono ritrovate in gravi difficoltà.
In passato lo zud si verificava ogni cinque o dieci anni e faceva parte del ciclo naturale al quale i pastori nomadi sapevano porre rimedio. Nell’ultima decade il fenomeno si è verificato già quattro volte e la colpa, nonostante la diffusione dello sciamanesimo, non sembra essere degli spiriti maligni.
 
«La Mongolia soffre l’impatto del cambiamento climatico globale - ha dichiarato il primo ministro Batbold Sukhbaatar - Il riscaldamento globale è più evidente in Mongolia che nella maggior parte delle altre regioni del mondo. Tra il 2009 e il 2010 il nostro Paese è stato colpito dal più duro inverno degli ultimi decenni e abbiamo perso il 20 per cento dei nostri animali d’allevamento». Il presidente Tsakhia Elbegdorj è arrivato a parlare di genocidio causato dal riscaldamento globale. A fine agosto, nel tentativo di attirare l’attenzione della comunità internazionale, l’intero Consiglio dei ministri ha tenuto una riunione nella valle di Gashuunii Hooloi, un luogo inospitale del Gobi meridionale, a circa 670 km dalla capitale Ulan-Bator. Maglietta chiara e cappellino da baseball, tutti i ministri hanno sfidato per qualche ora gli effetti mortali della desertificazione, facendosi fotografare a discutere di pubblica amministrazione sullo sfondo di un nulla fatto di sabbia e calore.
 
Multinazionali d’assalto
Secondo un rapporto governativo diffuso nell’occasione, negli ultimi 70 anni la temperatura media in Mongolia è aumentata di 2,1 gradi centigradi causando il prosciugamento di molti fiumi e sorgenti. Allo stesso tempo gli inverni sono sempre più gelidi e la vita sempre più dura. Un rapporto dell’Agenzia nazionale per l’ambiente cita l’attività mineraria tra le cause della desertificazione del territorio. «Circa 100.000 ettari di terreno sono stati degradati dalle attività di estrazione di carbone e oro. Lo sviluppo di miniere in superficie e il sovraccarico di depositi di ogni tipo degradano il territorio. Nel tempo solo una quantità minima di terreno degradato dalle attività estrattive è stata risanata». La pressione demografica e la transizione verso il modello economico occidentale fanno il resto. «Dobbiamo riconsiderare la nostra pianificazione urbana e rurale e mostrare grande senso di responsabilità. Dobbiamo fare in modo che vi sia la possibilità di sviluppare una forma di green economy in Mongolia. Provvederemo a correggere gli errori del passato e a bloccare le cattive pratiche di sfruttamento minerario, se necessario», ha affermato ancora il primo ministro. Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo oceani di buone intenzioni.
 
L’idea di ridurre inquinamento e degrado ambientale cancellando un certo numero di concessioni, così come ventilato da Batbold, si scontra con la presenza di decine di immensi bacini minerari che fanno gola ai grandi del settore. Multinazionali russe, cinesi, australiane, statunitensi, sono tutte in fila allo sportello del governo mongolo per assicurarsi licenze di sfruttamento su un territorio ricchissimo di materie prime. Proprio in questi giorni un cartello composto da grandi imprese giapponesi e sudcoreane, insieme con la compagnia statale che controlla le ferrovie russe, presenterà un’offerta molto interessante per aggiudicarsi un’enorme fetta di territorio ricca di carbone. Un’altra offerta dovrebbe arrivare da un cartello concorrente composto da compagnie cinesi, statunitensi e giapponesi. A fine aprile dovrebbero partire invece i primi carichi di ferro e oro scavati dalla holding cinese North Asia Resources, quotata alla borsa di Hong Kong. Ne dà notizia il sito specializzato Business Mongolia, aggiungendo che per l’occasione «il governo mongolo revocherà la tassa sui super profitti nel settore dell’oro, permettendo alla società di godere di flussi di cassa netti». La Cina, in fondo, ha investito non meno di 700 milioni di dollari sulle riserve minerarie mongole. Nel frattempo l’australiana Rio Tinto, la canadese Ivanohe e l’angloamericana AngloGold fanno incetta di oro, rame e tungsteno in cambio di ricche royalties. Altri fanno man bassa di uranio, argento e stagno.
 
«Le orde minerarie invadono la Mongolia», titolava la scorsa estate il Telegraph, accorgendosi tardi di pratiche che vanno avanti da anni. Abbagliati dalle montagne di denaro offerte dalle multinazionali, tutti i governi succedutisi a Ulan-Bator fin dalla caduta del regime comunista hanno preferito abbandonare a se stesse le millenarie forme di sussistenza basate sulla pastorizia, scegliendo di entrare a grandi passi nell’economia globalizzata. Fiero di questa modernizzazione galoppante, il Paese ama definirsi “il lupo asiatico”. Marco ci è stato da turista e ne parla con entusiasmo su un sito di viaggi. Descrive un Paese di spazi immensi con un popolo generoso ed ospitale: «Appena si lascia Ulan-Bator, la moderna capitale, la natura regna incontaminata. Verdi praterie si estendono sterminate, punteggiate qua e là solo dai bianchi puntini delle gher». Sono le tradizionali capanne dei pastori, smontabili e trasportabili con grande facilità, fresche d’estate e calde d’inverno. Marco non si è accorto che per mettersi alla pari con tigri e dragoni che affollano il continente, il lupo ha concesso la sua verginità naturale a vari giganti del settore minerario. Adesso tornare indietro è meno facile di quel che sembri. Una compagnia canadese specializzata in estrazione di uranio, la Khan Resources Inc., ha reagito al ritiro della concessione con una richiesta di indennizzo pari a 200 milioni di dollari. Nel frattempo il Paese si ritrova economicamente schiacciato tra Russia e Cina. Secondo la banca dati della Cia, da Mosca viene acquistato il 95 per cento dell’energia necessaria allo sviluppo mentre per Pechino passano i due terzi dell’export.
 
Miseria e aspettative
Man mano che le infrastrutture delle concessionarie invadono il territorio, in varie aree del Paese i nomadi perdono il bestiame a causa dell’inquinamento e degli zud, e si riversano in massa a Ulan-Bator. Qualcuno l’ha definita la capitale più brutta del mondo. Ci vive oggi il 40 per cento della popolazione e tra le sue strade si diffondono a uguale velocità miseria e grandi aspettative. «La Mongolia ha appena scoperto di essere ricca», diceva l’estate scorsa un residente citato dal Guardian. «La Mongolia potrebbe diventare come l’Arabia Saudita o il Kuwait», sosteneva un altro. E di certo la cosa avverrà, almeno in termini di deserto. La capitale si allarga con fierezza, gli edifici moderni toccano il cielo e i nuovi ricchi si muovono attraverso le vie del centro sfoggiando automobili di gran lusso. Nel frattempo oltre 700mila persone ancora non hanno acqua potabile o servizi igienici in casa e migliaia di bambini e adolescenti vivono in strada senza nessun sostegno pubblico. Con le temperature che scendono a -40 in inverno, l’unico modo che gli rimane per sopravvivere è rintanarsi nelle fognature. Un terzo della popolazione del Paese vive sotto la soglia di povertà, l’ambiente si degrada e anche l’apertura a fine 2009 della miniera di Oyu Tolgoi, considerata uno dei bacini di rame più importanti del mondo, non ha distribuito ricchezza ma problemi. «La Mongolia chiede assistenza tecnica e finanziaria e l’introduzione di tecnologie rispettose dell’ambiente», conclude il testo del “messaggio di Gobi”, un appello alla comunità internazionale adottato dal governo alla fine della riunione straordinaria tenuta nel deserto. «Per favore, aiutateci a preservare il nostro ambiente naturale e la nostra cultura tradizionale aiutandoci ad adattarci ai cambiamenti climatici». Ci sarebbe già tanto da fare per aiutarsi da sé ma non è questa la strada su cui sembra volersi incamminare il governo.