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Il concetto di advaita nella Bhagavadgita

di Mario Chiarenza - 18/01/2011

 


Il pensiero filosofico occidentale, fin dal suo sorgere al tempo dei primi pensatori ionici, ha
sempre cercato di separare il problema gnoseologico da quello metafisico, con la sola eccezione
delle correnti medioevali, la cui dialettica sottintendeva, in diversa misura, una fondamentale
apologia del Cristianesimo. L'aspetto fideistico della speculazione cara ai padri della chiesa e ai
filosofi scolastici ha resistito fino alle soglie dell'Umanesimo, per poi ricomparire in vario modo in
epoche successive, se non altro come problema e punto di riferimento necessari alla costruzione di
sistemi coerenti ed esaustivi di ogni impalcatura totalizzante del pensiero.
Nulla di tutto ciò è possibile riscontrare lungo tutto il decorso della storia indiana, almeno
dall'epoca della seconda invasione aria (circa sec. XIII a. Ch.) nella valle del Gange. Per la verità, i
piú antichi inni vedici ci vengono tramandati da tempi ancora piú remoti, e le divinità destinatarie di
alcuni di essi potrebbero a ragione essere oggetto di una qualche forma di culto. Ma dall'analisi
approfondita di quei testi, non è difficile dedurre che la celebrazione di entità quali ad esempio Agni
o Mitra tende a focalizzare i compiti a cui ciascuna divinità è preposta, non già a proporre (o
imporre) una verità munita di implicazioni morali.
In particolare, la Bhagavadgītā, come del resto altri testi indiani e non solo indiani (basti
pensare alle varie elaborazioni del Buddhismo in Cina e in Giappone), è piuttosto un viatico morale,
un breviario adatto a chiunque desideri giungere alla fine del suo percorso terreno in totale serenità
di spirito. La morale è pertanto identificabile in un saggio superamento degli ostacoli della vita,
piuttosto che nell'osservanza di comandamenti emanati dalla divinità e, una volta interpretati dai
profeti, da questi comunicati all'uomo, come accade nelle civiltà di matrice semitica.
L'insegnamento della Gita è imperniato sulla necessità che l'uomo conosca il significato
autentico della vita assai prima di impegnarsi in una qualsiasi azione. E il significato della vita non
potrà mai essere colto da chi lo cercasse in regole confezionate a priori, anche se a presunta
derivazione divina. Ogni forma di vincolo ostacola l'acquisizione di una saggezza assoluta, le cui
manifestazioni variano a seconda dei casi e delle circostanze, e non già perché tali eventi
occasionali abbiano in se stessi un valore fondante, ma semplicemente perché fanno parte di un
contesto di cui l'uomo stesso, finché vive, fa parte. Assolutizzare tali eventi significa perdersi in una
fitta rete di contingenze, e pertanto ritardare la realizzazione di una vita autentica, dove ciascun
uomo partecipa di un provvisorio divenire, nel cui ambito è chiamato a beneficare se stesso al fine
di poter meglio arrecare beneficio ai suoi simili.
Né Aristotele, né San Tommaso né Averroé avrebbero mai potuto concepire l'idea che la
dialettica in sé non sia in grado di attingere alla realtà di un Assoluto. Ma per l'Induismo, è solo
l'esperienza spirituale dell'unicità nel divenire che può alla fine procurare la certezza di un sommo
Brahman unico, senza attributi né determinazioni, che si insinua, e infine si identifica nella
profonda realtà dell'uomo. E che cosa è, per l'Induismo, l'esperienza spirituale? Essa ruota intorno a
un'unica essenza non percepibile né con i sensi né con l'intelletto, e che va al di là del dualismo tra
conoscente e conosciuto. L'Assoluto quale principio fondante della filosofia religiosa induista non è
concettualizzabile, non descrivibile, e tanto meno schematizzabile, è un Sé nel sé, ma non nel senso
aristotelico di un Soggetto pensante che pensa se stesso, in quanto non esiste un oggetto di pensiero
superiore alla divinità e a cui la divinità, tendendo ad esso, diriga il proprio pensiero. Qui è trascesa
la dualità tra conoscente e conoscibile cosí come tra pensabile e pensato. L'eterno Uno è
infinitamente reale, e all'uomo non è perciò neppure concesso di attribuire ad esso il nome di Uno,
poiché l'unicità è un concetto derivabile dall'esperienza mondana (vyavahāra). Noi possiamo
soltanto parlarne come del “non-duale”, advaitam, sostantivo neutro sanscrito dai molteplici
significati, e tutti correlati con l'idea dell'identità del Brahma o Spirito Supremo (Paramātman) con
l'anima umana (e da essa indistinto); significati affini sono “identità di spirito e materia” e “verità
ultima”.
Le Upanişad indulgono a formulazioni negative del concetto, e si riferiscono alla realtà
suprema definendola come “priva di organi, senza macchia, invulnerabile al male”, “senza interno e
senza esterno”. La Bhagavadgītā conferma e conserva in molti punti essenziali tale concezione. La
somma essenza è chiamata “il non manifesto, impensabile e immutabile”, “né esistente né non
esistente”. Per dimostrarne ed esemplificarne l'inafferrabilità empirica vengono usati predicati
contraddittori: “esso non muove eppure muove, è lontano ed è vicino”.
Da tale concezione risulta una contraddizione ancora piú inafferrabile alla comprensione
razionale e ad ogni possibilità di teorizzazione: l'Uno Supremo è nel contempo la fonte di ogni
accadimento, tuttavia di per sé è eternamente immoto. Facendo appello alle concezioni della
moderna fisica e cosmologia, potremmo dire, con linguaggio moderno, che la condizione di advaita
è il momento atemporale in cui ogni realtà è possibile, il fugace istante di una virtualità assoluta, il
“filo del rasoio” della cui immagine si serví lo scrittore inglese William S. Maugham (1874-1965)
nell'esergo del suo forse piú famoso romanzo, The razor's edge (1944), in cui vengono citati due
versi della Katha-Upanişad (III, 14):
kşurasya dhārā niśitā duratyayā
durgam pathah tat kavayah vadanti.
(Il filo arrotato di un rasoio è difficile da attraversare;
i poeti dicono che questo è un cammino molto arduo.)
Se il “filo del rasoio” rappresenta l'assoluta virtualità, la sua assenza di dimensioni
simboleggia appunto la compresenza di ogni possibile realtà contingente, vale a dire il tutto nel
molteplice, l'advaita. In tale adualità è contenuto tutto il presente, il passato e il futuro, tutto il
pensabile e il pensato, tutto l'attuabile e l'attuato. E dunque, insieme al bene, anche il male.
Da tale considerazione prende lo spunto il racconto contenuto nella Bhagavadgītā, che inizia
con il dubbio dell'eroe Arjuna, che non vorrebbe combattere contro i nemici della sua stessa stirpe,
considerando il campo di battaglia cosa ben diversa dal campo della virtú. Ma il dubbio dell'eroe è
prontamente fugato dalla rassicurazione del dio Kŗşņa, che nega valore ad ogni alternativa delle
azioni umane, che vengono cosí spogliate da qualunque significato non connesso al tendere
comune verso la realtà ultima e suprema, al di là di ogni dialettica del bene e del male, ad ogni
indugio che possa conferire significato ad una scelta.
La gioia del Brahman è universale, autonoma e indipendente da cause o da oggetti
particolari. L'indivisibilità dell'Essere costituisce la base dei cambiamenti relativi al piacere e al
dolore, propri di un'egoistica esistenza di chi non si svincola dal contatto con l'universo molteplice.
Ne emerge quella suprema legge che è il fondamento didattico, oltre che morale, della
Bhagavadgītā: non è lecito compiacersi del successo né rattristarsi nel dolore, poiché è solo la
coscienza dell'Io individuale che gode o soffre. Ma quando lo spirito acquisterà quella libertà e quel
distacco che gli permetterà di esperire un assoluto sempre uguale a se stesso come un filo di rasoio,
potrà immergersi in quella realtà superumana che trascende sia la vita che la morte, non piú separate
dalla dialettica tragica dell'esistenza terrena, ma accomunate e dissolte nell'advaita in cui consiste,
per la filosofia indiana di ogni tempo, il vero centro del sommo bene, della somma bellezza, e
dell'assoluta verità.
Bibliografia
Esnoul, A. M. (ed.)
Bhagavadghita; Milano, 1991. (Trad. di B. Candian.)
Radhakrishnan, Sarvepalli
Bhagavad Ghita; Roma, 1961. (Trad. di Icilio Vecchiotti.)
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Mahãbhãrata - Srimad Bhagavadgîtã; World’s Literature; http//griffe.com/projects/worldlit/
author.phtml?name=Mahabharata
Mario Chiarenza è laureato in Medicina, con specializzazione in Psicologia Clinica, ed in
Lettere Classiche, con specializzazione in Sanscrito. Vive a Firenze dove affianca all’attività di Psicologo
quella di conferenziere e scrittore di Filosofia, Musica e Letteratura.
Dr Mario Chiarenza has degrees in Medicine and Sankrit. He lives in Florence, practising
as a Psychologist and being active as a writer and conference holder.
Copyright © Mario Chiarenza 2009