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E il dragone ostenta sicurezza

di Roberto Zavaglia - 23/01/2011

 
 
Prima di arrivare a Washington per incontrare Obama, Hu Jintao si era fatto precedere da una dichiarazione poco conciliante: “ il sistema valutario internazionale dominato dal dollaro è un prodotto del passato”. Il presidente cinese ha così ribadito che la volontà del suo Paese è quella di creare, nel medio periodo, una “valuta sintetica” basata sulle principali monete, compreso lo yuan. Togliendo agli Stati Uniti l’ ”esorbitante privilegio” che il dollaro mantiene come valuta di riserva mondiale e strumento di pagamento delle materie prime. Un gesto non certo amichevole, inoltre, era stata la decisione dell’esercito di testare il primo bombardiere invisibile cinese l’11 gennaio scorso, proprio mentre era in visita a Pechino il segretario della Difesa Usa Gates.
  Nonostante queste “provocazioni”, Hu non si è recato alla Casa Bianca con intenzioni  polemiche: la Cina ha addirittura comprato degli spot televisivi per ingraziarsi i cittadini statunitensi. I due fatti citati confermano, però, che questo è il primo vertice in cui i cinesi vogliono dimostrare di non sentirsi su un piano inferiore ai propri interlocutori, ma di avere piuttosto un “rendimento” migliore da far pesare. In effetti, l’agenda degli incontri era composta soprattutto da richieste statunitensi, mentre Pechino si è riservata la parte di chi ascolta con attenzione e cortesia per poi concedere o meno l’assenso sulla base del proprio interesse.
  E’ stata in particolare l’economia a tenere banco nei colloqui. L’Amministrazione statunitense aveva parecchie lamentele da rivolgere. Obama ha chiesto ancora, anche se pare con meno insistenza del passato, un’ulteriore rivalutazione dello yuan per agevolare le esportazioni Usa. Inoltre, sono state messe in campo le questioni degli aiuti pubblici cinesi alle imprese, che falsano la concorrenza internazionale, del saccheggio della proprietà intellettuale (sembra che perfino nei ministeri di Pechino si usino software piratati) e delle difficoltà delle aziende Usa a operare in Cina. Forse perché era conscio di giocare in difesa sull’economia, il presidente Usa ha attaccato con un poco più di convinzione del solito, pur senza esagerare, nel merito del mancato rispetto dei diritti umani. 
  Citando apertamente il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo, tuttora incarcerato, e la questione del Tibet, Obama ha invocato da quello che, per via dell’alta quota del debito Usa posseduta, è, in un certo senso, il suo banchiere, un cambio di marcia sulle libertà politiche e individuali. Qualche giorno prima, il segretario di Stato Clinton, per mostrare come la Casa Bianca non intendesse  abdicare ai propri principi in nome degli affari, aveva dichiarato che la Cina, per quanto riguarda i diritti dell’uomo, è “una nazione con un grande potenziale inespresso e promesse non mantenute”. Rivolgendosi ai giornalisti, Hu Jintao non è parso turbato dalle accuse, alludendo a generici progressi pur in una fase di grandi cambiamenti sociali e a un modello cinese che procede con tempi propri. In sostanza, ha fatto capire di accogliere con educazione i rilievi, considerandoli una noiosa  usanza statunitense alla quale non dare troppo peso.
  L’opinione pubblica Usa, inizialmente, aveva mostrato una certa irritazione per la visita del capo della Cina alla quale, tra l’altro, addebita la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro a causa  del trasferimento di alcune aziende sull’altra sponda del Pacifico, dove i costi di produzione sono enormemente più bassi. Il “pericolo giallo” è estremamente sentito negli Usa, al punto che il 47% dei cittadini pensa che l’economia cinese abbia già superato la propria. La situazione è però diversa perché il Pil di Pechino, con i suoi 5mila miliardi di dollari, è ancora solo un terzo di quello statunitense. Gli esperti si sbizzarriscono sulla data del futuro sorpasso: alcuni parlano addirittura del 2018, mentre stime più prudenti indicano l’inizio del quarto decennio del secolo. E’ sorprendente che siano in pochi a valutare che questi calcoli hanno senso solo se le cose continuano come adesso. Il che è da verificare.
  In ogni caso, l’umore dei cittadini statunitensi potrebbe essere un po’ cambiato dopo l’annuncio dei grandi investimenti promessi da Hu Jintao nel corso della sua permanenza, come sempre avviene, ultimamente, quando un pezzo grosso della dirigenza comunista si reca in visita ufficiale all’estero. In questo occasione le cifre sono davvero importanti. Sono state garantite alle aziende Usa commesse cinesi per oltre 45 miliardi di dollari che “aumenteranno le esportazioni”, come ha voluto personalmente sottolineare Obama alla stampa, “aiutando a sostenere circa 235mila posti di lavoro negli Stati Uniti”. Un bel regalo per il presidente in questa fase di elevata disoccupazione e un’ulteriore rafforzamento del peso cinese nell’economia statunitense.  
  Per questo vertice è stata coniata la colorita definizione di incontro tra i “due padroni del mondo”, a sottolineare come sia ormai un effettivo G2 a prevalere sui vecchi e più recenti organismi multilaterali, destinati a diventare mere sedi di consultazione. Non c’è però, oggi, un direttorio sino-statunitense a guidare le relazioni internazionali. Pur essendo legati da forti vincoli economici (il 21% di tutti i debiti esteri Usa è nelle casse della Banca centrale cinese, per un totale di oltre 850 miliardi di dollari) nemmeno i due giganti intendono la loro relazione in questa maniera.  Anche a prescindere dal fatto che si tratta di un rapporto squilibrato, con la Cina che ha un attivo nel saldo commerciale di oltre 250 miliardi di dollari, le due potenze possono al massimo dichiarare una “cooperazione nel rispetto reciproco”, divise come sono su questioni rilevanti. 
  Cina e Stati Uniti si studiano, si parlano, cercano accordi limitati, nella convinzione reciproca di essere anche rivali e forse, un giorno, di potere diventare nemici. Solo da poco, Pechino ha, parzialmente, abbandonato l’apparente basso profilo politico dei primi decenni della sua crescita economica. Intanto, pur proclamando di non aspirare a nessuna egemonia, nemmeno regionale, ha aumentato nello scorso decennio le spese militari di oltre il 10% all’anno, più della crescita del Pil, a dimostrazione di come si consideri una grande potenza a tutto campo. Anche il crescente acquisto di obbligazioni dei Paesi europei in difficoltà finanziaria e il dichiarato sostegno all’euro “affinché contribuisca alla ripresa economica e alla crescita stabile” attestano come l’orizzonte politico della Cina non sia limitato all’Asia orientale e agli Stati Uniti.
  Il modello cinese, deplorevole per molti aspetti, ha comunque dimostrato finora un’efficienza  formidabile. Un Paese di un miliardo e 400 milioni di abitanti che cresce del 10% all’anno è qualcosa di inaudito che, però, non può non comportare anche contraddizioni e problemi di vasta portata. Diversi osservatori parlano di contrasti nella dirigenza cinese, in particolare fra i politici, preoccupati di non riuscire, nel lungo periodo, a governare le tensioni derivanti dalle crescenti disuguaglianze socio-economiche, e i militari, desiderosi di una politica estera più “assertiva”. L’anno prossimo dovrebbe avvenire la successione a Hu Jintao. Delle idee del prescelto, Xi Jinping, sappiamo poco, se non che proclama l’esigenza di un “partito di governo con uno stile di studio marxista”.
  Questa formula, così apparentemente insensata a proposito del turbo-capitalismo di Pechino, ci mostra come la Cina sia ora, sì, “più vicina”, ma la sottigliezza della sua ipocrisia surreale ce ne nasconda il vero volto. Sul “mistero giallo”, sugli esiti del suo miracolo economico avremo ancora molto da apprendere nei prossimi anni.