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Gamification: la vita è un gioco

di Mario Braconi - 23/01/2011



Secondo Jessie Schell, designer di videogiochi e ricercatore presso l’Entertainment Technology Center, dell’Università Carnegie Mellon della Pennsylvania, la parola del momento è decisamente una sola: “gamification” (potremmo tradurre con “giochificazione”). Alla base di questa bislacca nuova teoria, che sembra eccitare tanto esperti di marketing quanto psicologi e sociologi, l’assunto secondo cui “qualsiasi cosa siamo in grado di percepire può diventare un gioco”.

E oggi la gamma di dati che possiamo conoscere e trasmettere in tempo reale ad altri eventualmente interessati è davvero notevole, grazie all’ampia disponibilità di dispositivi elettronici a basso costo: accelerometri (la “mente” che anima gli airbag, la Wii e l’iPhone), videocamere, localizzatori satellitari, RFID (etichette con trasponder a radiofrequenza).

L’eccitatissimo Schell, sulla rivista britannica The New Scientist, si è prodotto nel seguente esempio: una tazza di caffè di cartone, dotata di RFID, un secondo prima di finire nell’apposito cestino per il riciclaggio, fa a tempo a trasmettere informazioni al nostro smartphone, consentendoci di caricare punti sulla nostra tessera fedeltà, mentre aggiorna il punteggio di un gioco online in cui vince chi smaltisce nel modo corretto la massa maggiore di materiale di scarto.

La gamification prossima ventura, lungi dall’essere una vera novità, è solo la declinazione paradossale e compulsiva di una tendenza psicologica ben radicata nell’uomo moderno: quella che lo spinge a raccogliere e collezionare (dai francobolli ai punti fedeltà del supermercato o dell’operatore telefonico). Il resto lo fanno le potenzialità virtualmente illimitate dei nostri giochini elettronici: ad esempio, chi frequenta un certo bar può guadagnarsi, via smartphone, un “gettone” virtuale di presenza per ogni volta che vi si reca: se sarà riuscito ad ottenerne abbastanza, grazie al suo luccicante medagliere, potrà accreditarsi presso i nuovi frequentatori che non lo hanno mai visto né conosciuto come un habitué cui chiedere informazioni e consigli.

Per la verità, la tendenza al gioco è ancora più antica e profonda, come conferma la biologia evoluzionista: anche nel mondo animale, il gioco viene infatti impiegato come “palestra” per sviluppare capacità utili in altri contesti (cacciare, lottare, procurarsi cibo, stringere relazioni sociali con altri membri del branco eccetera). Il gioco stimola la produzione di dopamina, un neurotrasmettitore coinvolto in attività piacevoli quali mangiare ed accoppiarsi; non c’è dunque da stupirsi che la adulti perdano tanto tempo davanti alla Wii che hanno comprato per i loro figli... Da un punto di vista delle funzionalità del cervello, le attività ludiche attivano una sezione subcorticale, lo striato, legato al sistema delle ricompense. La cosa più interessante è che, per quel componente del cervello, una somma in denaro vale quanto una gratificazione non monetaria, quale ad esempio il riconoscimento sociale.

Per questa ragione, i giochi migliori sono quelli che riescono a motivare chi vi si applica soddisfacendo la triade dei desideri primari messa a punto dagli psicologi Edward Deci e Richard Ryan, dell’Università di Rochester (New York): “Autonomia, competenza e relazione (ovvero bisogno di connessione sociale ed intimità)”. Se il gioco è kosher, ci sono alte probabilità che il giocatore vi resterà fedele. La fantasia è il solo limite ai giochi virtuali disegnati per controllare e dirigere la condotta nella vita reale. Si va da Chore Wars, nel quale si “fa carriera” nel mondo virtuale man mano che si guadagnano punti lavando i piatti o pulendo l’appartemento condiviso con altri compagni (reali, ma anche virtuali) a Epicwin, un gioco di ruolo il cui obiettivo è mantenere organizzata e funzionale l’agenda del giocatore: se ci si sarà ricordati di fare il regalo di compleanno alla vecchia zia, si potrà ottenere una “promozione” nel mondo elettronico.

Non mancano, infine, forme di intrattenimento ludico finalizzate a mantenerci puliti ed in buona salute: si pensi al dispositivo messo a punto alla Yu-Chen Chang of National Taiwan University di Taipei - uno speciale spazzolino da denti dotato di sensori abbinato ad un display, che ha quadruplicato il tempo investito dai bambini-cavia a lavarsi i denti, aumentando del 100% la pulizia complessiva delle loro bocche; o il Gamewalk, che “sblocca” personaggi del Pokemon ai soli bambini “responsabili” che potranno provare (dati alla mano) di aver fatto almeno un po’ di attività fisica.

Alcuni esperimenti dimostrano che l’appeal di una remunerazione certa tende a perdere smalto nel tempo, rendendo questi giochi poco attraenti ed efficaci nel lungo periodo; ma questo, ovviamente, non è il solo problema: una gamification spinta configura un futuro da incubo, funestato da manipolazioni sempre più sofisticate e da un livello di controllo talmente onnipresente ed ineludibile da far sembrare Disneyland il mondo dipinto da Orwell in 1984. E non è tutto: perché c’è qualcuno che, forse sfruttando impropriamente i “bug” del nostro striato, sta cominciando a far passare il concetto che è giusto remunerare con divise virtuali il lavoro vero.

Ad esempio Crowdflower (una società di crowdsourcing, ovvero organizzazione di team temporanei di lavoratori via internet per svolgere “le attività che i computer non svolgono molto bene, come descrivere esattamente che cosa mostra una fotografia”) che in certi casi paga i suoi associati con “buoni” per giocare a Farmville (un gioco sviluppato per Facebook). Forse è poco più un giochino, appunto, ma ad occhio e croce sembra un precedente preoccupante…