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Guerra delle parole, morte del ragionamento

di Lorenzo Borrè - 24/01/2011


 

Il progressivo deterioramento del confronto politico-culturale costituisce, con sempre maggior evidenza, l'aspetto complementare di quel processo di involuzione (anti)democratica caldeggiato da chi invoca la restrinzione delle libertà civili.

L'obiettivo, inconfessato, dello svuotamento della libertà di pensiero trova oggi un formidabile alleato nella crisi del dibattito; ne è una riprova il triste spettacolo che ci viene offerto dai talk-show più popolari: la frase ad effetto, la smorfia e la parola urlata , espellendo ogni parvenza di ragionamento, tendono esclusivamente ad attrarre il consenso (di una parte) degli spettatori a scapito di qualsiasi  contenuto informativo.
L’assenza di qualsivoglia articolazione argomentativa attesta la superficialità delle posizioni e delle dichiarazioni, azzerando la possibilità di una conoscenza critica (e quindi della possibilità di formarsi un'opinione informata) del problema sul tappeto, che rimane infatti irrisolto.
Uno straniero che non conoscendo i volti dei nostri politici si trovasse a guardare i litigi che la TV di Stato trasmette in prima serata, ben potrebbe pensare di trovarsi di fronte ad uno di quei programmi popolari pomeridiani in cui ci si accapiglia su questioni da ballatoio.   
L’imperante  povertà concettuale è plasticamente rappresentata dai manifesti che moltitudini di attacchini affiggono  quotidianamente su muri e spazi pubblicitari, manifesti in cui appaiono frasi o slogan che probabilmente non hanno richiesto ai loro ideatori maggiori sforzi intellettuali di quelli che generalmente impegnano gli anonimi graffitari dei cessi pubblici: al laconico “Sindaco x vergognati” si risponde con un criptico “Presidente Y il traffico è colpa tua, vai a spalare la neve”, declinazioni provinciali (molte volte anche sgrammaticate) del non più alto confronto che si svolge a livello nazionale.
Se nell'edilizia moderna non c'è più traccia di architettura, nella comunicazione non c'è più traccia di elaborazione concettuale: la stessa velocità con cui si prende posizione sui fatti più disparati ne è la controprova (a volte con esiti grotteschi come quando si commentano fatti inesistenti, tipo la liberazione di Sakineh Ashtiani). 
A tutto ciò si accompagna l'intolleranza verso tutto ciò che contrasta con le proprie posizioni, intolleranza che con sempre maggior frequenza sfocia nella richiesta di un qualche tipo di punizione o di rimozione dell'opinione eretica (se non dell'eretico stesso): alla confutazione si preferisce la scorciatoia della punizione; l'errore di opinione (posto che di errore si tratti) deve essere punito, non emendato.   
E così in Veneto si chiede il boicottaggio delle opere di Saviano e di altri autori -non già per quello che c'è scritto in dette opere, motivo che sarebbe peraltro già causa di orrore-,ma perchè, altrove, hanno sottoscritto il manifesto pro Battisti. 
L'intolleranza, come la peste, non ha confini: in Francia -recuperando l'istituto romanistico della damnatio memoriae- è stata mandata al macero una pubblicazione del Ministero della Cultura perchè annoverava tra le celebrità nazionali, dedicandogli due paginette, Louis Ferdinand Celine. Lo scrittore francese era uno che “sapeva avere torto”  e dall'aldilà riderà di queste piccinerie (sempre che un Aldilà esista).
Per conto mio, invece, comincio a preoccuparmi dello stato di salute delle libertà repubblicane.