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C’erano più spirito critico e vivacità culturale quando un libro costava pochi spiccioli

di Francesco Lamendola - 26/01/2011


  

Nel 1971, quando Nada e Nicola di Bari vincevano il Festival di Sanremo cantando «Il cuore è uno zingaro» (di Franco Migliacci e Claudio Mattone), mentre i Ricchi e Poveri, in abbinata con José Feliciano, si piazzavano al secondo posto con «Che sarà» (ancora di Franco Migliacci insieme a Jimmy Fontana), in Italia un litro di benzina costava 160 lire.
Un chilo di pane costava 230 lire, una bottiglia di birra da un quarto di litro 100 lire, mezzo chilo di caffè, 450 lire; e, al bar, un gelato confezionato “col bastoncino” costava dalle 100 alle 150 lire, un gelato fra due biscotti dalle 150 alle 200 lire, un caffè 70 lire, come un quotidiano; mentre un biglietto del cinema costava 2.200 lire. Allora lo stipendio medio di un lavoratore si attestava sulle 120.000 lire mensili.
Sino alla fine degli anni Sessanta, un libro degli Oscar Settimanali Mondadori costava ancora 350 lire, mentre un Oscar “classico” si aggirava intorno alle 600 lire; i tascabili della Universale Economica Feltrinelli costavano anch’essi sulle 600 lire; i Libri Pocket della Longanesi, invece, costavano sempre 350 l’uno e il prezzo sarebbe rimasto “bloccato”, eroicamente, ancora per un bel po’ di tempo. 
Anche la mitica collana «I Garzanti», che pubblicava sia opere di narrativa che di saggistica, era attestata sulle 600 lire a volume; un po’ più cari, sulle 800-1.000 lire, i titoli della collana «I Rossi e i Blu» (rosso per i romanzi e blu per i saggi), sempre della Garzanti, i quali, pur essendo anch’essi in brossura, si distinguevano per una maggiore eleganza tipografica. 
La Rizzoli, la Einaudi, la Rusconi, avevano ciascuna le proprie collane economiche, con testi mediamente ben curati; mentre i «Classici popolari» della Casa Editrice Bietti, forse, battevano ogni concorrenza nel rapporto qualità-prezzo.
Le Edizioni Paoline pubblicavano in edizione tascabile, parallelamente all’edizione rilegata, i numerosi volumi di psicologia della collana «Psychologica», ad un prezzo che variava, a seconda della grossezza, ma che comunque non superava, in genere, le 900 lire.
I romanzi gialli e quelli di fantascienza costavano ancora meno; quelli della collana «Segretissimo», per esempio, erano fermi alle 300 lire. 
Un numero della rivista mensile «Storia Illustrata», della Mondadori, costava 500 lire; ma un numero della rivista concorrente, «Historia», dell’Editore Cino Del Duca, di formato più piccolo, costava appena 200 lire; e un numero della bella rivista di geografia «Atlante», dell’istituto De Agostini di Novara, costava 600 lire. Quanto al mensile «Selezione dal Reader’s Digest», allora assai diffuso, un numero costava 350 lire.
I libri per ragazzi erano almeno altrettanto convenienti. 
C’era una collana delle Edizioni Paoline, la «500 ep», che presentava i classici delle varie letterature, appunto a 500 lire il volume (rilegato); mentre «Il filo d’erba», sempre delle Paoline, proponeva specialmente i classici delle letterature dell’Europa orientale, allora - e anche in seguito - praticamente introvabili, per una cifra di poco superiore. 
La Fratelli Fabbri, poi, offriva tutte le opere di Salgari a poche centinaia di lire, e lo stesso faceva la Vallardi; mentre la Mondadori curava la «Biblioteca degli anni verdi», i cui volumetti, benché rilegati, erano di formato tascabile e costavano altrettanto poco. Anche la Malipiero di Bologna andava forte: pubblicava numerosi classici per ragazzi in due collane parallele, identiche, tranne che per la rilegatura e per il prezzo.
Infine c’erano le case editrici più popolari, che si rivolgevano a un pubblico senza pretese, e tuttavia presentavano sia i classici della letteratura italiana e di quelle straniere, sia le opere del genere “feuilleton”, per esempio i romanzi di Carolina Invernizio, ma anche quelli di Alexander Dumas padre, sempre in edizioni economiche, con delle ingenue copertine coloratissime di sapore ottocentesco. 
Fra esse spiccava la gloriosa Casa Editrice Lucchi di Milano, che aveva pubblicato anche, per ragazzi, le opere di Jules Verne ed Emilio Salgari. In quella collana erano apparsi sia «La Divina Commedia» (con le 145, rarissime stampe di Bartolomeo Pinelli), sia «Il Decameron», sia «I Promessi Sposi», oltre a dei capolavori stranieri, in versione ridotta, come «Guerra e pace», «Resurrezione», «Delitto e castigo», «Umiliati e offesi», «Cime tempestose», «Jane Eyre», «I misteri di Parigi».
I libri si potevano anche acquistare per corrispondenza. «Gli amici della storia», delle Edizioni Ferni di Ginevra, offrivano tre volumi in sedicesimo, ma assai ben rilegati, per la cifra di 1.950 lire: in pratica, 650 lire l’uno. In effetti, erano volumi da collezione, ma anche di buon livello saggistico: fra l’altro, una monumentale «Storia moderna dell’antica Roma», formata da una trentina di volumi, ciascuno dei quali costituiva una monografia curata da uno specialista.
Oltre che per corrispondenza, i libri si potevano anche raccogliere pazientemente, facendo rilegare i singoli fascicoli che uscivano in edicola con scadenza settimanale. Ricordiamo in particolare la benemerita Casa Editrice Fratelli Fabbri, che, con questo sistema, portò nel salotto delle case di moltissime famiglie italiane i grandi capolavori della letteratura, in magnifiche edizioni illustrate, di grande formato e in più volumi: dalle «Opere complete» di Dante Alighieri, alla «Sacra Bibbia», passando per una serie di classici per ragazzi, a cominciare da «Pinocchio».
Una figura caratteristica, poi, era quella del rappresentante di libri che veniva nelle case a proporre l’acquisto rateale di grandi opere o di enciclopedie; figura che oggi tende a scomparire e che, comunque, non era così malvista come lo è ai nostri giorni, dato che molte famiglie, specialmente della piccola borghesia, sentivano il bisogno di migliorare la propria cultura e quella dei propri figli e, pertanto, non erano restie a sottoscrivere un contratto di quel genere, considerato come una sorta di investimento sul futuro.
Questa, la situazione dei libri e delle riviste di interesse culturale.
Per fare un confronto con il mercato della musica leggera, in quell’epoca un disco di vinile a 45 giri costava 850 lire (poco più di un libro in formato tascabile), mentre un Long Playing (a 33 giri) costava 3.500 lire.
Oggi un biglietto del cinema costa 7 od 8 euro, equivalenti a circa 14.000-16.000 lire, se esistessero ancora; mentre una tazzina di caffè costa 90 centesimi, che corrisponderebbero, teoricamente, a poco meno di 2.000 lire. Un libro in edizione economica difficilmente costa meno di 10 euro, pari a 20.000 lire; mentre una rivista mensile di argomento culturale, mediamente, varia dai 3,50 ai 6 o 7 euro, dunque assai meno di un libro economico.
Ciò significa che, mentre quarant’anni fa, un libro in edizione economica costava come cinque tazzine di caffè, oggi costa, come minimo, quanto 10 o 12 tazzine; mentre se, quarant’anni fa, con il costo di un biglietto del cinema si potevano acquistare ben sei libri in edizione economia, oggi il biglietto del cinema costa addirittura meno di un singolo libro in formato tascabile. Infine, allora un libro tascabile costava, in media, meno di una rivista mensile, mentre oggi il rapporto si è capovolto, ed è quest’ultima che costa circa la metà.
Quanto alla musica leggera, un Compact Disc originale singolo costa dai 14 ai 19 euro, uno doppio va dai 27 ai 29 euro: come dire che il rapporto con i prezzi dei libri, in questo caso, si è mantenuto sostanzialmente inalterato.
Sia per la musica, sia per i libri, bisogna peraltro tener conto del fatto che, oggi, moltissimi giovani, e anche meno giovani, trovano il modo di pagarli pochissimo, o addirittura niente, destreggiandosi sulla rete informatica o scambiandosi cassette registrate; per non parlare del commercio  dei libri fotocopiati.
Da queste cifre emerge, comunque, che, mentre il costo del cinema è decisamente diminuito, in confronto a quarant’anni fa (per la legge spietata della domanda e dell’offerta: migliaia di cinema hanno chiuso i battenti, e gli altri sono corsi ai ripari con le visioni multisala), quello dei libri è aumentato parecchio: e abbiamo parlato solo dei libri in edizione economica, perché quelli in edizione rilegata hanno raggiunto, specialmente presso talune case editrici, dei prezzi a dir poco proibitivi.
C’è da chiedersi a quale tipologia di acquirente appartenga chi è in grado di sborsare, come niente fosse, 55 euro per acquistare, dalla Einaudi, l’edizione in volume unico di «Alla ricerca del tempo perduto» di Proust o «I grandi romanzi» di Verga, visto che 55 euro rappresentano, più o meno, un ventesimo dello stipendio di un operaio o, se si preferisce, un decimo dell’affitto mensile medio di un appartamento. Forse un manager, che in Italia guadagna 400 volte più di un operaio; ma i manager vanno pazzi per Proust e per Verga? E, se anche così fosse, ciò significa che la cultura è ormai destinata solo ai ricchi?
Con 55 euro si fa un pieno di benzina, o quasi, per una utilitaria, vale a dire un 35 litri circa; mentre, come abbiamo visto, nel 1971 si poteva acquistare un buon libro - e sia pure non curato come lo sono «I meridiani» della Einaudi - con l’equivalente di due o tre litri di benzina. Certo, il prezzo della benzina è schizzato alle stelle, almeno in Italia (anche se il costo del petrolio non è cresciuto altrettanto), magari non in tutta Italia, dato che è più basso, non si sa perché, nelle regioni a statuto speeciale; ma non sono aumentati un po’ troppo anche i prezzi dei libri?
L’impressione è che, tutto sommato, la cultura popolare, fino all’inizio degli anni Settanta, fosse largamente fruibile da un vastissimo pubblico di persone di modeste possibilità economiche e specialmente dagli studenti e dai giovani che, non andando ancora a lavorare, dipendevano dalla “paghetta” dei genitori.
I libri tascabili, in particolare, in quegli anni conobbero un vero e proprio “boom”: si trovavano dappertutto, non solo in libreria, ma anche in edicola; presentavano opere di tutti i generi, dai classici della letteratura, alla saggistica, ai generi poliziesco e fantascientifico. 
Le copertine erano molto ben curate e accattivanti, spesso illustrate da autentici artisti, come il celebre Ferenc Pinter per gli Oscar Mondadori, dal tratto essenziale ed estremamente vigoroso, o come Karel Thole per i libri della collana «Urania» (di fantascienza, sempre della Mondadori), dall’inconfondibile segno surreale: due pittori che ancor oggi meriterebbero di essere rivalutati, poiché la loro bravura traspariva anche in quell’ambito, apparentemente modesto, in cui era come un po’ sacrificata.  
Chi è stato ragazzo in quegli anni, ricorda vividamente quelle copertine illustrate, perché esse invogliavano immediatamente a prendere in mano il libro, a sfogliarlo (non c’era ancora la esecrabile abitudine di cellofanare i libri, per impedire di scorrerne le pagine o, se c’era, i librai non erano così scortesi da proibire al cliente di lacerare l’involucro); e, se il portafoglio lo permetteva, ad acquistarlo. 
Dove vogliamo arrivare con questi ricordi e con queste cifre, affastellati forse un po’ in disordine, ma non  a caso? 
La nostra impressione è che, quando un buon libro costava solo pochi spiccioli e comunque, mediamente, assai meno di adesso, vi fossero, nella società italiana, un maggiore spirito critico ed una maggiore vivacità culturale.
Siamo perfettamente consapevoli che moltissimi altri fattori concorrevano ad alimentare quello spirito critico e quella vivacità; del resto, i libri costavano poco anche perché ve n’era una maggiore richiesta, pur restando assodato che il pubblico italiano non è mai stato un grande amante della lettura. Nel complesso, però, allora si leggeva di più e, forse, si leggeva meglio: il livello medio delle letture era, probabilmente, di qualità superiore a quello odierno. 
Giravano molti classici, ad ogni modo, sia moderni che dei secoli passati, e tanto italiani che stranieri; mentre ai nostri giorni si ha l’impressione che li si legga solo per obbligo, o perché imposti dai professori. E poi girava molta saggistica, non sempre di ottima qualità, e tuttavia, nel complesso, abbastanza stimolante e, soprattutto, molto varia.
Perfino i libri di teatro e di poesia andavano via parecchio, stando al numero delle case editrici e delle collane specializzate che se ne occupavano, nonché all’ampiezza degli autori che presentavano; mentre oggi, gli editori che pubblicano ancora libri di teatro, e soprattutto di poesia, lo fanno in pura perdita (magari rifacendosi coi prezzi sullo scolastico, che è un mercato obbligato), o perché sovvenzionati da istituzioni culturali.
Insomma, l’impressione che si ricava dal confronto fra la situazione odierna e quella di quarant’anni fa, è che oggi si sia perduto il circuito virtuoso per cui la cultura alimentava l’editoria popolare e l’editoria popolare alimentava l’editoria; e l’una e l’altra favorivano ed alimentavano lo spirito critico e la vivacità intellettuale.
Molte sono le cause specifiche di questo corto circuito e fra esse, in particolare, ci sembra di poter indicare la regressione della televisione da agenzia culturale ad agenzia puramente commerciale. Come negare, ad esempio, che sul piacere di leggere abbia inciso la realizzazione di importanti sceneggiati televisivi sulle grandi e meno grandi opere della letteratura, da «I Miserabili» a «I Promessi Sposi», da «Anna Karenina» a «I Fratelli Karamazov», da «Cime tempestose» a «I racconti di Padre Brown»; passando per «La figlia del capitano» di Puskin, «Il giocatore» di Dostojevskij, «Davide Copperfield» di Dickens, «La Cittadella» di Cronin, «L’amante dell’Orsa Maggiore» di Piasecki, «La fine dell’avventura», e «Il treno d’Istanbul» di Graham Greene, «L’isola del tesoro», «Il signore di Ballantrae», «La freccia nera» e «Jekyill e Hyde» di Stevenson, «Il fauno di marmo» di Hawthorne, «Che fare?» di Cernysevskij, «Luisa Sanfelice» di Dumas, «Il tenente del diavolo» di Maria Fagyas, «Il gioiello della corona» (dal «Quartetto indiano») di Paul Scott, «A come Andromeda» di Hoyle, «Lungo il fiume e sull’acqua» di Durbridge (con la stupenda colonna sonora iniziale «Starry night» di Don McLean), «I Buddenbrook» di Thomas Mann, «La coscienza di Zeno» di Svevo, «Il Mulino del Po» di Bacchelli, «Il cappello del prete» di De Marchi, «Lo scialo» di Pratolini, «La commediante veneziana» di Calzini, «L’Andreana» di Moretti; e perfino «L’Eneide» (impersonato da un ottimo Giulio Brogi) e «L’Odissea».
E poi, il cinema: come negare che, sull’impulso all’editoria popolare, abbia svolto un ruolo decisivo la massiccia trasposizione cinematografica di grandi libri, come «Il Dottor Živago» di Pasternak, «Il Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa, «La morte a Venezia» di Thomas Mann, «Fahrenheit 451» di Bradbury, «Senso» di Arrigo Boito, «Viaggio al centro della Terra» di Verne, «Metello» di Pratolini,  «La mia Africa» di Karen Blixen (versione peraltro assai discutibile), «Il cappotto» di Gogol’ (interpretato da un eccellente Renato Rascel), «Camera con vista» di E. M. Forster, «Anonimo veneziano» di Berto, «La ragazza di Bube» di Cassola, «Gli indifferenti» di Moravia e cento e cento altri; l’elenco sarebbe infinito.
Ma sia il cinema che la televisione, per una serie di ragioni tanto economiche quanto culturali, hanno smesso da un pezzo di investire in questo genere di operazioni; e, per ciò che riguarda il pubblico, si direbbe che oggi siano in pochi a voler davvero imparare e riflettere, e in molti, in troppi, quelli che cercano esclusivamente un intrattenimento, sia nelle pagine di un libro, sia davanti al piccolo e al grande schermo; per non dire che tanto i lettori, quanto gli spettatori del cinema e della televisione culturale, sono paurosamente diminuiti di numero.
È tutto l’insieme della cultura popolare, usando l’aggettivo “popolare” nel significato migliore del termine, ad essere fortemente in crisi, oggi. I prezzi dei libri non aiutano; ma, ovviamente, non si tata solo di questo. Le università popolari languiscono; le sale delle conferenze sono semivuote, a meno che non vi sia un grosso nome ad attirare il pubblico.
Il fatto è che tutti pretendono ormai di sapere tutto; o, in ogni caso, di non aver bisogno di sapere altro: molti, se leggono, lo fanno per passatempo o per capriccio, non per colmare una lacuna della propria cultura. Quale editore stamperebbe ancora una collana come la «Saper tutto» della Garzanti, volta a dare una informazione di base sugli svariati rami della saggistica, con quei preziosi volumi di diversi colori: azzurro per la letteratura, rosso per la storia, bianco per le scienze, marrone per la geografia? 
È un fatto: non esiste più quel genere di lettore, perché non c’è più l’umiltà di riconoscersi ignoranti; merito della scuola di massa e delle legioni di asini che ogni anno seguita a diplomare.