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Gli USA secondo Obama

di Michele Paris - 27/01/2011


 

Il secondo discorso sullo stato dell’Unione di Barack Obama martedì scorso ha, come al solito, dipinto un quadro immaginario delle condizioni attuali dell’economia e della società americana. Nel suo intervento di fronte al Congresso, il presidente degli Stati Uniti ha lanciato un appello bipartisan al rinvigorito Partito Repubblicano, promettendo in gran parte di sposarne i progetti di riduzione indiscriminata del deficit, ed ha ancora una volta ribadito la sua totale fiducia nel libero mercato come motore della crescita economica e come unico strumento per resuscitare un sogno americano di prosperità e benessere in cui a credere è rimasto ormai un numero sempre più ristretto di privilegiati.

In tutto il discorso di Obama non è praticamente emerso alcun cenno significativo alla gravità della situazione economica di un paese con una disoccupazione ancora alle stelle e con un numero di persone al di sotto della soglia di povertà in continuo aumento. Con il consueto e vago ottimismo, Obama ha rievocato i tradizionali valori americani della solidarietà e della perseveranza nel raggiungimento degli obiettivi, rilanciando nel contempo la sfida della competitività in un mondo globalizzato, da vincere attraverso un modello industriale “diverso” e innovativo.

Le parole di Obama sono state accolte da un Congresso animato da un clima di riconciliazione tra i due partiti dopo le tensioni che avevano contraddistinto il discorso sullo stato dell’Unione di dodici mesi fa. Un’atmosfera dettata in parte dallo shock della recente strage di Tucson, nella quale la deputata democratica Gabrielle Giffords è stata ferita molto gravemente, ma soprattutto dall’accordo più o meno esplicito raggiunto tra Casa Bianca, democratici e repubblicani, sulla strada da seguire nei prossimi mesi. Un’intesa che appare il risultato delle elezioni di medio termine dello scorso novembre e che sarà fondamentalmente indirizzata all’obiettivo che senza alcuna esitazione lo stesso Obama ha indicato nel suo discorso, e cioè “trasformare l’America nel posto migliore del mondo per fare affari”.

Lo scrupolo del presidente nei confronti dell’aristocrazia economica e finanziaria statunitense è apparso chiaro fin dall’apertura del suo discorso. Senza citare le sofferenze che affliggono tuttora le classi più disagiate del paese, Obama ha parlato di una crisi ormai superata, come dimostrerebbe sia la risalita degli indici di borsa, sia la crescita dei profitti delle corporation. Che queste ultime rappresentino d’altra parte l’esclusivo referente politico di Obama e dell’intera classe politica americana è chiaro da tempo, nonostante l’illusione dei liberal e degli ambienti della sinistra da entrambe le parti dell’oceano.

Per questo motivo, i provvedimenti già avallati dal presidente negli ultimi mesi, come il prolungamento dei tagli alle tasse per i redditi più alti o l’inclusione nel proprio staff di nuovi membri provenienti dal mondo del business, saranno presto seguiti da ulteriori iniziative dello stesso stampo. A ciò ha fatto riferimento Obama parlando della necessità di svincolare l’economia da regolamentazioni superflue o di riformare il sistema fiscale, abbassando le tasse per le grandi aziende, a suo dire le uniche strade per creare nuovi posti di lavoro.

In poco più di un’ora, Obama ha così tessuto le lodi del capitalismo americano, senza accennare alle responsabilità di un mondo degli affari che ha portato l’economia mondiale sull’orlo del baratro non più di due anni fa, causando la rovina di milioni di persone. Allo stesso modo, nell’urgenza di implementare manovre per il contenimento di un deficit pubblico fuori controllo, Obama ha mancato di dire agli americani che l’esplosione della spesa é dovuta in gran parte ai colossali piani di salvataggio per le banche di Wall Street che oggi raccolgono profitti miliardari mentre il resto del paese dovrà pagarne il conto con tagli ai programmi pubblici più popolari. Non sorprende quindi che nell’unica concreta proposta uscita dallo stato dell’Unione, Obama abbia invocato il congelamento delle spese domestiche per i prossimi cinque anni.

L’altra ossessione repubblicana che Obama ha fatto sua e, sia pure con qualche distinguo, ha riproposto nel suo intervento è la necessità di una macchina pubblica meno invasiva. Un governo federale più leggero ma pur sempre necessario, secondo l’inquilino della Casa Bianca, soprattutto per garantire la “sicurezza nazionale”, ma anche per sostenere con massicci finanziamenti quelle aziende private che altrimenti non sarebbero disposte ad investire nell’innovazione tecnologica e nel risparmio energetico.

Una lunga parte del discorso è stata dedicata poi al sistema scolastico. Obama ha ricordato i progressi che ancora devono essere fatti per aumentare il livello della scolarità dei giovani americani. L’appello alle nuove generazioni a seguire una carriera nell’insegnamento contrastano però con la politica portata avanti dalla sua amministrazione in questi due anni, fatta di chiusure di scuole pubbliche e licenziamenti di migliaia di insegnanti. Alla promozione degli istituti privati va anche aggiunta l’impennata generalizzata delle tasse universitarie, spesso a livelli insostenibili, per far fronte ai tagli dei budget decisi a livello statale e federale.
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Il vanto, in definitiva, della “più grande e prosperosa economia del pianeta” dimostra il sostanziale disinteresse di Obama per i redditi più bassi, dal momento che da quella prosperità un numero sempre crescente di cittadini risulta esclusa, tanto che la condizione dei lavoratori e della classe media negli USA ha perso costantemente terreno rispetto a molti altri paesi in Occidente. In questo ambito, il presidente americano ha quanto meno riconosciuto le difficoltà nel trovare un lavoro stabile e ben pagato in un panorama di devastazione che accomuna ormai molti stati americani.

Per Obama tale situazione è dovuta tuttavia ad un mondo che è cambiato irreversibilmente, soprattutto in seguito all’innovazione tecnologica. La trasformazione avvenuta in questi decenni appare ai suoi occhi un processo del tutto naturale e non piuttosto il risultato di deliberate politiche ultraliberiste che egli stesso continua a sostenere e che hanno eroso progressivamente le faticose conquiste dei lavoratori, distruggendo un tessuto industriale che aveva contribuito all’avanzamento sociale di milioni di famiglie della working-class.

Oltre alla ribadita disponibilità al dialogo con i repubblicani per studiare eventuali modifiche ai provvedimenti presi dalla maggioranza democratica nei primi due anni del suo mandato, Obama non ha mancato infine di citare rapidamente le avventure belliche degli Stati Uniti. Anche in questo caso la sua retorica, a dire il vero meno ispirata rispetto ad altre uscite pubbliche, ha delineato uno scenario fantasioso circa i presunti progressi in Iraq e in Afghanistan, ovviamente tralasciando gli effetti collaterali sui civili e le vere ragioni della presenza americana in aree geo-strategiche fondamentali per gli interessi del paese.

Nell’annuale messaggio presidenziale al Congresso previsto dal secondo articolo della Costituzione americana, Barack Obama ha dunque prospettato chiaramente il percorso che la sua amministrazione intenderà seguire in questo anno che precede la campagna per la rielezione del 2012. Su un piano più generale, invece, il presidente democratico, come molti suoi predecessori, ha presentato l’Unione in uno stato di salute decisamente migliore di quanto non appaia veramente. Ciononostante, all’America più sofferente non può sfuggire la realtà di un paese in declino e sempre più incapace di garantire il benessere di ampi strati della sua popolazione nonostante l’enorme ricchezza prodotta.