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Italia più longeva? Un Paese di anziani destinato al declino

di Massimo Fini - 30/01/2011

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L’Istat ci informa che la vita degli italiani si è ulteriormente allungata: 84 anni per le donne, 78 per gli uomini. Gli ultracentenari sono triplicati. Gli over 85 sono il 2,8% della popolazione, nel 2001 erano il 2,2, gli over 65 sono il 20,3%, dieci anni fa erano il 18,4. Sembrano buone notizie, ma non lo sono. Anche perchè hanno come contraltare il fatto che l’Italia continua ad avere il più basso tasso di natalità al mondo e che i giovani intorno ai vent’anni sono solo 500mila, meno dell’un per cento. L’età media degli italiani è di 43 anni e mezzo, quella dei tunisini è di trent’anni. Siamo un Paese di vecchi.
Un Paese di vecchi è svuotato di energie. Se capita talvolta che uno stupro o una rapina siano sventati dall’intervento di qualcuno, è, di solito, un rumeno, un rom, un albanese, uno slavo. Gli italiani si girano dall’altra parte. Perchè romeni, rom, albanesi, slavi hanno una vitalità, e anche un’aggressività, che noi abbiamo perduto e questa è una delle ragioni che ci rende così difficili i rapporti con gli immigrati.
Un Paese di vecchi pensa vecchio. E costringe a pensar vecchio anche i suoi pochi giovani. Non per nulla, siamo ancora arroccati su categorie politiche, destra e sinistra, che hanno più di due secoli e mezzo e perennemente intrappolati in polemiche catacombali: sulla Resistenza, il fascismo, l’antifascismo, il comunismo, l’anticomunismo, l’Olocausto, il Sessantotto. Non è affatto vero che la memoria sia sempre una buona cosa. Un eccesso di memoria è un ostacolo alla vita. I giovani non hanno memoria e hanno il diritto di non averla. I vecchi stan sempre a rivangare le vecchie cose - perchè gli ricordano la loro giovinezza - mentre il presente gli sfugge fra le dita come l’acqua di una crudele Fata Morgana. Un Paese di vecchi è un Paese triste. Perchè il vecchio, anche se da noi si cerca di occultare in tutti i modi questa realtà e si nega addirittura la dimensione della vecchiaia dandole nomi diversi, è a costante confronto con la morte e c’è poco da stare allegri.
Questo vertiginoso aumento dell’età fa sì che dei vecchi, già logori, stanchi e acciaccati per conto loro, debbano occuparsi, senza averne le energie, di genitori ultraottantenni ancora più logori, stanchi e acciaccati. Basta guardarsi intorno per vedere che una buona fetta di over 60 è in questa situazione che limita la loro già limitata esistenza.
Particolarmente penosa è la condizione del vecchio in Occidente. Terribile è la sua solitudine, che non risparmia nessuno, nemmeno gente famosa e facoltosa come ci dice il suicidio di Mario Monicelli. Del resto, è da parecchi decenni che si assiste a un fenomeno del tutto nuovo: il suicidio del vecchio. Perchè la condizione del vecchio in una società industriale è diversissima da quelle del vecchio in una società agricola. Quest’ultimo vive la sua vecchiaia circondato dai figli, dai nipoti, dalle donne, dai bambini (in Europa solo il 3,5% degli anziani vive in famiglia), resta il capo del gruppo, conserva un ruolo e quindi la sua esistenza ha un senso. Nella società industriale il vecchio (e spesso anche chi non è ancora biologicamente tale) è continuamente superato dai rapidissimi cambiamenti tecnologici. Non è più lui a insegnare ai giovani, ma i giovani a lui. Per dirla con lo storico Carlo Maria Cipolla: "Nella società agricola il vecchio è il saggio, in quella industriale un relitto".