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Inquietudini egiziane

di Roberto Zavaglia - 07/02/2011

Il più grottesco, nell’esprimere l’imbarazzo delle classi dirigenti occidentali rispetto alla situazione in Egitto, è stato Tony Blair che ha invocato un “cambiamento stabile”. L’inedito ossimoro equivale all’auspicio gattopardesco che cambi tutto affinché nulla cambi, fatto proprio dalla maggior parte dei commentatori. Dopo i primi giorni in cui i media hanno obbedito al riflesso condizionato di simpatia per ogni rivolta “in nome della libertà”, adesso sono i dubbi e le preoccupazioni a prevalere. Attenzione, si ripete, questa non è una delle tante rivoluzioni colorate con le quali si può spensieratamente solidarizzare: all’orizzonte si intravedono gravi pericoli per l’Occidente.
  Sembra di capire che bisogna fare di tutto per evitare che gli egiziani si facciano del male con le loro stesse mani. Prendiamo, per esempio, uno dei più celebrati interpreti dell’ideologia dei diritti umani, come Bernard-Henri Levy, il quale scrive: “ La democrazia si impara rapidamente; nulla e nessuno, lo ripeto, può far sì che una società sia condannata alla non-democrazia; salvo il fatto –sarebbe assurdo negarlo- che la maturità del popolo tunisino, la sua cultura politica, il suo livello di alfabetizzazione non si trovano, per ora, né nelle zone rurali dell’Alto Egitto, né nelle megalopoli del Cairo”. Il concetto, dunque, è che prima di lasciare esprimere liberamente le persone bisogna accertarsi che siano più o meno uguali a noi e la pensino suppergiù alle stesso modo, altrimenti potrebbero sbagliarsi.
  I tunisini sarebbero pronti per delle libere elezioni, mentre c’è il rischio che gli egiziani potrebbero votare diversamente da come vorrebbe Bernard-Henri Levy. Quelli che ragionano come il filosofo francese, però, non si maceravano nel dubbio sul grado di “maturità” delle nazioni in cui Bush voleva esportare a mano armata la democrazia. In Iraq, probabilmente, credevano che le bombe intelligenti avrebbero reso intelligenti anche quelli che se le vedevano piovere sulla testa. Non bisogna, invece, in questo caso, buttare il bambino con l’acqua sporca: Mubarak avrà commesso  degli errori, ma ci ha preservato da gravi minacce. “Fidatevi lo rimpiangeremo. E non solo noi, ma anche molti egiziani accampati a piazza Tahir”; scrive infatti Gian Micalessin sul “Giornale”. Sul più istituzionale “Corriere della Sera” Antonio Ferrari non si esprime in termini molto diversi: “Non è giusto gettare l’ombra dell’infamia politica su Hosni Mubarak: un uomo, magari discutibile, che ha saputo per 30 anni essere la bandiera di un Islam moderato contro i brutali eccessi di un fanatismo insopportabile e pericoloso”.
  L’autocrate non se n’è ancora andato e già lo si rimpiange. Il problema è che il mostro imprigionato dal rais potrebbe ora scatenarsi. Il mostro è rappresentato dai terribili Fratelli musulmani che aspetterebbero solo il momento buono per instaurare la più oppressiva delle teocrazie, per aggredire Israele e, forse, anche l’Occidente. La “Fratellanza” è però un movimento con una lunga vicenda alle spalle, che ha conosciuto numerosi cambiamenti e, tuttora, non è così monolitico come si crede. Fin da pochi anni dopo la sua fondazione, avvenuta nel 1928 sotto la guida carismatica di Hasan al-Banna, ha conosciuto un notevole successo che gli ha consentito anche di espandersi in quasi tutti i Paesi arabi.
  I Fratelli Musulmani, che sono la originaria matrice ideologica di tutti i movimenti politici islamisti, compresi quelli che da posizioni radicali li hanno in seguito duramente contestati, non hanno mai governato il Paese, nonostante la loro popolarità, perché sono stati  messi fuori legge durante quasi tutta la loro storia. Con Nasser, che proclamava la necessità di un socialismo arabo, rivendicandone un’identità islamica opposta al socialismo scientifico, vi fu, inizialmente, una certa convergenza sul programma delle riforme sociale. Poi, il regime, non tollerando alcuna concorrenza, scatenò una durissima persecuzione contro il movimento. Con Sadat e Mubarak le cose sono andate in maniera simile: al dialogo, con il quale i due presidenti cercavano di legittimarsi sfruttando il consenso dei “Fratelli”, è seguita una repressione che, ancora oggi, tiene in carcere migliaia di militanti.
  Il movimento islamista, non potendo esprimersi sul piano politico, ha scelto una strategia che, in qualche modo, assomiglia all’egemonia teorizzata da Gramsci. Muovendosi sul piano sociale e culturale, i “Fratelli” hanno conquistato, oltre ai ceti popolari, una larga parte della borghesia religiosa ed oggi sono fortemente presenti nei sindacati di professione, come quelli dei medici, degli ingegneri, degli avvocati, dove è possibile esprimere un certo dissenso verso il regime. Del tutto estraneo al fenomeno del terrorismo jihadista che ha insanguinato l’Egitto dalla metà degli anni Ottanta fino alla strage di Luxor del 1997, il movimento, negli ultimi vent’anni, ha insistito su tematiche “secolari”. In accordo con altri gruppi del dissenso non islamisti come “Kifaya”, al fianco dei quali sono oggi in piazza, i la “Fratellanza” invoca la fine dello stato d’emergenza, il rispetto dei diritti dell’uomo, la libertà di fondare partiti e sindacati indipendenti.
  Anche se la meta finale del movimento rimane lo Stato islamico, molti fra i più qualificati studiosi di questo fenomeno ritengono che gli islamisti siano sinceri quando proclamano di avere scelto la via democratica. Gli Stati Uniti, nel loro incondizionato sostegno agli autocrati arabi, almeno fino a ieri, hanno ignorato l’evoluzione dei movimenti islamisti moderati, mettendoli nello stesso calderone dei gruppuscoli terroristi jihadisti. E’ stato un errore che oggi alimenta la preoccupazione delle cancellerie occidentali che, nella rivolta egiziana, vedono le premesse per l’ascesa al potere di un movimento potenzialmente ostile, con il quale non hanno alcun dialogo. Sarebbe giunto il momento di rimediare, abbandonando i preconcetti e non commettendo lo stesso errore fatto in Algeria nel 1991. Anche allora nel Fronte islamico di salvezza c’erano settori moderati, ma si preferì abbandonarli al proprio destino appoggiando il golpe dei militari. La conseguenza della cancellazione della volontà espressa dalla grande maggioranza del popolo fu, inevitabilmente, la guerra civile costata centinaia di migliaia di morti.
  Pur non avendo simpatia per i regimi teocratici né sapendo con dire con certezza se i Fratelli musulmani credono veramente, come oggi affermano, nel pluralismo politico, ci chiediamo come mai quanti si riempiono quotidianamente la bocca con i diritti umani non valutino il pericolo del ripetersi, in Egitto, della tragedia algerina. Al Cairo, poi, la rivolta non è certo diretta dagli islamisti, ma rappresenta la naturale reazione del popolo per un regime sempre più insopportabile. Non è affatto detto che da libere elezioni uscirebbero vincitori i Fratelli musulmani. Washington che, con i suoi quasi di due miliardi dollari annui di aiuti, ha sorretto il potere di Mubarak, dovrebbe abbandonare l’idea di un “aggiustamento cosmetico”, cercando in Suleiman o in altri personaggi screditati un sosia presentabile di Mubarak.
  Permettere agli egiziani di effettuare liberamente le proprie scelte significa, per gli Usa e i loro alleati, perdere un regime amico, disposto anche ad accondiscendere alle richieste più sordide come le “extraordinary rendition”, note in Italia soprattutto per il caso Abu Omar. Sul piano della realpolitik, in cambio, non ci sarebbero certezze, ma forse si otterrebbe, se non è troppo tardi a causa degli errori commessi, la diminuzione dell’ostilità popolare verso l’Occidente. Questo sarebbe davvero il “nuovo inizio” nei rapporti con il mondo arabo offerto, per ora solo a parole, da Obama.