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Evola e la civiltà americana

di Marco Iacona - 09/02/2011

Fonte: scandalizzareeundiritto


Nel corso della vita, Julius Evola ha riservato un’attenzione particolare a ciò che accadeva al di là dell’Atlantico, ed essenzialmente per tre motivi: il primo riguardava l’avversione alla civiltà del danaro e capitalistica, alla società dei consumi e dello spettacolo e all’omologazione, tipiche della mentalità americana; il secondo riguardava le vicende politiche del nostro Paese (in special modo: patto Atlantico sì-patto Atlantico no); il terzo (considerato, a volte, qualche passo al di qua del negativo), concerneva le dottrine e le tendenze culturali dell’Occidente e dunque quel che accadeva nel controverso ambito intellettuale, all’interno del “mondo moderno”.
 Nel primo caso l’avversione evoliana alla “civiltà americana” era abbastanza netta; nel secondo, la necessità di avere degli alleati (in politica) consigliava al filosofo di origini siciliane di tenere un atteggiamento prudente (e dunque dire “sì” all’influenza politica americana in Italia); ma anche nel terzo caso le posizioni evoliane restavano sfumate, perché il filosofo prendeva in considerazione i fenomeni culturali provenienti dal “nuovo mondo” e li analizzava dall’“interno” al meglio delle proprie “possibilità”.
 Quale il risultato complessivo dal punto di vista del “peso” intellettuale delle critiche? Difficile dire (come per gran parte delle “cose evoliane”). Per alcuni, tuttavia, e se si vuol dar retta agli studiosi che hanno “contraccambiato” l’interesse evoliano per i fenomeni stelle-e-strisce, non era in assoluto positivo.
 Richard Drake, ad esempio, professore all’Università del Montana, rispondendo a due precise domande sul rapporto fra Evola e gli Stati Uniti (Marco Iacona, Il maestro della Tradizione, Controcorrente, 2008), ha avanzato alcune critiche circa l’antiamericanismo evoliano. «Per certi versi l’analisi evoliana degli Stati Uniti fu giusta e penetrante … ma non è tutto», dice Drake, perché «Evola non capì nulla delle fonti della potenza americana, non solo della capacità produttiva del Paese, ma anche delle sue tradizioni religiose, che egli giudicò, appunto, come sistemi decisionali poco più che assurdi. In La Democrazia in America, Alexis De Tocqueville segnalò queste tradizioni come la vera fonte dell’alto livello di fiducia del Paese in se stesso e della sua missione nel mondo. L’idea di Tocqueville rimane valida, oggi, anche e soprattutto quando queste tradizioni vengono macchiate… Ma Evola non vide nulla delle tesi profonde di Tocqueville. Nella sua tendenza a giudicare gli Stati Uniti come un Paese storicamente invalido, Evola perdeva contatto con quel realismo che quasi sempre illuminava i suoi scritti culturali». All’interno di queste affermazioni abbastanza nette, tanta “sostanza” su cui riflettere. Naturalmente.
 Punto di partenza (perché no?), proprio un recentissimo volume sull’“antiamericanismo” di Julius Evola. La fondazione “Julius Evola”, guidata da Gianfranco de Turris, ha infatti ripubblicato a cura di Alberto Lombardo una raccolta di articoli del “maestro della Tradizione”, originariamente pubblicati nel lungo intervallo di tempo 1930-1968 e parzialmente proposti già nel 1983 col titolo (confermato) di “Civiltà americana” (quaderno evoliano nr. 45, Controcorrente 2010, pp.86, 10 euro). Come ricorda Lombardo nel suo saggio introduttivo (“La tenaglia si è chiusa”), si tratta di articoli che «riguardano principalmente gli sviluppi del costume nordamericano negli anni del secondo dopoguerra». Materiali fondamentali per comprendere il rapporto (assai delicato) fra il pensiero evoliano e, appunto, la civiltà “americana”.
 Fra i quattordici articoli presentati, ne scegliamo uno (paradigmatico) di critica alla mentalità materialistica (“Libertà dal bisogno” e umanità bovina - 1953). Mentalità secondo cui la meccanizzazione della società americana e la liberazione dell’uomo dal bisogno del lavoro materiale, condurranno presto o tardi all’edificazione di una società felice. Era un pensiero “tipico” da anni Cinquanta, ovviamente, ed è altrettanto ovvio che le critiche evoliane, di stampo “classico” appaiano, qui, del tutto motivate. Ma il taglio polemico dell’articolo o magari le conoscenze o le ragioni “intellettuali” dell’autore di Rivolta contro il mondo moderno, non permettono al filosofo di penetrare (in questo preciso momento), le “soluzioni” in controtendenza rispetto a quella civiltà “dell’avvenire”, citata con la giusta dose d’ironia. Sia dal cotè conservatore sia da quello progressista.
 A questo punto però ripassiamo, velocemente, il saggio evoliano La gioventù, i beats e gli anarchici di destra (originariamente pubblicato alla fine degli anni Sessanta su Julius Evola, L’Arco e la clava, e ultimamente ripubblicato in Riccardo Paradisi – a cura di – Apolitia scritti sugli orientamenti esistenziali, Controcorrente, 2004), per cercare di comprendere il rapporto fra l’evolismo e il tema della ribellione alle consuetudini dell’ultima metà del secolo. La base di partenza della protesta (parliamo della protesta beat, ovviamente) è perfettamente condivisa da Evola, il quale però giudica la prassi del beat come una reazione istintiva a un male “reale” (ma ricordiamo che anche Nietzsche partiva dalla valorizzazione dell’istinto), le “pratiche” beat – quelle della pericolosità del vivere – vengono poi affiancate a quelle della “Via della mano sinistra”, di cui Evola ha scritto in Metafisica del sesso, ma con un deficit di parte positiva (le spinte verso il “sacro” cui parla Evola coincidono solo in parte con le pratiche Zen).
 “Evolismo” e beat si possono dunque considerare come due strade parallele, o meglio due percorsi che si incrociano ma sembrano condurre a destinazioni diverse. Le strade fra evoliani e beat sono comuni, come potrebbero essere comuni le strade di dieci-cento-mille ribelli “post-nietzscheani”. Semplificando potremmo dire che il rapporto Evola-generazione beat (ovviamente parliamo dei suoi massimi esponenti) è dunque molto simile al rapporto fra Evola e Nietzsche, un “legame” che qui si gioca tutto sul rifiuto ragionato del benessere e dell’ottimismo, sulle istanze di libertà (dunque libertarie) o, per utilizzare un linguaggio che strizza l’occhio alle pratiche orientali, di “liberazione”.
 È questo peraltro quello che intende Lombardo quando tratta, con obiettività, il rapporto anch’esso da approfondire fra Evola e le nuove istanze dei ribelli alla globalizzazione. «L’idea di un “Evola no global” sarebbe di per sé corretta», chiosa Lombardo, il problema anche stavolta è quello di individuare i “militi” del pensiero e della prassi no-global. Ma quelli veri, però… Difficile che fra questi possano rientrare i figli di notai o prefetti o categorie non proprio “svantaggiate” colte da pulsioni “democratiche” legate all’acne giovanile. Né fra i no-global rientrano «personaggi di vario tipo che nei fine settimana, smessi gli abiti borghesi, si danno agli espropri proletari di Dvd o di pranzi a base di crostacei», scrive ancora Lombardo.
Escluso, ovviamente, il ricorso alla violenza, la questione si gioca e si giocherà dunque sul rapporto effettivo fra libertà (tutte le libertà) e rispetto verso i popoli e le minoranze. E qui l’America non è né peggiore né migliore di tante altre “realtà politiche” (forse, attualmente, solo più forte…). La demagogia è bene stia fuori dalla porta. Naturalmente.