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Uomini e no

di Marco Iacona - 14/02/2011

Fonte: scandalizzareeundiritto


“Te la do io l’America”, diceva quel tale. Sì, ma quale America? L’America di Elio Vittorini forse? L’America di Edgar Allan Poe, William Faulkner e John Fante? Gli autori che il siciliano di Siracusa tradusse a cominciare dagli anni Trenta? O l’“America” che Vittorini stesso inserì all’interno della nota antologia Americana (uscita per Bompiani) e che poté pubblicare solo nel 1942, peraltro incompleta di note e interventi del curatore? Sì, quest’America qui la vorremo ancora, la vorremmo tutti. L’America che si lasciava scoprire dagli intellettuali cresciuti a pane e italianità e che correva lungo il filo di un governo che tentava la via autarchica anche nelle lettere, in realtà non riuscendoci mai. L’America che appariva nelle fantasie dei sognatori al di qua del mediterraneo quasi come il “deserto dei tartari” agli occhi del capitano Drogo. Minacciosa e misteriosa a un tempo. Un mito vivente, un regno di indecifrabili libertà, “patria” eletta del moderno e del fantastico insieme.
 Vittorini, come Pavese, come quegli autori che hanno contribuito a far sì che l’Italia diventasse un po’ più “americana”, ci ha lasciato in eredità un preziosissimo bagaglio di suggestioni e di passioni da coltivare; lui così “inguaribilmente” siciliano, anarchico nello spirito, ha sentito il richiamo di una cultura (e di una lingua), che era impossibile “possedere” o “circoscrivere”, e al più poteva essere “esportata” come un bene prezioso. Adesso, impossibile dargli torto. Il 12 febbraio scorso cadeva il quarantacinquesimo anniversario dalla morte di Vittorini, un uomo che, come tanti della sua generazione – citiamo due autori certo diversi come Longanesi e Calvino – dovette fare i conti con il secolo delle ideologie, e che si barcamenò fra “fedi” diverse, non riuscendo mai a far innamorare di sé chi, in quel momento, manovrava le leve del potere. Adesso, possiamo dire che fu tutt’altro facile.
 Non fu facile per lui come per chi credeva che la cultura possedesse – proprio perché cultura – un proprio grado di autonomia dalla politica; non fu facile per chi credeva che la cultura fosse rivoluzionaria “a prescindere”; non fu facile scontarsi con chi – di destra o di sinistra che fosse – credeva di tenere i destini del mondo nelle proprie mani. Si trattasse di Mussolini (o di un “semplice” mussolinista) o di Togliatti. Il risultato, a “bocce ferme” fu quasi identico per tutte le occasioni. La derisione e lo scherno. Sono nelle menti di tutti le frasi provocatorie di Togliatti (personaggio, tuttavia, oramai quasi scomparso dai ricordi del “tempo che fu”) con le quali il “Migliore” si congedava da Vittorini che nel 1951 lasciava il Pci in polemica col suo leader: «Vittorini se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato!».
 Se di un Togliatti, soprattutto di quello che poteva rappresentare a quel tempo, oggi non avremmo francamente alcun bisogno, di Vittorini invece, «in questi tempi di bipolarismo coatto», per usare le parole di Roberto Alfatti Appetiti, (Secolo, 11 luglio 2007), «ce ne sarebbe un gran bisogno, anche per evitare di sobbalzare ad ogni starnuto della politica…». Piaccia o no, l’Elio di Siracusa è stato quel che si dice un termometro del contesto culturale italiano, a volte perfino un metronomo per averne segnato “tempi” e modi”; ma se oggi ha senso parlare di una “cultura politica” – qualunque essa sia – che si mantiene distante dal padrone, che non vuole ingraziarsi il potere, né accarezzarlo dal verso giusto, il modello, uno dei modelli, non può che essere il suo percorso di vita.
 Apparentemente la storia di Vittorini è quella di un “qualsiasi” siciliano che decide di andare al nord in cerca di nuove prospettive. Dapprima lavora come contabile in un’impresa di costruzioni in Friuli Venezia Giulia, poi agli albori dei Trenta si trasferisce a Firenze – un faro per chi ha desiderio di intraprendere una carriera intellettuale – dove fa il correttore di bozze presso la “Nazione”. Studia, legge, frequenta le “Giubbe rosse” e collabora ai periodici di Regime. Nel ’29 collabora a “Solaria” piccola ma importante rivista toscana che guarda con attenzione al romanzo europeo ed extraeuropeo e molto meno a quanto accade in Italia. i primi romanzi li pubblica lì. La sua gavetta è questa… Già nel 1934, a causa di un’intossicazione da piombo, cambia mestiere e decide di vivere solo con le traduzioni dall’inglese e l’attività di consulente editoriale.
 Da questo momento e fino alla morte (1966), non si annoia granché. Fra alti e bassi il suo distacco dal fascismo è databile 1936. Impossibile fino a quel momento inquadrarlo fra chi è convinto che il Regime stia operando per il bene “assoluto”; per lui, anarchico e rivoluzionario nel sangue, è preferibile la definizione complicata e stimolante di “fascista di sinistra”. Durante la guerra civile spagnola scrive sul Bargello che i fascisti italiani è bene che appoggino i repubblicani antifranchisti. Non è uno  scherzo da poco. D’altra parte, e da un po’, i suoi discorsi non sono in linea con le tesi fasciste “ortodosse”, e in un ambiente che di sereno non ha molto, se ne accorge chi conta; lui però anticipa tutti e – da uomo libero - riconsegna la tessera fascista. È il primo strappo da qualcosa dal quale, in definitiva non crede fino in fondo (le sue parole verso i ragazzi di Salò, saranno, in seguito, durissime). A parte il polemico Conversazione in Sicilia del 1941 (apparso a puntate sul “Letteratura” nel ’39) nel suo Uomini e no, del ’45 (primo esperimento neorealista), la condanna del fascismo non si riduce a solo un “affare” di politica.
 Non si stanca mai. Nel ’39 è a Milano a dirigere la collana “La Corona” per Bompiani, poi si avvicina al Partito comunista clandestino, partecipa alla Resistenza, dirige l’edizione milanese dell’Unità e fonda una delle riviste più note del dopoguerra: “Il Politecnico”. Vessillifera del clima ottimistico e dimora naturale dell’intellettuale che vuol lottare contro le sofferenze e non si limita all’appello consolatorio. Un’esperienza emblematica ma di soli due anni. Presto si consuma il secondo strappo “politico” di Vittorini l’anarchico, e stavolta da Mario Alicata e Togliatti. La causa? Semplice: in anni nei quali la vittoria “definitiva” sembra ancora a portata di mano, i comunisti poco apprezzano ciò che non li riguarda (l’acqua al mulino degli altri) e poco apprezzano la varietà dei temi del “Politecnico”. Rivista “bella” dentro e bella fuori. Vittorini è uno di quelli che non ama suonare il “piffero per la rivoluzione” (non è nel suo stile e nelle sue intenzioni) e scrive con franchezza che è necessità dello scrittore di non sentirsi vincolato esclusivamente alle esigenze della politica. Risultato certo, anche qui, è il divorzio.
 Sempre più convinto del potere della cultura, dirige, dal 1951, una collana editoriale per Einaudi (“I Gettoni”), scoprendo, fra gli altri, Beppe Fenoglio. Dopo aver fondato e diretto con Calvino “Il Menabò”, attenta ai risvolti in campo industriale, nei Sessanta guida un’altra prestigiosa collana di libri “La Medusa” per Mondadori.
Muore a soli 58 anni, davvero troppo presto per uno come lui. E per quelli come noi.