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A quale genere di vita apparteneva la creatura «piovuta» ad Omsk una notte del 1972?

di Francesco Lamendola - 16/02/2011




Gli uomini pensano in maniera antropocentrica: sembrerebbe una verità talmente ovvia da costituire  una tautologia; come potrebbero pensare diversamente?
Eppure, epoche ritenute meno evolute della nostra, ad esempio quella medievale, si sforzavano di pensare assai più in grande, ossia di porsi da un punto di vista più elevato, teocentrico. Si obietterà che il pensiero teocentrico è, anch’esso, una forma di pensiero antropocentrico, perché gli uomini non possono pensare Dio se non secondo le loro categorie mentali, semplicemente ampliando e perfezionando gli attributi della propria natura: la temporalità diventa eternità, la spazialità diventa infinità, l’ignoranza diventa onniscienza, e così via.
Il fatto significativo, tuttavia, non è l’antropomorfismo, più o meno ingenuo, di questo modo di pensare; bensì il serio sforzo per oltrepassare la soggettività del punto di vista umano ed abbracciare, almeno idealmente, tutta la vastità e la complessità del reale, di cui l’uomo è solo una parte. Tanto è vero che l’uomo ha incominciato a divenire una grave minaccia per la sopravvivenza delle altre specie viventi, e dello stesso pianeta che lo ospita, a partire da quando ha assolutizzato il proprio ruolo e le proprie facoltà conoscitive, ossia allorché ha rinunciato a tale sforzo di superamento di sé, espressione di una profonda umiltà intellettuale, per inorgoglirsi della propria ragione ed ergersi a padrone e dominatore del mondo: cosa che, in epoche meno tecnologicamente evolute, non si era mai sognato di fare.
Una delle conseguenze dell’aver innalzato il pensiero antropocentrico dalla condizione di verità provvisoria e parziale a quella di unico metro per la comprensione dell’universo e dell’agire su di esso, è stata la svalutazione di tutti gli altri viventi al ruolo di meri strumenti nelle mani dell’uomo stesso, privi di una dignità propria, ridotti anzi - come voleva Cartesio - a pura sostanza estesa, cioè a degli automi senz’anima e senza volontà (si vede che il filosofo francese non aveva mai fatto amicizia con un cane).
L’arroganza speculativa e la pericolosità pratica del moderno pensiero antropocentrico appaiono particolarmente obsoleti nell’era delle esplorazioni spaziali, quando si pone concretamente, almeno in via teorica, la possibilità di venire a contatto, in un modo o nell’altro, con forme di vita aliene, delle quali nulla sappiamo, ma che tendiamo ad immaginare - se mai le immaginiamo - come sostanzialmente simili a quelle terrestri.
Insomma, alle accresciute capacità tecnologiche, che hanno spalancato nuovi orizzonti di conoscenza, fino a ieri quasi impensabili, non si è affatto accompagnata una crescita della consapevolezza intellettuale e spirituale: l’uomo ha continuato a porre se stesso come unità di misura di tutto il reale, immaginando che il fenomeno “vita” debba essere qualcosa che culmina in creature simili a sé o, al massimo, in creature che possiedono, quantitativamente potenziate, le sue medesime caratteristiche, prima fra tutte la tendenza al dominio e alla manipolazione del reale, piuttosto che alla umile ed amorevole contemplazione di esso.
L’atteggiamento che l’uomo, specialmente a partire dalla modernità, ha mostrato nei confronti degli altri viventi del suo stesso pianeta, è lo specchio dell’atteggiamento che egli idealmente assume nei confronti di qualunque altra forma di vita presente nell’universo: in questo senso, la letteratura ed il cinema di fantascienza sono una spia preziosa, così come lo sono le motivazioni, essenzialmente economiche e militari, che stanno alla base degli svariati programmi di esplorazione degli altri corpi celesti.
Non solo.
L’atteggiamento, teorico e pratico, assunto dall’uomo verso gli altri viventi della Terra, è parte di un più vasto atteggiamento nei confronti del reale: che si caratterizza sempre più, a partire dal tardo Rinascimento, nel senso della manipolazione indiscriminata, dello sfruttamento sistematico e della costante sopravvalutazione di se stesso, cioè in una “hybris” che tende a fare dell’uomo il Dio di se medesimo e dell’universo tutto.
Già ne «La tempesta» di Shakespeare si colgono i segni di un disincanto del mondo e di una crisi epocale di valori, che potremmo anche definire una “crisi di sistema” o di paradigma; ma anche l’affacciarsi di un dubbio salutare sulla liceità di quelle arti magiche che Prospero, nel complesso, ha saputo adoperare per il bene, ma che sono sempre suscettibili di essere strumentalizzate dagli impulsi egoistici e prevaricatori insiti nella natura umana, così come appare in quella geniale rivisitazione dell’ultimo capolavoro shakespeariano che è il film «Il pianeta proibito» di Fred McLeod Wilcox, del 1956.
In altri termini, l’atteggiamento dell’uomo verso le altre specie viventi, quelle già note e quelle ancora ignote, è, in fondo, lo specchio della considerazione che l’uomo ha di se stesso, della sua capacità di riconoscere la propria struttura ontologica e di adoperarsi per la realizzazione dei suoi bisogni e delle sue aspirazioni essenziali.
Il fatto che l’uomo moderno sia sempre più sbilanciato fuori di sé e fuori dall’ambito della propria struttura fondamentale, per inseguire, in modo compulsivo, il miraggio di un dominio totale del reale mediante la tecnica (versione secolarizzata della magia praticata da Prospero), non può non riflettersi in un atteggiamento di disattenzione o, peggio, di disprezzo e di crudeltà, nei confronti delle altre forme di vita, considerate esclusivamente alla stregua di risorse da utilizzare senza limiti e senza scrupoli per le proprie necessità e anche, in larga misura, per la soddisfazione di bisogni  artificiali, indotti dall’immaginario edonistico della pubblicità.
In queste condizioni, è certo che l’umanità nel suo complesso, non è preparata - allo stato attuale -né psicologicamente, né culturalmente, né spiritualmente, all’incontro con forme di vita aliene, a dispetto del fatto che il velocissimo progresso della tecnica renda tale incontro ognora più probabile; e che essa si lascerebbe fatalmente guidare, in una simile eventualità, dal proprio cervello rettile, quello degli istinti primari: paura, egoismo, invidia e aggressività.
Del resto, se usciamo dalla sfera delle speculazioni teoriche e consideriamo gli episodi nei quali l’uomo si è realmente imbattuto in forme di vita aliene, non si può non restare colpiti dalla assoluta inadeguatezza dei suoi comportamenti.
Pur non essendo minacciato direttamente, egli tende ad imbracciare il fucile e a sparare (come abbiamo narrato nell’articolo «Due casi ufologici brasiliani di terrestri uccisi dal “raggio della morte” delle creature aliene», apparso sulla rivista «X Times» n. 18 dell’aprile 2010); o a cercare di distruggere le navicelle aliene, investendole deliberatamente con i propri aerei, come tentò di fare il pilota statunitense George Gorman nei cieli del North Dakota, con il suo Mustang P-51, il 1° ottobre 1948; oppure ancora ad infierire con estremo accanimento, con bastoni e forconi, contro quelle forme di vita che non sa neppure riconoscere, come diremo adesso, a proposito del caso ufologico del cosiddetto “mostro di Omsk” (e si noti che adoperare la parola “mostro” la dice già lunga sul pregiudizio antropocentrico di partenza).
Con tutto ciò non vogliamo dire che l’uomo dovrebbe accogliere in maniera fiduciosa ed inerme qualsiasi incontro con forme di vita aliena; molte possono rivelarsi di natura ostile o potenzialmente pericolosa, come è documentato in diversi “incontri ravvicinati” del terzo e quarto tipo. Pensare che gli alieni siano tutti buoni e solleciti del nostro progresso spirituale è una madornale e sdolcinata ingenuità, tipica di certe correnti New Age che si baloccano parlando a vanvera di evoluzione spirituale, età dell’Acquario, channelling e chissà che altro, senza sapere quasi nulla della vera natura di quelle realtà, che esse maneggiano con allarmante dilettantismo.
E tuttavia, è certo che il tipo umano medio, impastato di impulsi egoistici e aggressivi, privo di sentimenti di compassione verso l’altro, in un incontro con forme di vita sconosciute tenderà a mostrare il lato peggiore della propria natura, dato che la paura dell’ignoto, in una coscienza poco evoluta, non è ma stata consigliera di bene e di pace.
Del resto, come potrebbe essere diversamente, visto come l’umanità si rapporta con le altre specie viventi ad essa già note: con quanta insensibilità provochi la sofferenza e la morte di milioni di animali e con quanta avidità si abbandoni ad una dieta carnivora, che non giova alla sua salute e, nello stesso tempo, tiene sempre desti i suoi istinti omicidi e sanguinari?
Solo quando l’uomo arriverà a considerare l’uccisione di una mucca, di un delfino o di una balena, alla stregua dell’omicidio di un essere umano, e a vergognarsene profondamente, solo allora potremo immaginare che l’incontro con forme di vita aliene non si svolgerà all’insegna della più brutale prevaricazione, qualora si tratti di forme più deboli, e della più abietta paura, qualora si tratti di forme più potenti della nostra.
Così riporta l’episodio del “mostro di Omsk” il ricercatore Peter Kolosimo nel suo ormai classico «Ombre sulle stelle» (Milano, Sugarco Edizioni, 1966, pp. 226-27):

«Non si trascurano [da parte del Comitato Cosmonautico dell’Unione Sovietica, una commissione non ufficiale creata nell’ottobre 1967 per lo studio del problema Ufo] neppure le cronache del passato, dalle quali ci sembra interessante trarre l’enigmatico episodio della “fattoria di Omsk”, anche perché potrebbe deporre a favore della testi di Balabašov, il quale afferma , con molti suoi colleghi occidentali, che la vita deve aver preso, sui pianeti abitati, strade molto diverse da quelle battute sulla Terra.
Una notte dell’autunno del 1972 un contadino abitante nei dintorni di Omsk fu svegliato di soprassalto da un rumore assordante. L’uomo saltò giù dal letto, chiedendosi da che cosa potesse esser provocato quel fracasso infernale; non ne ebbe subito la risposta, ma i nitriti disperati e il tempestare di zoccoli contro una parete di legno gli fecero comprendere senza difficoltà il luogo di provenienza del pandemonio.
Pensando ad un ladro, l’uomo uscì in cortile, impugnò un forcone e spalancò di colpo la porta della stalla. I due cavalli,  pazzi di terrore, lo investirono, gettandolo a terra e galoppando verso l’aperta campagna. Sbigottito e malconcio, l’agricoltore si rialzò, andò a prendere una lanterna e tornò nella baracca, dove trovò già un assembramento di vicini, accorso, allarmati, con lumi e bastoni.
Tutti allibirono, vedendo quanto era accaduto nella stalla. Il locale era attraversato in ogni senso da una quantità di fili argentei, di varia grandezza, tesi disordinatamente fra le pareti, la volta e il pavimento; essi si rivelarono resistentissimi, tanto che gli uomini faticarono non poco a spezzarli a colpi di martello. Quando si furono aperti un varco in quell’intrico scintillante, scorsero nel soffitto un vasto squarcio: pareva che un macigno avesse sfondato il tetto ma, per quanto si guardassero intorno, i contadini non videro traccia del masso. Videro, invece, rintanata presso un mucchio di paglia, una “cosa” dall’aspetto terrificante, senza dubbio viva: una massa biancastra grossa quanto una zucca, che si contraeva aritmicamente, pulsando come un cuore messo allo scoperto. A rendere ancor più ripugnante lo spettacolo, quella “cosa”rotolò verso la parete all’avvicinarsi degli agricoltori, rivelando sulla massa, che era tutto il suo corpo, segni che potevano ricordare i tratti d’un volto umano. Poi, scaturiti dalla mostruosa testa, lunghi tentacoli si protesero verso i presenti. Qualcuno di loro scappò, urlando e pregando; ma gli altri si gettarono sulla malcapitata creatura, colpendola fino a ridurla ad un informe mucchio di viscida materia bianco-bluastra.
Un giornalista che, al seguito della milizia popolare, si recò l’indomani  a dare uno sguardo alla “stalla stregata”, affermò poi che, dalle descrizioni dei contadini e da quanto era rimasto, quella “cosa” assomigliava ad un polipo.  Ma un polipo ad Omsk, ad almeno 1.500 chilometri dal mare più vicino? E, per giunta, piovuto dal cielo a riempire una baracca di fili lucenti? Anche ammesso che il mostro fosse stato scaraventato laggiù da un inconcepibile uragano (ma il cielo era sereno, quella notte, e non spirava un alito di vento), come avrebbe potuto sfondare un tetto, se qualche bastonata era stata sufficiente  a spacciarlo come un mollusco? Propendendo per l’origine spaziale del povero diavolo, si potrebbe cercar forse una spiegazione nella fitta rete argentea, attribuendola al processo di disgregazione di una capsula o di uno scafandro d’ignota composizione.
Vi sono episodi ancor più fantastici negli archivi della commissione sovietica. E nemmeno le descrizioni più puerili vengono cestinate: esse passano a quello che chiameremmo il “reparto folcloristico”, destinato a raccogliere  le storie e le leggende d’ogni età che potrebbero riferirsi  alla comparsa di esseri giunti da altri mondi.
Perché si ritiene utile collezionare anche tali episodi? Semplicemente perché qualcuno d’essi potrebbe basarsi su  fatti reali, deformati dalla fantasia o dalla superstizione.»

Quei contadini siberiani, dunque, agirono verso la creatura aliena “piovuta” nella stalla di Omsk più o meno come dei ragazzi egoisti e cattivi agiscono allorché si imbattono in un rospo sulle rive di uno stagno, divertendosi a massacrarlo a colpi di pietra, senza che egli abbia potuto far loro alcun male: così, solo perché è apparso, ai loro occhi carichi di pregiudizio e di ignoranza, come una creatura brutta e deforme, non meritevole di sopravvivere.
Ma quale destino ci attenderà, qualora lo stesso atteggiamento dovesse animare delle creature aliene molto più forti di noi, sul piano biologico o su quello tecnologico, nel momento in cui i loro passi dovessero incrociare i nostri, sulla Terra o altrove?
Dovremmo riflettere seriamente su tali questioni, sia dal punto di vista etico che filosofico, prima di continuare a mandare missioni spaziali entro il nostro Sistema solare ed anche al di là di esso, con l’orgogliosa sicumera dello sfidante.
Perché, se non siamo adeguatamente preparati all’incontro con esseri alieni, dovremmo preoccuparci di procrastinarne l’eventualità, non di affrettarla.
Sempre che essi non siano già qui, fra di noi, e da molto più tempo di quel che non crediamo; forse, da prima ancora che le nostre civiltà più antiche iniziassero a sorgere, anzi, da prima ancora che l’uomo apparisse sul nostro Pianeta…