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James Joyce: il profumo dell’umano essere

di Graziella Balestrieri - 16/02/2011

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Introduzione a James Joyce.
E chissà perché c’è sempre bisogno di introdurlo. In un luogo, in un contesto sociale, in mezzo al popolo e dissociato da questo. Sopra e sotto una religione, dentro e fuori, quando cammini e non pensi, quando pensi e non sai quello che dici. Introduzione a James Joyce, guida alla lettura. Ed ogni volta rileggendolo come se se stessi rileggendo l’uomo. Per cui la domanda è: io appartenente alla razza umana, non sono in grado di leggere qualcosa che mi riguarda per quale motivo, forse paura o poco interesse di quello che sono? In realtà basterebbe guardarsi dentro, collegare la propria mente alla propria bocca e di istinto sputare. Sputare il proprio essere per avere davanti quello che si è. Perché lo sputo lascia una traccia,e non siamo lo sputo, ma la traccia che il nostro sputo lascia.
 
Fummo tutti spinti da un’insaziabile volontà di sapere chi siamo. Per chi ha letto Joyce. Per chi invece lo ha definito, noioso, pesante, addirittura c’è chi dice che visto l’ultimo periodo della sua vita fu accompagnato da una vista zoppicante, addirittura imputa il suo modo di scrivere al fatto che non vedesse bene. Mi auguro che mi venga questa “svista” letteraria, un giorno. Disse Carmelo Bene che “nemmeno Pound e sto parlando di Pound, c’è un’elettricità in Joyce, nella lingua, che si arrende ai significanti, si rende, ne crea quasi degli incroci continui dai quali non si esce ed i personaggi non esistono. Non c’entra nessuno, non ha ne precedenti purtroppo ha qualche seguace. Io mi auguravo nella mia illusione, nel mio candore giovanissimo, da allora, che dopo questo libro nessuno scriverà libri, finalmente, finalmente si ripubblicheranno i classici. Ed invece no, si continua a scrivere, sonnecchiando cercando di rimuovere l’Ulisse di Joyce, che secondo me non si può rimuovere, ma chissà per quanti anni forse millenni”.
 
E allora chiudersi e non aprirsi. James un dublinese, un irlandese, gli irlandesi si sa come sono, un popolo ubriaco di tristezze e drammi, uno che perdutamente amava la sua terra, e così insaziabilmente disgustato da così tanto suo amore per una patria distrutta decide un esilio volontario girovagando qua e là per l’Europa, trovando patrie e amore in Italia. Trieste, quella Trieste triste così straniera che regalò a lui una profonda amicizia con il mio amato Svevo. Da questo amore mio smisurato, nasce l’idilliaca venerazione nei confronti di Joyce. Sempre ai tempi meravigliosi del liceo per presunzione dico che non è che mi piacessero molto i temi assegnati, così mi inventavo qualcosa di nuovo. E la modestia poi a che serve quando scrivi? Non sono un educatore, non ho figli, non ho giudizi di morale cerco di campare e più o meno con un po’ di presunzione riesco a sviare la modestia che potrebbe essere in me. Ma è inutile, è la cosa che la gente si aspetta, la modestia, io non aspetto la gente quando scrivo, non mi aspetto nessuno, aspetto solo di liberarmi e tutto questo aspettare mi condurrebbe poi all’attesa di chi? Bisogna andare in fretta non aspettarsi o aspettare. Joyce non aspetta nessuno. E’ andato talmente di fretta che gli altri hanno preferito non leggerlo piuttosto che rincorrerlo. Come ora ho fretta di finire quello che sto scrivendo, perché non è dettato da modestia ma da presunzione di raccontare. Si presume di saper raccontare, scrivere è un’altra cosa. E scrivere non fu mai il solo racconto, scrivere era ed è quello che altri non potranno mai capire e che alcuni possono solo sentire: scrivere era inventare un modo nuovo per guardare fuori e dentro. Mi impressionò profondamente gente di Dublino, quasi ad averne uno shock. Ebbi uno shock letterario si intende.
Non conoscevo l’Irlanda i suoi mille drammi, le sue milionarie bellezze, i suoi cieli, i suoi tramonti misti al sangue, ma grazie a quel libro inizia a sentirne il profumo. Ci si innamora nella vita, perché dell’altra pelle ne senti il profumo, ci si innamora del sole, perché se ne sente il calore, degli occhi dell’altro perché se ne sente il bisogno ancora prima di averlo abbandonato già di riaverli accanto. Joyce fu questo, un profumo d’Irlanda, il profumo dell’umano essere. Non ebbi nessuna difficoltà nel linguaggio, proprio perché come dice il supremo Carmelo Bene, Joyce ha quell’immediatezza che nessuno ebbe più e poi un profumo o lo senti o non esiste e se non vuoi sentirlo ti tappi il naso. Non ci si può tappare il naso dinnanzi a Joyce, dinnanzi alla spettacolo della vita, al film della vita riproposto con immagini e profumi in un libro che non racconta ma che dice tutto. Nel primo che acquistai di Gente di Dublino, vi era una vecchia mappa della città durante l’occupazione tirannica inglese e quando mi ritrovai lì nel 2001 avevo così impressa quella cartina che non ebbi difficoltà nel muovermi, erano cambiati solo i nomi ma le strade erano le stesse, appunto i profumi erano gli stessi. Come quando guardi una foto del passato e pensi “guarda come eravamo”. Cosa ti fa andare a questo pensiero, cosa ti porta indietro? Ti porta indietro il profumo del passato che la foto ti dà, l’immagine sbiadita che colpisce, i colori che magari non ci sono più e che si sono persi. Appunto “ora sono un altro, eppure sempre lo stesso”. Joyce fu una fotografia del passato con un’introduzione al futuro. Una corsa all’immagine e all’intenzione migliore. Lui solo ebbe questa capacità e negli occhi e nella mente di una ragazzina 15 enne il mondo cambiò. Se guardate la vignetta, gentilmente concessa da Alfio Krancic, ho chiesto io di far sedere Joyce sul mondo. Joyce sta seduto sul mondo, questo da sempre, va al di là della letteratura, della politica, della filosofia, dell’estetica, l’unico che riesce a stare seduto sopra al mondo e la cosa peggiore è che il mondo non si accorge di avere un uomo così pesante addosso ma ahimè ne sente il soffoco. Banale umanità che ha perso tempo dietro ai libri di Fabio Volo e che non conosce una frase, ma dico una sola frase dei libri di Joyce. Non ne conosce il fiato, l’amarezza legata al dolore, l’abbandono ed il ritorno, il legame alla propria terra. Cosa vuol dire amare ed allontanarsi dal troppo amore. Cosa vuol dire essere mangiato e vomitato, espressione che trovai sublime ai tempi e che i miei occhi non cercano mai di fermare per quanto questa possa rappresentare la bellezza totale del rigetto del cibo paragonato al rigetto dell’esistenza umana. Due dita in gola e vomiti, mangi male bevi tanto e vomiti, vivi e tutto quello potrebbe non appartenerti, tutto quello che ti impedisce il percorso naturale della vita stessa ti fa vomitare. Ma non vomiti. Vieni mangiato e vomitato. Un’immagine tremendamente bellissima e perfetta nella sua tragedia un uomo mangiato e vomitato dalla stessa umanità, la razza. Così introduciamo Joyce al mondo che soffoca. Così cerchiamo di dare “senso” a quel poco di eternità che la storia ed un uomo ci ha donato. Cerchiamo di capire perché da allora, joycianamente parlando siamo divenuti tutti “morti”. Non sono un critico letterario, ho solo un ottimo naso ed il profumo lo so descrivere, credo o mi pare essere stata anche io mangiata e vomitata. Quindi la sensazione mi appartiene.
 
“Ne era cosciente, ma non riusciva a coglierla, quella loro effimera e tremolante esistenza. La sua stessa identità si stava smarrendo in un mondo grigio e impalpabile, e lo stesso mondo materiale, il mondo sul quale quei morti avevano vissuto e procreato, si andava dissolvendo e rimpicciolendo. Sì, i giornali avevano ragione: nevicava su tutta l’Irlanda. La neve cadeva in ogni parte… E l’anima gli si velava a poco a poco mentre ascoltava la neve che calava lieve su tutto l’universo, che calava lieve, come a segnar la loro ultima ora,su tutti i vivi e i morti” (Gente di Dublino,I Morti).
 
La neve, il gelo, la morte, il calar lieve dell’anima: immobilismo della mente umana. Così viva ed immobile nel suo essere da far sembrare tutti i morti. Ed il puzzo dei morti si sente. Appunto odori. Introduzione agli odori.
 
“Io parlo a vanvera. Desisti da codeste ruminazioni”.
 
B. Mulligan (Ulisse)