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Bahrein, gli Usa nel Golfo

di Carlo Musilli - 20/02/2011



L'ondata rivoluzionaria che sta attraversando i paesi nordafricani e mediorientali è arrivata a toccare le coste del Bahrein. Nel piccolo arcipelago del Golfo Persico, il malcontento popolare dura da anni. Ma è stato soprattutto l'esempio egiziano a sdoganare la possibilità di una vera rivolta. La maggioranza sciita, che costituisce il 70% della popolazione, ha deciso così di iniziare a far davvero la voce grossa contro il regime sunnita che da quarant'anni governa il Paese.

Gli scontri sono iniziati lunedì scorso, nei villaggi intorno a Manama, la capitale. I manifestanti chiedono riforme che trasformino il Bahrein da monarchia assoluta in monarchia costituzionale. Vogliono anche le dimissioni del premier, sheikh Khalifa bin Salman al Khalifa, che oltre a guidare il Paese dal 1971 (anno dell'indipendenza dalla Gran Bretagna), è anche lo zio del re, sheikh Hamad bin Isa Al-Khalifa. Dalla rivoluzione egiziana, i contestatori hanno ripreso il principale slogan ("Il popolo vuole il crollo del regime") e la più visibile fra le modalità di protesta: l'occupazione del cuore della capitale. Centinaia di persone si sono accampate così in piazza della Perla, la piazza Tahir del Bahrein.

Ma è stata subito evidente la distanza che corre fra Manama e il Cairo. Nell'isola del Golfo, le forze di sicurezza sono costituite per lo più da siriani, giordani e pachistani. Stranieri che non hanno alcun legame con la popolazione locale. I manifestanti sono stati così attaccati nel cuore della notte, mentre dormivano. A suon di manganelli, pallottole e lacrimogeni, la polizia ha impiegato non più di 20 minuti a sgombrarli. E per evitare che l'episodio si ripeta, oggi la città è presidiata dai blindati dell'esercito. Nel frattempo, il bilancio degli scontri è salito a 5 morti, 60 dispersi e oltre 200 feriti. Com'è ovvio, tutto ciò ha dato il colpo di grazia al già precario equilibrio politico del Paese. Il capo del movimento d'opposizione Wefaq, sheikh Ali Salman, ha ritirato in blocco i suoi 18 deputati dal Parlamento. Quasi la metà, visto che in tutto i seggi sono 40.

"Chiediamo al Bahrein, alleato e amico dell'America, moderazione in vista di possibili nuovi scontri. Gli Stati Uniti sostengono il processo per veri, significativi cambiamenti politici nel Paese". E' questo l'appello lanciato dal segretario di Stato Usa, Hilary Clinton, in tutto simile a quello indirizzato qualche settimana fa a Hosni Mubarak. La verità è che Washington è terrorizzata dalla possibilità di una guerra civile in Bahrein. Per quanto trascurabile possa sembrare a guardarlo su una carta geografica, il Paese ha un'importanza strategica cruciale: è qui che gli Stati Uniti hanno stanziato il quartier generale della Quinta Flotta della loro marina militare.

Per gli americani si tratta dell'unico punto di riferimento che consente di tenere sotto controllo le acque del Golfo. Da questa base le portaerei di Washington sorvegliano il transito del 20% del petrolio mondiale, sostengono le operazioni in Afghanistan e fanno sentire costantemente il fiato sul collo all'Iran. Sempre da qui sono partiti gli attacchi aerei durante la prima e la seconda guerra del Golfo. Perdere il Bahrein, è evidente, sarebbe una catastrofe. Se una rivoluzione portasse al potere un regime sciita, il Paese cadrebbe nelle braccia di Teheran e l'intera geopolitica della zona ne uscirebbe ridisegnata. La base americana più vicina, infatti, è sull'atollo sperduto di Diego Garcia, 1.600 chilometri a sud dell'India.

Come accaduto in l'Egitto con la dittatura di Mubarak, anche in Bahrein gli Stati Uniti sono stati ben lieti di appoggiare per anni un regime che rispondeva perfettamente alle loro esigenze in termini di equilibri internazionali. Una volta scoppiata la rivolta popolare, la democrazia non è la strada migliore da scegliere per motivazioni astrattamente ideologiche. E' piuttosto l'unica alternativa a una possibile debacle. Non è per le vite o per i diritti umani che Washington chiede di scongiurare la guerra civile a Manama, quanto per il rischio inaccettabile per la stabilità dell’area che questa comporterebbe.

Così si spiega la telefonata, di cui lo stesso Pentagono ha dato notizia, fra il segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, e il principe ereditario del Bahrein, Salman. I due avrebbero parlato della "situazione attuale sul piano della sicurezza". E davvero avranno avuto di che discutere, soprattutto se sono veri gli episodi riferiti da Nicholas Kristof, inviato del New York Times sull'isoletta del Golfo. Via Twitter, il giornalista americano dipinge una situazione molto più grave di quella finora raccontata dai media: infermieri minacciati per evitare che soccorrano i feriti, prigionieri giustiziati a sangue freddo in mezzo alla strada, reporter segregati in aeroporto perché nessuno sappia. Nemmeno Washington?