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La giustizia a orologeria

di Massimo Fini - 20/02/2011

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La giustizia a orologeria. Già, ci eravamo dimenticati della “giustizia a orologeria”. Per la verità questa non è un’invenzione berlusconiana, compare per la prima volta ad opera dei socialisti o per essere più precisi dei craxiani (essere stati craxiani non vuol dire essere stati socialisti) quando Alberto Teardo e altri esponenti del Psi savonese furono incriminati e arrestati nel giugno del 1983, prima delle elezioni politiche, per concussione, estorsione, interesse privato in atti d’ufficio, associazione a delinquere. Fu allora che i craxiani gridarono alla “giustizia a orologeria” sostenendo che quelle incriminazioni erano state fatte appositamente per danneggiare il Psi nella libera gara elettorale. Teardo fu poi condannato a 12 anni di reclusione e i suoi complici a pene di poco inferiori. Se il sostituto procuratore della Repubblica Michele del Gaudio avesse dovuto rispettare il calendario elettorale, invece che le esigenze di giustizia, Teardo sarebbe stato eletto parlamentare e, godendo dell’immunità, sarebbe ancora in circolazione a far danni.

Nel caso di Berlusconi non si capisce di quale orologio si tratti, se non del suo. È stato lui a dettare i tempi telefonando la sera del 27 maggio alla questura di Milano facendo pressioni sui poliziotti per determinare la sorte di Karima El Mahroug, detta Ruby. Cosa avrebbe dovuto fare la procura della Repubblica di Milano di fronte a una “notizia criminis” così palese, comprovata dalle relazioni della polizia, ammessa dallo stesso Berlusconi? Ignorarla per non intralciare la vita politica? Questa sì sarebbe stata una “ingiustizia a orologeria”. Quelli del centrodestra continuano a far rullare la grancassa che Berlusconi “ha il consenso popolare”. Devono dirci, una volta per tutte, se il consenso popolare autorizza a commettere reati. Se la risposta è sì, retrocediamo oltre il “monarca costituzionale” che deve rispettare almeno le leggi da lui stesso emanate come fu stabilito dalla “Magna Charta Libertatum” varata nel 1215 in Inghilterra sotto il regno di John Lackland (Giovanni Senza Terra) il fratello intelligente, ma diffamato, del muscolare e cretino, ma onorato, Riccardo Cuor di Leone.

Giuliano Ferrara, nella sua esibizione al Dal Verme, ha detto che non possiamo permetterci di entrare “nell’inconscio di un uomo che ha perso di recente la madre e si è separato dalla moglie”. A parte che perdere la madre quando si hanno più di 70 anni non dovrebbe essere poi così anomalo (ci sarebbe anzi da ringraziare Domineddio che ce l’ha conservata così a lungo…), che vuol dire? Che se uno ha perso i genitori è autorizzato a delinquere? Quanti anni aveva Totò Riina quando perse i suoi? E quanti delitti ho diritto a commettere io, visto che mio padre è morto quando avevo 17 anni? Oltre, e forse più, che di Berlusconi siamo stufi di questi D’Annunzio per meno abbienti, di questi dandy “de noantri”, di questi Oscar Wilde da strapazzo, che alla tenera età di 59 anni non hanno scritto un libro purchessia (non dico “Il piacere” o “Il Ritratto di Dorian Gray”) e si dan grandi arie da intellettuali, che si atteggiano a dei Talleyrand e sono al livello in cui, a teatro, sta la buca del suggeritore, che non hanno mai combinato nulla nella vita se non affossare, come ricordava giorni fa Marco Travaglio in un divertente excursus sul fregnone, qualsiasi impresa cui abbiano partecipato. Eppure Ferrara fa audience, gli si dà ascolto e persino retta. Quel che fa senso in questo Paese, oltre la delinquenza della sua classe dirigente, è la confusione mentale in cui è precipitato.

Massimo Fini