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Quell’Italia che vive nell’Isola dei famosi

di Ernesto Galli della Loggia - 20/02/2011

http://images.movieplayer.it/2008/09/21/isola-dei-famosi-6-il-tronista-giuseppe-lago-e-sullo-sfondo-veridiana-mallmann-e-belen-rodriguez-89269.jpg

Non c’è alcuna prova decisiva né alcuna statistica inoppugnabile che dimostri che il nostro Paese stia andando a rotta di collo verso una sorta di analfabetismo di massa e insieme verso un dilagante involgarimento delle sue abitudini e dei suoi stili di vita o verso l’offuscamento di una certa tradizionale sensibilità al tempo stesso umana e morale. Così come non c’è alcuna prova che in tutto ciò la televisione e i suoi programmi c’entrino qualcosa.
Ci sono però a farcelo sospettare, anzi credere, la nostra percezione, viva, quotidiana; e la nostra intelligenza. Conteranno pure qualcosa! Per mille segni avvertiamo intorno a noi, infatti, che ogni giorno il senso della vita delle persone che abitano questo Paese, l’orizzonte dei loro sentimenti e delle loro emozioni, il loro rapporto con il passato, sono sottilmente ma ineluttabilmente distorti, svuotati, manipolati, corrosi, e poi ricombinati in modi nuovi dalla televisione. È un discorso trito e ritrito, questo sulla televisione? Figuriamoci se non lo so. Ma anche i discorsi sulla mafia o sull’evasione fiscale sono triti e ritriti. I problemi e i mali d’Italia non sono quasi mai nuovi, ahimè: è forse però un buon motivo, allora, per non parlarne? È nello spazio strabordante dei programmi d’intrattenimento che soprattutto si compie la manipolazione distruttiva dell’antropologia italiana. In quei programmi dove— pure senza arrivare ai livelli postribolari di cose come L’isola dei famosi o del Grande Fratello— si mischiano presentatori-guitti, comicastri, sound triviali, corpi seminudi, trovate quizzistiche da quattro soldi e torrenti di chiacchiere sul nulla. È da questa poltiglia che colano ininterrottamente dalla mattina alla sera nella testa di milioni di italiani modelli di comportamento posticci e spregevoli, disprezzo implicito per ciò che è intelligente e frutto di tenacia e di sacrificio, l’idolatria dell’apparire, l’ammirazione per tutto ciò che è esagerato, sgangherato, enfatico, superfluo, ai danni di ciò che invece è normale e appropriato. Non so se anche altrove esistano programmi così fatti e in tale numero: mi pare proprio di no. Quello che è certo è che in Italia l’effetto è stato ed è particolarmente devastante. La disgregazione delle grandi periferie metropolitane, una cultura popolare ritrovatasi a causa dell’urbanizzazione repentina e massiccia privata delle sue antiche basi, strati giovanili a cui l’acculturazione scolastica non dice e non dà più nulla, tutto ciò ha prodotto un vuoto in cui il modello turpe-televisivo ha trovato e trova facile modo di imporsi a suo piacere. Ma non bastano queste spiegazioni. Deve essere accaduto nel nostro Paese qualcosa di particolarmente rilevante e specifico, se in nessun altro luogo d’Europa si vede tanta televisione e così a lungo ogni giorno come da noi; se visibilmente essa ha un effetto così vasto e condizionante; se in nessun luogo d’Europa le più clamorose futilità televisive sono capaci di suscitare tanta attenzione e discussione come in Italia. Ciò che è accaduto è che da decenni, in realtà, la poltiglia televisiva costituisce il surrogato dell’egemonia culturale sulla società italiana che le sue classi dirigenti non sono più capaci non dico di esercitare ma neppure di immaginare. La rottura è avvenuta intorno alla metà dei Settanta, non a caso quando cominciò la lenta decomposizione del quadro politico-intellettuale della Prima Repubblica e iniziò, contemporaneamente, a proliferare la televisione commerciale. Da allora chi ha la direzione effettiva della vita spirituale italiana, chi sempre di più determina i suoi stili e il suo «discorso» , è la televisione. Ciò che ha la sua conferma nel fatto che in nessun altro Paese d’Europa come nel nostro il pubblico televisivo è così interclassista, copre tutti gli strati sociali, compresa quella che si dice l’élite. In Italia tutti vedono la televisione. E solo in Italia tutto ciò che non passa sullo schermo non esiste. Anche l’Unità d’Italia e il suo inno esistono solo se è la Tv che ne parla, sia pure per bocca di un teatrante geniale come Benigni. Tutti sono in certo senso costretti a vedere la televisione, perché alla fine vederla è, paradossalmente ma anche molto concretamente, il solo modo che esista oggi di essere italiani, di partecipare in qualche modo a una comunità culturale che altrimenti come tale non ha voce, né centro, né effettivi protagonisti nazionali. Considerazioni come queste che sto facendo si concludono in genere con la messa sotto accusa di Berlusconi quale artefice primo e massimo «utilizzatore finale» (politico) dell’egemonia televisiva. Ora, è vero che Berlusconi ha impiantato da noi la televisione commerciale: ma la pubblicità televisiva e la televisione commerciale fino a prova contraria esistono anche in molti altri Paesi. L’egemonia televisiva (a sfondo commerciale, certamente) è tutt’altra cosa: e non l’ha creata Berlusconi. Non è il frutto della malizia di un uomo, è il prodotto di una storia. È il prodotto della storia d’Italia: della fragile modernizzazione postbellica sempre più priva di una guida forte, della debole e superficiale scolarizzazione, della pochezza e dell’incertezza delle classi dirigenti, della progressiva latitanza della politica. Ed è per questo che oggi nella brutalità sommaria di quest’egemonia televisiva ci stanno dentro tutti, destra e sinistra. In una trasmissione di Santoro c’è una dose di approssimazione impudica, di aggressività e di cialtroneria italiota almeno pari a quella del peggiore palinsesto di Mediaset. E chi finge di non accorgersene è solo perché conta di prendervi parte per avere agio di aggredire il nemico di turno.