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Affittasi rivoluzione

di Simone Santini - 24/02/2011

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Non esiste solo la guerra. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un fenomeno di espansione della sfera di influenza imperiale americana con metodologie più o meno morbide di estrema efficacia. Spesso si è trattato di semplici strategie diplomatiche ed economiche che hanno trasformato vecchi nemici in volenterosi alleati. Ci riferiamo in particolare a nazioni che aderivano al tramontato Patto di Varsavia, come Polonia, Romania, Bulgaria, o le Repubbliche baltiche, che senza colpo ferire da parte americana, rappresentano ora dei veri bastioni filo-occidentali nel cuore dell’Europa. Da un lato vigili guardiani nei confronti di un’integrazione europea che non sia troppo indipendente, dall’altro dei cuscinetti (o spine nel fianco) verso il colosso russo ancora in fibrillazione e con rinnovate propensioni bipolari sotto la presidenza Putin. È interessante notare che, in quasi tutti i casi sopra citati, sono stati governi o presidenti di derivazione neo-comunista a presiedere a tali svolte. In chiave storiografica sarebbe interessante e utile comprendere se si sia trattato di un fenomeno del tutto nuovo o frutto di un disegno strategico complessivo risalente nel tempo.

In queste pagine vogliamo approfondire un fenomeno complementare a quello sopra indicato, ovvero le cosiddette “rivoluzioni di velluto”, che negli ultimissimi anni stanno ridisegnando la mappa politica dell’Europa orientale e Asia centrale, con una puntualità e precisione che sembra smentire sia la casualità, sia la auspicata (da taluni) contagiosità della democrazia.

Il parto primigenio di questa nuova strategia è avvenuto in Serbia, alla fine degli anni ’90. La Repubblica Federale di Jugoslavia si era sfaldata drammaticamente dietro le spinte secessioniste di Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, con una cruda guerra civile nel cuore dell’Europa. Solo la Serbia (allora formalmente ancora Jugoslavia) sembrava ricordare (sebbene come una sorta di spettro) quell’esperimento economico, sociale, ed interetnico che fu la Repubblica socialista di Tito. La crisi economica e politica assediava il regime di Belgrado, e il suo presidente, il tristemente noto Slobodan Milosevic. Nasceva in quegli anni il movimento popolare Otpor (Resistenza) una organizzazione giovanile di opposizione civile e politica che faceva del movimentismo e della protesta di piazza nei grandi centri urbani i suoi cavalli di battaglia. Il regime di Milosevic resistette, anche grazie al consenso elettorale. Lo scossone definitivo venne determinato solo dalla crisi e dalla guerra del Kosovo. Nel 2000 Milosevic ricorse alle urne come ultimo tentativo per sfuggire all’assedio della società civile e della comunità internazionale. Ma, quella volta, la pressione della piazza che gridava ai brogli travolse il regime.
L’opera di Otpor fu determinante in quei giorni di ottobre, i ragazzi della resistenza serba diventarono simbolo e motore della rivoluzione morbida di Belgrado, al grido di “E’ finito” (Gotov je) e “E’ ora” (Vreme je). Anni di lotte avevano portato l’originario spontaneismo di Otpor ad affinare sempre più le armi e le tecniche per il raggiungimento dei propri scopi politici. La mobilitazione di piazza, per essere efficace, richiede raffinate strategie di pianificazione, organizzazione, tecniche di comunicazione, nonché, ovviamente, disponibilità finanziaria. Otpor aveva senza dubbio dimostrato di possedere per intero il know how.
Oggi l’organizzazione Otpor non esiste più, si è ufficialmente sciolta nel settembre 2004 dopo il fallito tentativo di entrare attivamente nel palazzo trasformandosi in partito politico. Ma la sua eredità è vitale più che mai. Dalle ceneri di Otpor sono nate diverse organizzazioni, piccole e grandi, che continuano con la stessa combattività il lavoro svolto nel passato.
La più nota di queste si chiama “Centro per la resistenza non violenta”, ed è stato fondato da alcuni dei leader storici di Otpor, in particolare Stanko Lazendic e Aleksandar Maric, e l’attività di questi esponenti è stata fondamentale per il successo dei movimenti di massa che hanno portato ai mutamenti di regime in Georgia e in Ucraina.

Non è un mistero che dal 2000 i vertici di Otpor abbiano partecipato ad una serie di seminari intensivi tenutisi in Ungheria sui “metodi di combattimento non violento” e presieduti dall’ex colonnello dell’esercito americano Robert Helvy. Lo stesso Helvy ha dichiarato alla stampa serba di essere stato assoldato dall’Istituto internazionale repubblicano di Washington per addestrare i giovani di Otpor alla battaglia che li attendeva. In quei mesi del 2000 le autorità serbe rilevarono un “sorprendente numero di giovani che andavano a visitare il monastero ortodosso di Sent Andrej in Ungheria” mentre la loro meta era l’Hotel Hilton di Budapest, dove si tenevano i seminari di addestramento.
Lo stesso Stanko Lazendic ammette esplicitamente: “Allorché l'Otpor ha rovesciato Milosevic ed è divenuto celebre nel mondo intero, ci hanno contattato organizzazioni di tutti i paesi dell'Europa dell'est. Come formatori dell'Otpor, noi abbiamo partecipato a numerosissimi seminari. A titolo individuale. Io sono andato in Bosnia e in Ucraina, Maric è stato in Georgia e in Bielorussia […] Quello che lui ci ha insegnato [riferendosi al colonnello Robert Helvy, n.d.r.] noi ora lo insegniamo ad altri. Come creare un movimento d'opinione contro il regime attraverso il materiale di propaganda o le manifestazioni di piazza”.
Lo stesso Lazendic nega di aver mai pensato o saputo che Helvy lavorasse per la CIA. Ma certo, dopo queste rivelazioni, non appaiono peregrine le voci delle autorità ucraine e bielorusse che hanno tacciato i membri dell’organizzazioni di essere provocatori professionisti al servizio di interessi stranieri. “Istigatori di colpi di stato” e “pericoli pubblici” secondo l’ex presidente ucraino Leonid Kouchma e l’attuale bielorusso Alexander Lukashenko. Non dissimile il giudizio che dava su di loro ai tempi del suo potere il regime di Milosevic: “agenti stranieri e traditori della patria”.
È evidente che chi lavora per cambiare il volto di un paese e allontanarne la classe dirigente non sia visto di buon occhio dall’establishment. Non di meno, le azioni e le metodologie dei leader di Otpor lasciano molti dubbi sull’argomento, i training da loro organizzati sono poi sfociati in autentiche rivolte di piazza in due paesi fondamentali della scacchiera internazionale: Georgia e Ucraina.
In interviste alla stampa (una di queste trasmessa da Rai3 ad opera dell’inviato Ennio Remondino) i dirigenti che vengono da Otpor fanno di tutto per minimizzare il loro ruolo ed il loro intervento in quelle zone calde. Salvo ammettere tranquillamente, poi, che in Georgia la piazza ha perfino utilizzato i simboli e le canzoni di Otpor, senza nemmeno tentare soluzioni autoctone, e che dopo l’insediamento del nuovo presidente Mikhail Saakashvili ai danni del defenestrato Eduard Shevarnadze, nessuno di loro ha più sentito il bisogno di recarsi in Georgia.

Ciò che detta sospetto è che le due citate non sono nazioni qualsiasi, al contrario, sono paesi strategici e con caratteristiche piuttosto simili. La Georgia è uno snodo fondamentale in quel crogiuolo etnico che è il Caucaso, nonché passaggio obbligato per gli oleodotti e gasdotti che dal Mar Caspio sfociano in Turchia. La repubblica caucasica ha altresì una posizione geografica che permette il controllo di tutte quelle regioni nel sud della Russia (in primo luogo la Cecenia) in continua ebollizione. Non dissimile la situazione dell’Ucraina, a metà strada tra occidente e oriente (culturalmente oltre che geograficamente), fondamentale nelle rotte commerciali est-ovest, che abbraccia il Mar Nero, a cui già Zbigniew Brzezinski nel suo studio “La grande scacchiera” aveva dato un ruolo di massimo rilievo come ago della bilancia per il controllo sulla Russia.
Ultimo, ma fondamentale aspetto, che accomuna i due paesi, è la presenza militare, simultanea, sia degli Stati Uniti che della Russia, i primi come ospiti recenti, i secondi come retaggio dell’Impero sovietico. Ma i nuovi regimi di Saakashvili e Yushenko sembrano aprire la porta ad un controllo non più condiviso, ma semplicemente unilaterale, delle forze armate a stelle e strisce su Georgia e Ucraina.
Mentre Bush è acclamato come una sorta di liberatore dalla folla oceanica di Tblisi durante il suo recente viaggio in Georgia, altrettanto esemplare è il caso dell’Ucraina: già si sussurra di un ingresso di questo Paese nella Nato, già sembrano destinate allo smantellamento le navi da guerra (ormai arrugginite, a dir la verità) della storica flotta dell’Armata rossa nei porti della Crimea, a Sebastopoli. L’Unione Sovietica è finita da tempo, perché mai dovrebbe controllare militarmente il Mar Nero? Putin dovrà mettersi il cuore in pace.

Ma se questi Paesi vogliono democrazia e libertà alla occidentale, e riescono a conquistarle in modo, addirittura, non violento… dov’ è il problema?
Scrive il giornalista ed eurodeputato Giulietto Chiesa: “L'ingerenza sovietica di un tempo era grossolana, palese. Quella di oggi, invece, ha l'aria di una spontanea e massiva protesta popolare. Sembra che avvenga per caso, come effetto di una lunga sedimentazione democratica autonoma e autoctona. Naturalmente non è vero niente. In Bielorussia, come in Ucraina, come in Georgia, come nella ex Jugoslavia, scorrono fiumi di denaro, a sostegno degli oppositori; si organizzano a centinaia, a migliaia, borse di studio; si pagano viaggi e soggiorni, si finanziano giornali e radio; si inaugurano fondazioni , si stampano bollettini, si promuovono campagne”.
Che la propagazione della democrazia in questi paesi non sia casuale, sembrano dimostrarlo in maniera lampante altri due casi recenti e opposti.

Lo scenario è quello delle Repubbliche dell’Asia centrale, nate anche loro dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, centrali per il controllo dell’Heartland, quello spazio che fin dai tempi dell’imperialismo britannico consentiva di dominare simultaneamente le potenze regionali di allora (che di fatto sono le stesse di oggi): Russia, Cina, Iran. Il primo teatro di scontro è stato il Kirghizistan, uno stato piccolo e povero ma strategicamente centrale. Questo paese ospita due basi, a pochi chilometri l’una dall’altra, la prima americana e la seconda russa. Il presidente Askar Akayev ha però giocato una partita troppo pericolosa: tenere i piedi su due staffe e cercare di ottenere profitti su entrambi i tavoli da gioco. Le mosse di riavvicinamento a Mosca dopo un periodo più marcatamente filo-atlantico non sono evidentemente piaciute a qualcuno.
Scrive il giornalista Maurizio Blondet: “Con l’annuncio, il 5 giugno 2003, dell’estensione di tre anni per l’affitto della base Usa in Kirghizistan, con la decisione russa di stazionare le proprie forze a Kant (la base aerea a soli 20 chilometri da quella americana) e con il nuovo interesse della Cina ad accrescere i legami militari con Bishkek, il Kirghizistan è divenuto il centro delle rivalità delle grandi potenze in Asia […] Nel febbraio scorso, il ministro degli Esteri kirghizo Aitmatov annuncia che Washington non avrà il permesso di far partire dalla base kirghiza i grandi aerei radar AWACS, con cui da quella zona si può spiare comodamente la vastissima area della Cina meridionale, e tenere sotto controllo ogni mossa russa e iraniana. Peggio: lo fa dopo un viaggio a Mosca, in cui viene deciso che Putin potrà rafforzare pesantemente di equipaggiamenti militari la sua base kirghiza a Kant. In cambio, apparentemente, dell’appoggio di Putin per le imminenti “libere elezioni” parlamentari kirghize del 27 febbraio, e per le ancor più cruciali votazioni presidenziali di ottobre prossimo. Insomma Akayev il presidente dittatore è tornato a porsi sotto l’ala della Russia”. Questo ondivagare deve essere sembrato inaccettabile. Sfruttando le rivalità tribali tra le componenti del sud e quelle nordiche del clan di Akayev, la democrazia è arrivata anche in Kirghizistan sulle ali di una rivolta popolare che contestava i risultati delle elezioni. Di nuovo Blondet è netto nel giudizio e rivela senza mezzi termini il carattere dei rivoltosi: “Si tratta di gruppi criminali, enormemente arricchitisi (grazie agli Usa) con l’inoltro e lo spaccio mondiale dell’oppio prodotto nel confinante Afghanistan”. Akayev si è trovato di fronte ad una scelta: scatenare la repressione e trascinare il Kirghizistan nella guerra civile, oppure ritirasi a Mosca in attesa di tempi migliori per una eventuale rivincita. La scelta, evidentemente su consiglio di Putin, è andata sulla seconda ipotesi.
In un paese confinante, l’Uzbekistan, le cose sono andate in modo profondamente diverso. Nel mese di maggio i ribelli islamici hanno assediato la prigione e i palazzi istituzionali della cittadina di Andijan, nella valle di Fergana. La reazione di uno dei tanti presidenti padroni di quelle zone non si è fatta attendere. Il presidente Islam Karimov ha dato ordine di reprimere la rivolta. Le truppe speciali hanno sparato sulla folla con centinaia di morti. Nessuna fonte ufficiale ha potuto verificare i fatti, la stampa internazionale è stata allontanata, le voci dissenzienti messe a tacere. A livello internazionale si è udita qualche debole critica, ben presto dimenticata. Alla base di tutto sta il rapporto privilegiato tra il presidente Karimov e gli Stati Uniti, ai quali sono state concesse basi e piena disponibilità del territorio uzbeko. Forte di ciò, qualunque rivolta interna può essere bollata come tentativo insurrezionale di “terroristi islamici” e repressa nel sangue.

Continuerà questa strategia? I due prossimi banchi di prova appaiono vicini. Tra pochi giorni si svolgeranno le elezioni in Iran, momento che gli Stati Uniti attendono con trepidazione per dare il via alla spallata finale al regime degli ayatollah. In questi giorni pre-elettorali si è assistito ad attentati terroristici con numerosi morti e l’accendersi di rivalità tra le componenti etniche iraniane che storicamente hanno convissuto tranquillamente. Strategia della tensione? Prime avvisaglie dello smembramento dell’Iran?
Un’altra area, la Bielorussia di Lukashenko, il fascista rosso che non si rassegna al declino della Nazione russa panslava, è sotto l’occhio attento della comunità internazionale. Contro il presidente padrone ha tuonato Condoleeza Rice. La Bielorussia è, secondo il Segretario di Stato americano, “l’ultima dittatura rimasta in Europa”. Presto la democrazia potrebbe andare a bussare anche alle porte di Minsk.

15 giugno 2005

Fonti dell’articolo:

Osservatorio sui Balcani, in particolare gli articoli:
http://www.osservatoriobalcani.org/article/view/3579 http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/3684/1/49/
http://www.osservatoriobalcani.org/article/view/3621

ComeDonChisciotte per gli articolo di Giulietto Chiesa e Maurizio Blondet:
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=916
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=814