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Libia ipocrisie ed ambiguità

di Sergio Romano - 24/02/2011




Silvio Berlusconi ha trattato la questione libica a suo modo e con il suo stile, vale a dire con una concezione dei rapporti internazionali in cui la chiave del successo è il grado di intimità che il presidente del Consiglio riesce a stabilire con gli uomini di Stato stranieri. Nel caso di Gheddafi questa impostazione ha prodotto risultati grotteschi e indecorosi.

Abbiamo dovuto sopportare i capricci del Colonnello, i suoi ritardi, i suoi sgarbi, le sue uniformi, la tenda di villa Doria Pamphili e quella sorta di harem ideologico in cui il leader esponeva la sua filosofia a una platea di giovani donne scelte sulla base della loro avvenenza.

È naturale, in queste circostanze, che la crisi del regime libico e il modo in cui Gheddafi sta trattando i suoi connazionali siano un duro colpo per la diplomazia del presidente del Consiglio e lo espongano a molte critiche.

Ma non vorremmo che i grandi problemi del nostro Paese venissero trattati ancora una volta in funzione degli effetti che potrebbero avere sulle sorti politiche di Berlusconi. Se vogliamo parlare della cosa seriamente dovremmo almeno ricordare che il presidente del Consiglio ha fatto, anche se con formule talora criticabili, quello che era stato tentato con minore successo da quasi tutti i suoi predecessori.

Quando Gheddafi, nell'estate del 1970, ordinò l'espulsione dei circa 15.000 italiani che vivevano allora nel Paese, il presidente del Consiglio fu dapprima Mariano Rumor, poi Emilio Colombo, ma il ministro degli Esteri in entrambi i governi fu Aldo Moro.

Qualcuno sostenne che occorresse reagire energicamente, ma nessuno riuscì a precisare che cosa si dovesse intendere per «energia». Prevalse la linea di Moro, vale a dire la convinzione che l'Italia non potesse aprire una partita simile, per qualche aspetto, a quella che la Francia aveva definitivamente perduto in Algeria otto anni prima. Come la Francia, del resto, anche noi avevamo sull'altra sponda del Mediterraneo interessi petroliferi e più generalmente economici che andavano per quanto possibile tutelati.

Buona o cattiva, questa fu la linea politica di tutti i ministri degli Esteri italiani da Giulio Andreotti a Gianni De Michelis, da Lamberto Dini a Massimo D'Alema.

Come in altre questioni l'Italia ha dimostrato che nella storia della politica estera soprattutto degli ultimi quarant'anni la continuità è molto più frequente della rottura. Ogni governo, quale che fosse il suo colore, ha cercato di negoziare con Gheddafi una specie di trattato di pace.

Abbiamo adottato una linea cinica e indecorosa? Forse conviene ricordare che i primi aerei dell'aeronautica militare libica, dopo il colpo di Stato, furono i Mirage francesi; che la Germania contribuì alla creazione in Libia di una industria chimica; che gli americani, dopo avere inutilmente cercato di uccidere Gheddafi nel 1986, revocarono le sanzioni non appena il Colonnello rinunciò alle sue ambizioni nucleari; che la Gran Bretagna, nell'agosto del 2009, ha liberato e restituito alla Libia, per «ragioni umanitarie», il responsabile del sanguinoso attentato del dicembre 1988 nel cielo di Lockerbie.

Ora, naturalmente, nessun governo europeo può astenersi dal condannare le violente repressioni di Bengasi e di Tripoli.

Noi, in particolare, abbiamo il diritto e il dovere di alzare la voce contro Gheddafi e i suoi metodi. Ma cerchiamo almeno di farlo senza cogliere l'occasione per combattere una ennesima battaglia di politica interna. Nel momento in cui in Libia si muore lo spettacolo sarebbe particolarmente indecoroso.